Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
3. 
Il giorno in cui era stato chiamato a organizzare il catering della festa, l’imprevedibile 
chef bulgaro Zóltan Patrovi
č
aveva adocchiato nello studio di Chiatti un dipinto ad olio 
di Giorgio Morandi che raffigurava un paio di bottiglioni su un tavolo. 
Quell’opera del pittore bolognese avrebbe dato prestigio alla sala Emilia-Romagna del 
suo ristorante Le regioni. 
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Il locale, sito in via Casilina angolo via Torre Gaia, era da anni al vertice delle guide 
gastronomiche europee. Lo aveva disegnato nel 1990 l’architetto giapponese Hiro Itoki, 
come un’Italia in miniatura. Guardandolo dall’alto, il lungo edificio aveva stessa forma e 
proporzioni della penisola italica, con tanto di isole maggiori. Era suddiviso in venti sale 
che corrispondevano per forma e specialità culinarie alle regioni italiane. I tavoli 
avevano i nomi dei capoluoghi.
Il quadro di Morandi sarebbe stato perfetto sopra il frigocantinetta dove custodiva il 
Lambrusco. 
Il bulgaro aveva deciso che dopo la festa se lo sarebbe fatto regalare da Salvatore 
Chiatti. E se, come immaginava, l’immobiliarista avesse opposto resistenza, lo avrebbe 
convinto a donarglielo spingendogli nella testa un po’ di confusione. 
Ora che il party era andato in vacca, gli invitati erano dispersi nel parco e aveva visto 
il corpo senza vita dell’imprenditore in una pozza di sangue, non c’era alcuna ragione 
per non farsi ripagare il suo lavoro con quell’opera d’arte. 
Nel buio, con una candela in mano, si avviò silenzioso come un gatto nero per le 
grandi scale che portavano al primo piano della villa, abbandonata dai camerieri e dallo 
staff. 
I gradini erano coperti di pezzi di mobilio, vestiti, piatti, statue spezzate. 
I ciccioni avevano messo la residenza a ferro e fuoco. Allo chef non interessava chi 
fossero e cosa volessero. Lui li stimava. Avevano apprezzato la sua cucina. Li aveva 
visti avventarsi sul buffet con una foga e una violenza primordiale. In quegli occhi 
incolori aveva scorto l’estasi ancestrale della fame. 
Da qualche tempo gli capitava di tornare dal suo ristorante stanco e frustrato. 
Detestava come la gente usava la forchetta per indagare nel piatto, come interrompeva le 
chiacchiere con i bocconi, organizzava pranzi di lavoro a base di inutili antipasti. Per 
ritrovare la pace interiore era costretto a vedersi i documentari sulla fame nel terzo 
mondo. 
Sì, l’imprevedibile chef bulgaro adorava la fame e odiava l’appetito. L’appetito era 
l’espressione di un mondo satollo e soddisfatto, pronto alla resa. Un popolo che assapora 
invece di mangiare, che stuzzica invece di sfamarsi, è già morto e non lo sa. La fame è 
sinonimo di vita. Senza fame l’essere umano è solo una parvenza di se stesso e di 
conseguenza si annoia e comincia a filosofeggiare. E Zóltan Patrovi
č
odiava la filosofia. 
Soprattutto quella applicata alla cucina. Rimpiangeva la guerra, le carestie, la povertà. 
Presto avrebbe venduto baracca e burattini e si sarebbe trasferito in Etiopia. 
L’imprevedibile chef bulgaro arrivò al piano di sopra. L’aria era satura di fumo e
dovunque posava la luce traballante della candela, c’era distruzione. Dalla stanza da 
letto arrivavano mormorii e bagliori di un fuoco. 
A lui non interessava cosa stesse succedendo là dentro, doveva andare nello studio, 
ma la curiosità lo vinse. Spense la candela e si avvicinò alla porta. Un grande arazzo e le 
tende di broccato bruciavano, e le fiamme rischiaravano la stanza. Sul letto a 
baldacchino era stesa Ecaterina Danielsson, completamente nuda. I capelli, come una 
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nuvola rossa, le incorniciavano il volto spigoloso. Intorno alla donna una decina di 
ciccioni mormoravano in ginocchio una strana cantilena e allungavano le mani e le 
sfioravano i minuscoli seni bianchi con i capezzoli color prugna, il ventre piatto con 
l’ombelico fatto a coppa, il pube coperto da una strisciolina di pelliccia color carota e le 
gambe lunghissime. 
La modella, la schiena arcuata come un felino, muoveva pigramente la testa, gli occhi 
socchiusi in un’espressione estatica, la bocca larga e umida, spalancata. Ansimava, 
poggiando le mani sulle teste dei ciccioni prostrati intorno al letto come schiavi che 
adorano una dea pagana. 
Zóltan si allontanò, riaccese la candela, segui il lungo corridoio ed entrò nello studio 
di Chiatti. Alzò la fiamma. Il suo quadro era ancora li. Nessuno lo aveva toccato. 
