Niccolo Ammaniti Che la festa cominci


Partito, e la festa era una celebrazione della vittoria sovietica



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1


Partito, e la festa era una celebrazione della vittoria sovietica. 
– E che cosa dobbiamo fare, padre? – domandò Ossacatogna. 
Il re si prese un paio di minuti prima di rispondere. – Durante la notte della celebrazione 
usciremo allo scoperto e attaccheremo i sovietici, e ci prenderemo quello di cui abbiamo 
bisogno per sopravvivere.
 
 
1.Concerto di Larita live in Villa Ada  
Sasà Chiatti, in vestaglia di raso, boxer a righe e occhialoni infrarossi, era in piedi al 
centro della terrazza della Villa Reale. Col braccio destro stringeva un fucile d’assalto 
TAR-21 placcato in oro, il calcio tempestato di diamanti Swarovski, e col sinistro un 
lanciagranate M79 con il calcio in alabastro e canna placcata in argento. Tra i denti 
stringeva un sigaro Cohiba Behike, rollato dalle abili mani della torcedora cubana 
Norma Fernández.
Si avvicinò alla grande scalinata che portava al giardino e allargò le armi in un gesto 
di saluto. – Benvenuti al party. 
Mai poteva immaginare che avrebbero avuto il coraggio di presentarsi il giorno della 
sua incoronazione. Era stato ingenuo a non pensarci. Era ovvio. Cosi, di fronte a tutti, la 
sua disfatta sarebbe stata totale e assoluta. Un monito a quelli che provavano a fare di 
testa loro. 
Scese un paio di gradini, fece fuoco sul tavolo dei superalcolici e lo disgregò. – Io sto 
qui. Forza, fatevi sotto, –urlò nella notte verde del suo visore. 
Gli veniva da ridere. Venivano a punirlo perché aveva osato elevarsi, perché aveva 
mostrato a tutti che anche un ragazzo povero, figlio di un modesto carrozziere di 
Mondragone, era diventato, grazie alla sua intraprendenza, uno degli uomini più ricchi 
d’Europa. Perché aveva dato lavoro ai disoccupati e speranza a un sacco di morti di 
fame. Perché aveva rimesso in moto l’economia di questo Paese del cazzo. 
Quella santa donna di sua madre, non aveva studiato ma aveva il cervello che 
funzionava, lo aveva avvertito. «Salvato’ prima o poi troveranno il modo di fotterti. Si 
metteranno insieme e ti affogheranno nella merda». 
Da anni Sasà Chiatti dormiva con l’ansia aspettando quel momento. Aveva ingaggiato 
truppe di avvocati, commercialisti, economisti. Aveva fatto costruire una muraglia 
intorno alla sua Villa per difendersi, aveva fatto scavare un bunker sotterraneo dove 
nascondersi, assoldato guardie del corpo israeliane e blindato le sue automobili. 
Non era servito a un cazzo. Erano arrivati lo stesso. Gli avevano sabotato la centrale 
elettrica, gli avevano rovinato la festa e ora volevano farlo fuori. 
Attraverso il visore notturno ne vide un paio, belli grossi, che correvano tra i resti del 
buffet con delle buste piene di cibo. – Pezzenti. Sapete una bella cosa? Sono contento, 
così la finiamo ’sta storia 
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– . Caricò il lanciagranate. – E la volete sapere un’altra bella cosa? La festa, gli invitati, i 
vip possono andarsene tutti a fare in culo, uccideteli tutti. E pure di questa Villa di 
merda non me ne frega un cazzo. Distruggetela. Volete la guerra? E guerra avrete – . 
Fece esplodere la grande fontana. Schegge di marmo, acqua e ninfee si sparsero per 
decine di metri.
Scese altri tre gradini. – Volete sapere chi cazzo sono io? Volete sapere come cazzo si 
permette un mariuolo di Mondragone a comprarsi Villa Ada? Adesso ve lo spiego. Ora 
vi faccio vedere un po’ chi è Sasà Chiatti quando si fa girare il cazzo – . Cominciò a 
spazzolare con il mitra i tavoli del buffet. I piatti di tartine al tartufo, i vassoi di 
crocchette di pollo e le brocche con il Bellini si disintegravano sotto i proiettili. I tavoli 
si disfacevano a terra crivellati dai colpi. 
Era una bella sensazione. Il mitragliatore si era scaldato e gli bruciava la mano. 
Mentre tirava fuori dalla tasca della vestaglia un caricatore e lo sostituiva, ripensò al 
libro che aveva letto sugli eroi greci. 
Ce n’era uno che stimava parecchio, Agamennone. Nel film Troy lo faceva un attore 
bravissimo, di cui in quel momento gli sfuggiva il nome. L’eroe greco aveva vinto i 
troiani e si era tenuto come bottino di guerra Criseide, una bella figa. Un dio, uno 
importante, un aiutante di Zeus, gli aveva offerto in cambio della ragazza un botto di 
soldi, ma Agamennone non aveva accettato. Agamennone non aveva paura degli dèi. E 
gli dèi si erano vendicati e avevano scagliato contro il suo accampamento una terribile 
pestilenza.
– Questa è la vostra vendetta… – Guardò in alto il cielo verdastro. – Solo che gli dèi 
