Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
9. 
Nonostante i pipistrelli fossero animali sacri ai cultori del satanismo, a Saverio 
Moneta facevano schifo. Per fortuna il cappuccio della tonaca lo riparava. Dal soffitto 
della catacomba precipitavano sassi e terra e tutto tremava. Gli invitati sembravano 
impazziti, si dibattevano tra topi e pipistrelli. Nessuno però osava addentrarsi nel buio 
delle gallerie. L’unica cosa che riuscivano a fare era urlare come tante scimmie chiuse in 
gabbia. 
Intanto i russi zitti zitti se ne erano andati. Doveva seguirli e cercare una via d’uscita. 
Ma in quella bolgia non riusciva ad avanzare. Si spostò verso il muro, strisciando contro 
la roccia. 
– Maestro! Che gioia! – Un ragazzo, nudo e impiastricciato di terra, gli si avventò 
contro e lo afferrò per la tunica. – Maestro sei arrivato! Meno male. Sto erigendo il 
tempio a futura memoria. 
– Cosa? – Saverio non capiva. Il ragazzo si era inginocchiato di fronte a lui. Le grida 
della gente, le vibrazioni del cimitero e i boati lontani lo assordavano. – Che hai detto? – 
Si abbassò per sentire. 
– Ci siamo. L’orrore è qui. 
Un grosso frammento della volta crollò in mezzo alla folla. Una nube di terra avvolse 
tutto. Gli invitati si scontravano fra loro come ombre nella polvere. 
L’ex leader delle Belve guardò il tipo negli occhi e capi che era fuori di testa. – Scusa, 
devo andare – . Il ragazzo gli si appese addosso. 
– L’orrore! L’orrore! La terra non è di nessuno. 
Mantos cercò di liberarsi dalla stretta. – Lasciami. Fammi andare, per favore. 
– Dovresti capire e non capisci. Fratello che uccide fratello. Questo è il mondo nostro. 
Le macerie avevano seppellito una donna, tra i sassi spuntava la gamba. Sul polpaccio 
magro le saliva il lungo tatuaggio di un’edera che scompariva tra i detriti. 
Saverio, disperato, si trascinò il pazzo che continuava a parlare. – Tu mi devi indicare 
la strada e invece ci vuoi abbandonare. 
Mantos gli tirò un calcio e finalmente riuscì a scrollarselo di dosso. – Ma che vuoi da 
me? 
Il pazzo, inginocchiato a terra, lo guardò negli occhi. – Tu lo sai che devi fare. 
Mantos arretrò terrorizzato. Per un istante gli era sembrato che quello fosse Zombie. 
– Ma tu chi cazzo sei? – balbettò l’ex leader delle Belve e cominciò a correre verso la 
galleria facendosi largo a testa bassa. 
In un angolo vide Larita. 
Saverio s’inchiodò. 
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La ragazza era rannicchiata a terra e la gente la calpestava. 
Devi finire il tuo compito! Devi sacrificarla. Almeno la mia morte sarà valsa a 
qualcosa, gli sembrò che gli dicesse Zombie. 
Urlò e combattendo contro la corrente degli invitati, facendosi spazio a pugni e 
gomitate, raggiunse la cantante. 
La ragazza aveva la bocca spalancata, le guance infuocate, e cercava di ingoiare aria 
come se avesse un attacco di asma. 
Saverio le fece scudo con il corpo. L’avrebbe tirata fuori da quel buco e portata sopra 
Forte Antenne. Li l’avrebbe sacrificata in onore di Zombie. 
Larita singhiozzava. – Ho avuto un attacco di panico. Non riuscivo a respirare. E tutti 
mi camminavano sopra. 
– Ci sono io – . Mantos la strinse forte tra le braccia. 
Lentamente la ragazza riprese a respirare. Si asciugò le lacrime e lo guardò per la 
prima volta. Vide la tunica nera. – Tu chi sei? 
Lui rimase in silenzio, senza sapere che rispondere. Avrebbe voluto dirle la verità. 
Sussurrargliela in un orecchio. Io sono il tuo assassino. Ma le disse: – Non mi conosci. 
– Sei così gentile. 
– Ascolta, qui non possiamo restare. Tirati su. Ce la fai a camminare? 
– Credo di sì. 
– Allora forza, proviamoci – . La afferrò per un fianco e la mise in piedi. 
Lei gli prese una mano. – Grazie. 
Lui la guardò in quegli occhi color nocciola. 
E chissà, forse Saverio Moneta detto Mantos glielo avrebbe detto che non doveva 
ringraziarlo. Forse per la prima volta in tutta la sua vita avrebbe avuto le palle di dire… 
Come diceva il tipo nudo? 
L’orrore! Sì, l’orrore di una vita tutta sbagliata. 
Chissà cosa le avrebbe detto se un’ondata d’acqua scura e schiuma non li avesse 
travolti e trascinati via con sé. 
Fabrizio Ciba avanzava per una galleria facendosi luce con l’accendino. Non si 
vedeva un accidente e ogni dieci passi inciampava in un mucchio di terra o in un buco. 
