Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

Io invece quando me ne andrò in pensione sarò una persona migliore, si disse il 
giornalaio. Potrò finalmente andarmene al lago di Bolsena a pescare. Devo stringere i 
denti per altri ventidue anni. 
Piero Ristori diede un’occhiata alla prima pagina della «Gazzetta». Si parlava 
dell’ingaggio milionario di un calciatore francese. – Lo vedi? È solo una questione di 
soldi oramai. Lo sport, quello vero… 
Avrebbe voluto concludere la frase dicendo ciò che ripeteva ogni giorno a sua moglie. 
Lo sport, quello vero, quello delle vecchie Olimpiadi, è morto. 
Ma un boato improvviso lo zitti. Si girò verso la Salaria, ma non vide nulla. Il rumore 
però continuava. 
Si passò una mano sulla fronte… Gli ricordava qualcosa. Il boato che si sentiva 
camminando sulla diga di Ridracoli, in Emilia-Romagna, dove andavano a villeggiare 
d’estate con i figli. Era un suono inconfondibile, simile a quello di una turbina d’aereo. 
Il vecchio giornalista, con lo stronzo di Max in una mano e i giornali sotto il braccio, 
strizzando gli occhi dietro le lenti da vista continuò a guardarsi intorno. Via Salaria era 
sgombra e tutto sembrava normale. 
Anche Eugenio si guardava intorno perplesso, aggrottando le sopracciglia. Max 
invece sembrava impazzito, tirava il guinzaglio e mugolava come se avesse visto un 
gatto. 
– Stai buono… Cristo di… 
Per la seconda volta un rumore lo zittì. Questa volta sembrava più un fischio acuto. 
Eugenio guardava in alto. Piero Ristori spostò lo sguardo in su e vide nel cielo sgombro 
di nuvole un disco nero che roteava più in alto dei palazzi, sopra la strada. Ebbe il tempo 
di capire che era il coperchio di un tombino e il disco di bronzo ricadde giù, dritto come 
un fuso, e s’incuneò nel tetto di una Passat Variant. I finestrini esplosero, le ruote si 
piegarono e l’allarme cominciò a suonare impazzito. 
Con la coda dell’occhio il vecchio giornalista si accorse che dal marciapiedi di fronte 
si sollevava, come il collo di un cobra, una colonna di schiuma bianca. Il getto d’acqua 
s’innalzava oltre il muro di recinzione di Villa Ada. 
Poi gli sembrò che il tombino sputasse in su una cosa nera. 
– Ma che dia…?! – disse Eugenio. 
Sulle loro teste, a una decina di metri, si sbracciava e muoveva le gambe in aria un 
essere umano. Ricadde giù come uno che si è tuffato da una scogliera, e precipitò sulla 
strada. 
Piero Ristori chiuse gli occhi. Un secondo dopo, quando li riaprì, vide che l’uomo era 
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in piedi sulla mezzeria di via Salaria. Le gambe gli tremavano per l’impatto ma, 
miracolosamente, era illeso. 
Mentre l’acqua inondava il manto stradale, il giornalista fece due passi in avanti verso 
di lui. 
Era un vecchio magro e coperto con i brandelli di una tuta da ginnastica nera. La 
lunga barba bianca e i capelli completamente zuppi appiccicati al corpo. Rimaneva li, 
come se avesse i piedi incollati all’asfalto. 
Il giornalista fece altri tre passi e superò le macchine parcheggiate lungo il 
marciapiede. 
No, non può essere… 
Nonostante fosse passato mezzo secolo, nonostante l’arteriosclerosi che gli incrostava 
i vasi sanguigni, nonostante la lunga barba che celava il volto dell’uomo, i vecchi lobi 
temporali di Piero Ristori, vedendo quegli occhi freddi come le pianure siberiane, quel 
grande naso, ricordarono. 
Fu trasportato indietro nel tempo, all’estate del 1960. Roma. Olimpiadi. 
Quello lì era Sergej Pelevin, il grande saltatore con l’asta che aveva vinto l’oro. Era 
scomparso durante i giochi insieme a un gruppo di atleti russi e nessuno aveva più 
saputo che fine avesse fatto. Piero Ristori lo aveva intervistato per il «Corriere della 
Sera» dopo la premiazione. 
Ma che ci faceva dopo mezzo secolo al centro di via Salaria? 
Il giornalista, con le mani che gli tremavano, tirandosi dietro il cane si avvicinò 
all’atleta, che continuava a rimanere impalato come una statua in mezzo alla strada. 
– Sergej… Sergej… – balbettò. – Ma che fine avevi fatto? Dove sei stato? Perché sei 
scappato? 
L’atleta si girò e sulle prime parve non vedere nemmeno il giornalista. 
Poi chiuse e aprì gli occhi lucidi, come se quel sole all’orizzonte lo infastidisse. 
Mostrando le gengive sdentate disse: – 
вободγ
… 
я
выбрал
5

Non riuscì a finire la sua frase, perché una Smart Fortwo, che arrivava dall’Olimpica a 
oltre centoventi all’ora, lo prese in pieno. 

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