greci erano grandi e potenti. Quelli italiani sono miserabili. Avete mandato ’sti ciccioni 
ad ammazzarmi – . Prese di mira una specie di molosso che si trascinava un bustone 
pieno di bibite e lo fece stramazzare al suolo. 
Arrivò in fondo alle scale. – Non dovrebbe essere l’obbiettivo della democrazia? A 
tutti un’opportunità! –Chiatti, con uno scatto del braccio, ricaricò il lanciagranate. – 
Beccatevi questa opportunità di andare a fanculo – . E fece esplodere un ciccione con 
un’intera porchetta sulle spalle. 
– Schifosi morti di fame… Evviva l’Italia – . Sputò via il sigaro e cominciò a correre 
e a sparare all’impazzata falciando i sicari obesi. – Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta… – 
cantava, mentre i bossoli del
TAR
-21 schizzavano da tutte le parti. – Dell’elmo di Scipio si 
è cinta la testa… – Ne colpì uno, il cranio si aprì come un’anguria matura. 
– Imbecilli, non vi siete neanche armati! Chi cazzo vi credete di essere per venire qui 
così? Non siete immortali. Dite a quelli che vi hanno mandato che ci vuole altro per fare 
fuori Sasà Chiatti – . Si fermò col fiatone, poi scoppiò a ridere. – Mi sa che non potrete 
dirgli un bel niente, sarete tutti schiattati – . Infilò un’altra granata e colpì l’Apecar dei 
gelati Algida. Ci fu un’esplosione che per un istante illuminò a giorno il giardino 
all’italiana, il labirinto di bosso, il gazebo delle informazioni e le tende della caccia. La 
ruota anteriore del triciclo schizzò fuori dalla palla di fuoco, superò i tavoli degli 
aperitivi, i resti della fontana, le aiuole di ortensie e colpì l’immobiliarista in fronte.
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Sasà Chiatti con i suoi novanta chili ondeggiò e parve resistere all’impatto, ma poi 
come un grattacielo a cui hanno minato le fondamenta cadde giù. Mentre il mondo 
intorno a lui si ribaltava, con l’indice tirò il grilletto del mitragliatore e si portò via la 
punta della pantofola in velluto blu, su cui erano cucite le sue iniziali in oro. Dentro 
c’erano quattro dita e una bella porzione di piede. 
Finì a terra e con la testa batté contro lo spigolo di un tavolino di cristallo. Una lunga 
scheggia triangolare gli si piantò proprio sopra la nuca, attraversò la scatola cranica, la 
dura madre, l’aracnoide, la pia madre e s’infilò nel tessuto molle del cervello come una 
lama affilata in una Danette alla vaniglia. 
– Ahhhh… Ahhhh… Che dolore… Mi avete colpito, – riuscì a mugugnare, prima di 
vomitarsi addosso i resti semidigeriti dei rigatoni all’amatriciana e delle polpette con i 
pinoli e l’uva passa. 
Con il visore notturno tutto storto osservò quello che restava dell’estremità del suo 
arto sinistro. Il moncherino, un ammasso di carne viva e spunzoni di osso, perdeva come 
un rubinetto spanato un liquido verde scuro. L’immobiliarista allungò una mano, afferrò 
una tovaglia da un tavolino rovesciato e ci si fasciò alla bell’e meglio la ferita. Poi prese 
una bottiglia di amaro Averna e se ne scolò un quarto. 
– Bastardi. Pensate di avermi fatto male? Vi sbagliate. Forza, stupitemi, fatemi vedere 
che cosa sapete fare. Sono qua, – fece segno con le dita di farsi avanti. Afferrò il 
mitragliatore e continuò a sparare in giro finché non ci fu più niente a cui sparare. 
Rimase per un attimo in silenzio e si accorse che aveva il collo e le spalle zuppe di 
sangue. Si toccò la nuca. Tra i capelli gli spuntava un pezzo di vetro. L’afferrò con il 
pollice e l’indice e provò a estrarlo, ma gli scivolava tra i polpastrelli. Boccheggiando ci 
riprovò, e appena lo mosse un flash rosa gli accecò l’occhio sinistro. 
Decise di lasciarlo li e si accasciò contro i resti della scultura in ghiaccio di un angelo 
e con le poche forze che gli restavano si tracannò il resto dell’amaro, sentendo il sapore 
dolceamaro dell’Averna mischiarsi con quello salato del sangue. – Non mi avete fatto un 
cazzo… Non mi avete… Complotto di merdosi – . Dalla testa dell’angelo e dagli 
abbozzi consumati delle ali cadeva una pioggia gelata che gli scivolava sul cranio liscio 
e sulla maschera a infrarossi, gli colava sulle guance paffute e gocciolava sulla pancia 
dilatata, sulla vestaglia, e annacquava la pozza di sangue in cui era sprofondato. 
La morte era fredda. E un polipo di ghiaccio gli avvolgeva i tentacoli gelati lungo la 
spina dorsale. 
Ripensò a sua madre. Avrebbe voluto dirle che il suo chiappariello le voleva bene, e 
che era stato bravo. Ma non aveva più fiato nei polmoni. Fortuna che l’aveva nascosta al 
sicuro nel bunker. 

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