5.
Fabrizio Ciba osservava la volta di una grotta rischiarata dai bagliori rossastri di un
fuoco. Il soffitto aveva una rozza forma geometrica. Come una cripta scavata nella
roccia. Appesa al muro bruciava una fiaccola, i fumi neri e densi salivano in alto e
s’incanalavano dentro fori che fungevano da canne fumarie. Nelle pareti erano scavati
decine di piccoli loculi in cui erano raccolti mucchietti di ossa.
Matteo Saporelli continuava a rompere i coglioni.
– Allora… Come stai? Riesci ad alzarti?
Fabrizio prosegui la sua ispezione, ignorandolo.
Radunate contro le pareti, tutte accucciate a terra, vedeva le sagome di un sacco di
persone. Osservando meglio si accorse che erano invitati della festa, camerieri e qualche
uomo della sicurezza. Riconobbe un paio di attori, il comico Sartoretti, un
sottosegretario ai Beni culturali, una velina. E, cosa strana, nessuno parlava, come se gli
fosse stato impedito.
159
Matteo Saporelli invece lo tormentava sottovoce.
– Allora? Che mi dici?
Esausto per quelle continue domande Fabrizio si girò e vide il giovane scrittore. Era
ridotto male. Con un occhio tumefatto e quel taglio sulla fronte sembrava la brutta copia
di Rupert Everett pestato da uno più grosso e cattivo di lui.
Fabrizio Ciba si massaggiò il collo dolorante. – Che ti è successo?
– Dei ciccioni mi hanno rapito.
– Anche a te?
Saporelli si tastò l’occhio gonfio. – A me mi hanno picchiato quando ho provato a
scappare.
– Pure a me. Mi fa male tutto.
Saporelli abbassò la testa, come se dovesse ammettere una terribile colpa. – Senti…
Non volevo… Mi dispiace tantissimo…
– Di cosa?
– Di questo casino. Siete tutti coinvolti per colpa mia.
Fabrizio si piegò per guardarlo meglio. – In che senso? Non capisco.
– Esattamente un anno fa ho scritto un agile saggio sulla corruzione in Albania per un
piccolo editore foggiano. E adesso la mafia albanese me la fa pagare – . Saporelli si
sfiorò la ferita con la punta delle dita. – Comunque sono disposto a morire. Implorerò di
risparmiarvi, non è giusto che se la piglino con voi. Non c’entrate niente.
– Mi dispiace dovertelo dire, ma credo che tu ti stia sbagliando – . Fabrizio si batté sul
petto. – È tutta colpa mia. È un gruppo eversivo di boscaioli finlandesi che ci ha
sequestrati. Io ho smascherato lo scempio che fanno nelle foreste millenarie del Nord
Europa.
Saporelli scoppiò a ridere. – Ma figurati… Li ho sentiti parlare, parlano albanese.
Fabrizio lo guardò perplesso. – Sì, e adesso tu sai l’albanese?
– No, non lo so. Ma sembrerebbe proprio albanese. Usano certe consonanti tipiche
degli idiomi balcanici, – continuava ossessivamente a tastarsi l’ematoma. – Senti, dimmi
la verità, ma come sono ridotto? Ho il volto sfigurato, vero?
Fabrizio lo osservò per qualche secondo. Non era conciato malissimo, ma fece un
lento si con il capo.
– Ma tornerò normale?
Ciba gli diede la brutta notizia. – Non credo. È una bella botta… Speriamo almeno
che l’occhio sia ancora funzionante.
Saporelli si accasciò a terra. – Ho un cerchio terribile alla testa. Non è che hai un
Saridon? Un Moment?
Stava per dirgli di no, poi si ricordò della pillola magica che gli aveva dato Bocchi. –
Sei il solito fortunato. Ho questa pasticca. Vedrai come stai sereno dopo.
Con l’occhio sano il giovane autore la esaminò. – Che roba è?
– Tu non ti preoccupare. Butta giù.