Gli dispiaceva di avere abbandonato Larita. Ma con lei dietro non ce l’avrebbe mai 
fatta a salvarsi. 
Solo i più forti sopravvivono. Se non hanno una zavorra da trascinarsi. 
Il rumore, alle sue spalle, era diventato assordante. 
Si girò di scatto e al lume della fiammella vide un muro d’acqua che gli veniva 
incontro, nero e furioso. 
– Che palle… – riuscì a dire prima che l’acqua lo rigirasse come un panno sporco in 
una lavatrice e lo prendesse con sé come fosse zavorra. 
Piero Ristori aveva settantasette anni e viveva a via di Trasone, a pochi passi da Villa 
Ada. Era andato in pensione da dieci anni. E da quando aveva smesso di lavorare faceva 
fatica a dormire. Alle due si svegliava e rimaneva steso nel letto aspettando la luce del 
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giorno. Inchiodato accanto al corpo dormiente di sua moglie, ricordava. Nel silenzio 
scandito dal ticchettio della sveglia tornavano a galla, come gnocchi messi a bollire, 
immagini della sua infanzia a Trento. Ricordava l’adolescenza, il collegio, le vacanze in 
Liguria. Con nostalgia rivedeva sua moglie giovane, in costume, bella da togliere il 
fiato, sdraiata su un pattino di Cesenatico. La prima volta avevano fatto l’amore senza 
nemmeno essere sposati. E poi Roma. La redazione del giornale. Migliaia di articoli 
scritti in fretta e furia. Il rumore delle macchine da scrivere. I portacenere ricolmi di 
mozziconi. I pranzi all’osteria La gazzella con i colleghi. E soprattutto gli tornavano in 
mente i viaggi. Le Olimpiadi di Helsinki. I campionati di atletica a Oslo. I mondiali di 
nuoto negli Stati Uniti. Una portoghese con la frangetta e le lentiggini di cui non 
ricordava più il nome. 
Nel buio della sua stanza da letto una struggente malinconia afferrava Piero Ristori e 
gli strappava dal petto il respiro. Di tutta la sua vita gli erano rimasti solo inutili e 
sconnessi ricordi. Sensazioni, odori e la voglia di tornare indietro. 
Che vita fantastica aveva avuto. Almeno fino a quando non era andato in pensione. 
Da quel momento gli era stato chiaro. Era un vecchio, e quello era il purgatorio in terra. 
Alle volte rimpiangeva di non essere abbastanza rincoglionito (come la gran parte dei 
suoi amici) da non rendersene conto. Era dolorosamente consapevole che il carattere gli 
era cambiato. Si irritava per ogni stronzata, detestava i giovani, la confusione, quelli che 
avrebbero continuato a vivere mentre lui era cibo per i vermi. Aveva collezionato tutti i 
difetti della vecchiaia e nemmeno un pregio. 
L’unico momento che amava della giornata era quando la luce cominciava a filtrare 
attraverso le serrande e gli uccelli prendevano a cantare. Scattava dal letto con un senso 
di liberazione e usciva da quel sepolcro in cui giaceva incosciente sua moglie, si vestiva 
e portava Max, il piccolo Jack Russell, a fare i bisogni. La città era silenziosa e 
tranquilla. Comprava il latte e il pane fresco al mercato e poi i giornali. Si sedeva su una 
panchina di Parco Nemorense (prima andava a Villa Ada, era incredulo che il Comune 
avesse potuto venderla) e sfogliava i quotidiani, lasciando libero Max di correre un po’. 
Quel giorno era arrivato dal giornalaio di via Salaria una decina di minuti in ritardo 
rispetto alla sua tabella di marcia. La sera precedente si era preso una pasticca di 
sonnifero per non sentire l’inferno della festa di Salvatore Chiatti. Tutto il giorno il 
quartiere era stato bloccato per i comodi di quel mafioso. 
Piero Ristori comprò «Il Messaggero», «La Gazzetta dello Sport» e «La Settimana 
Enigmistica» da Eugenio, il giornalaio, che stava finendo di aprire i pacchi di quotidiani 
appena scaricati. 
– Buongiorno dottore. Li ha sentiti ieri gli scontri tra la polizia e i manifestanti? 
Max adorava, per ragioni oscure, farla davanti all’edicola. Piero Ristori tirò il 
guinzaglio, ma il cane oramai aveva già cominciato. – Li ho sentiti. Eccome se li ho 
sentiti. Devono morire tutti. 
Eugenio si sgranchì la schiena dolorante. – Dice che c’erano Paco Jiménez de la 
Frontera, Milo Serinov e tutta la Magica. 
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Il vecchio tirò fuori dalla tasca della giacca una bustina di plastica per raccogliere lo 
stronzo di Max. – E chi se ne frega. Lo sai, lo sport non mi interessa più. 
Eugenio stava per replicare, chiedendogli perché allora comprava ogni giorno «La 
Gazzetta dello Sport», ma non gli andava di mettersi a questionare con quel vecchio 
scorbutico. Che peccato. Era stato un grande giornalista sportivo, una persona simpatica, 
ma da quando era andato in pensione si era incarognito e odiava il mondo. 

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