Qualcosa che assomigliava a un sorriso fece per un istante capolino sul volto dello 
chef. – Non lo desidero, ma devo possederlo – . Fece un passo verso il dipinto, ma sentì 
dei rumori nel buio della stanza. Si appiatti dietro una libreria. 
Più che rumori erano versi disgustosi. 
Zóltan spostò la candela e vide, tra due librerie, in un angolo, un uomo in ginocchio. 
Era ridotto a uno scheletro. La piccola testa calva, piegata verso il pavimento, era 
nascosta dietro le scapole esili e si vedeva solo la schiena con le vertebre che si 
sollevavano come una catena montuosa. La pelle, sottile come carta velina, era ricoperta 
da una rete di rughe e pendeva floscia dalle braccia gracili come ramoscelli. Strappava 
qualcosa e se lo cacciava in bocca, producendo versi gutturali e gorgoglii. 
Incuriosito il cuoco fece un passo in avanti. Il parquet gli scricchiolò sotto i piedi. 
L’uomo a terra si girò di scatto e digrignò i pochi denti marci che ancora aveva in 
bocca. I piccoli occhi brillavano come quelli di un lemure. Il viso rinsecchito era 
imbrattato di un liquido scuro e oleoso. Si tirò indietro, ringhiando, spalle al muro. Tra 
le gambe aveva i resti di una grande teglia di parmigiana di melanzane. 
Lo chef sorrise. – È buona, vero? L’ho fatta io. Dentro c’è la passata di pomodori. E 
le melanzane sono fritte in un olio leggero – . Si avvicinò al quadro. 
Il vecchio allungò la testa senza perderlo di vista. 
– Mangia con comodo. Io mi prendo questo e me ne vado, – disse lo chef con una 
voce bassa e rassicurante, ma quello miagolando afferrò da terra la teglia e gli si avventò 
contro. Zóltan allungò la mano destra e gli strinse la calotta cranica. 
Aleksej Jusupov, famoso maratoneta, si immobilizzò all’istante. Gli occhi gli si 
spensero e le braccia gli ricaddero sui fianchi. Dalla teglia che teneva ancora stretta nella 
mano colarono a terra i resti della parmigiana.
Che strano, improvvisamente non aveva più paura di quell’uomo nero, anzi si accorse 
di volergli bene. Gli ricordava il vecchio monaco del suo villaggio. E la mano sulla 
fronte irraggiava un tepore benefico lungo il suo scheletro vecchio e artritico. Gli pareva 
di avvertire un’energia curativa che circondava le ossa e ammorbidiva le articolazioni 
irrigidite dal tempo e dall’umidità della vita sotterranea. Si sentiva forte e in forma 
proprio come quando era un ragazzino. 
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Da tanti anni non pensava più a quel periodo della sua vita. 
Correva per chilometri e chilometri lungo la costa gelata del lago Bajkal senza 
stancarsi mai. E suo padre, intabarrato nel cappotto, gli controllava i tempi. Per 
festeggiare, se aveva migliorato il suo record, andavano a pescare su un lungo pontile da 
cui si vedevano le montagne del Barguzin coperte di neve. D’inverno era ancora più 
bello, aprivano un buco nel ghiaccio e calavano le esche. E se erano fortunati tiravano su 
delle grandi carpe marroni. Animali vigorosi, che combattevano fieramente prima di 
cedere. 
Com’era buona quella carne grassa, bollita con le patate, il cavolo nero e il rafano. 
Cosa avrebbe dato per provare ancora la sensazione di quei filetti che gli si scioglievano 
in bocca e del rafano che gli pizzicava il naso. 
Aleksej si ritrovò nel capanno da pesca illuminato solo da una lampada a cherosene e 
dai bagliori della stufa a legna. Papa che gli faceva bere un bicchiere di vodka e gli 
diceva che era benzina per il corpo di un corridore e si mettevano a letto, sotto strati di 
coperte ruvide che sapevano di canfora. Uno accanto all’altro. E poi papa lo stringeva 
forte e gli diceva in un orecchio con il fiato che puzzava di alcol che lui era un bravo 
ragazzo, che correva come il vento e che non doveva aver paura… Che era un segreto 
tra loro. Che non faceva male, anzi… 
No. Non voglio. Ti prego… Papa non farmi questo. 
Qualcosa si ruppe nella mente di Aleksej Jusupov. 
Il tepore benefico spari dalle sue membra e il terrore lo avvolse come una doccia 
fredda. Strizzò gli occhi pieni di lacrime e davanti a sé vide suo padre vestito da 
monaco. 
– 
Пошёл
вон

Я
тебя
ненавижу
1
, – fece Aleksej e mettendoci tutta la forza che 
aveva colpì l’autore dei suoi giorni con la teglia dal doppio fondo in acciaio. 
L’imprevedibile chef bulgaro, incredulo, cadde a terra e l’atleta russo lo finì a colpi di 
teglia.

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