Il premio Strega, dopo un attimo di incertezza, la ingoiò.
160
In quel momento dal buio di un cunicolo si sentì un ritmo lento di percussioni.
Assomigliava a un battito cardiaco.
– Oddio, stanno arrivando. Moriremo tutti! – urlò Alighiero Pollini, il sottosegretario
ai Beni culturali, e si abbracciò Mago Daniel, il famoso prestigiatore di Canale 26. La
velina cominciò a frignare, ma nessuno si prese pena di confortarla. Il battito era
diventato più forte e rimbombava nella cripta.
Fabrizio, obnubilato dalla strizza al punto che gli dolevano persino le otturazioni,
disse: – Saporelli io… io… Ti stimo.
– E io ti considero il mio padre letterario. Un modello da imitare, – rispose il giovane
in un impeto di sincerità.
I due si abbracciarono e fissarono l’ingresso del cunicolo. Era così nero che il buio
sembrava palpabile. Come se milioni di litri di inchiostro dovessero traboccare, da un
secondo all’altro, all’interno della cripta.
Il ritmo tribale, nascosto dalle tenebre, sembrava composto da percussioni, tamburi,
ma anche da battiti di mani.
Lentamente, come se si liberassero dal buio che le imprigionava, apparvero delle
figure.
Tutti smisero di frignare e di lamentarsi e rimasero in silenzio a guardare la
processione.
Erano enormi. Bianchi come gesso e con le teste piccole incassate nelle spalle cadenti.
Rotoli di ciccia gli nascondevano la vita, e le braccia somigliavano a prosciutti. Alcuni
avevano dei bonghi che tenevano sotto l’ascella e gli altri si colpivano il petto
producendo il ritmo ancestrale. C’erano anche delle femmine, più basse e con le tette
piatte e larghe come scamorze, e dei bambini, chiattoni pure loro, che stringevano
impauriti le mani delle madri.
Lentamente il branco timido e impacciato si fece avanti. Erano vestiti con pezzi di
tute sportive, felpe slabbrate, resti di uniformi da giardiniere. Ai piedi avevano scarpe da
ginnastica sformate e ricucite con pezzi di spago e filo di ferro. Intorno ai bicipiti
lardosi, collari da cane. Alcuni indossavano cuffiette rotte alle quali avevano appeso
ciondoli, medagliette con nomi e numeri di telefono, tappi di bottiglia. Altri avevano
copertoni di bicicletta intorno al petto.
La pelle era priva di pigmenti e gli occhietti, rossi e all’infuori, sembravano infastiditi
dalla luce. I capelli, senza colore, erano intrecciati con i nastri di plastica bianchi e rossi
che servono a delimitare i lavori in corso.
A un tratto, tutti insieme, smisero di battere e rimasero in silenzio di fronte agli
invitati. Poi si allargarono in due ali per far passare qualcuno.
Un gruppo di vecchi così rachitici che sembravano usciti da un campo di
concentramento si fece spazio tra i ciccioni. Erano bianchissimi, ma non erano albini.
Alcuni avevano i capelli scuri.
I ciccioni si inginocchiarono. Poi furono deposti al centro della stanza un uomo e una
donna seduti sopra delle sedie di plastica bianca.
161
Il vecchio aveva sulla testa un copricapo ornamentale, che assomigliava lontanamente
a quello degli indiani d’America, composto di penne Bic, bottigliette di Campari Soda e
palette di plastica colorate. Grandi occhiali da sole Vogue gli coprivano quasi tutta la
faccia. Sul busto portava un’armatura composta da frisbee di plastica colorata.
La donna portava sul capo un secchiello blu e ai lati le cadevano cordoni di capelli
bianchi intrecciati con strisce di camere d’aria e penne di piccione. Era avvolta in un
piumino North Face lercio da cui spuntavano due gambette esili e varicose.
Il re e la regina, si disse Fabrizio.
Do'stlaringiz bilan baham: |