– . Caricò il lanciagranate. – E la volete sapere un’altra bella cosa? La festa, gli invitati, i
vip possono andarsene tutti a fare in culo, uccideteli tutti. E pure di questa Villa di
merda non me ne frega un cazzo. Distruggetela. Volete la guerra? E guerra avrete – .
Fece esplodere la grande fontana. Schegge di marmo, acqua e ninfee si sparsero per
decine di metri.
Scese altri tre gradini. – Volete sapere chi cazzo sono io? Volete sapere come cazzo si
permette un mariuolo di Mondragone a comprarsi Villa Ada? Adesso ve lo spiego. Ora
vi faccio vedere un po’ chi è Sasà Chiatti quando si fa girare il cazzo – . Cominciò a
spazzolare con il mitra i tavoli del buffet. I piatti di tartine al tartufo, i vassoi di
crocchette di pollo e le brocche con il Bellini si disintegravano sotto i proiettili. I tavoli
si disfacevano a terra crivellati dai colpi.
Era una bella sensazione. Il mitragliatore si era scaldato e gli bruciava la mano.
Mentre tirava fuori dalla tasca della vestaglia un caricatore e lo sostituiva, ripensò al
libro che aveva letto sugli eroi greci.
Ce n’era uno che stimava parecchio, Agamennone. Nel film
Troy lo faceva un attore
bravissimo, di cui in quel momento gli sfuggiva il nome. L’eroe
greco aveva vinto i
troiani e si era tenuto come bottino di guerra Criseide, una bella figa. Un dio, uno
importante, un aiutante di Zeus, gli aveva offerto in cambio della ragazza un botto di
soldi, ma Agamennone non aveva accettato. Agamennone non aveva paura degli dèi. E
gli dèi si erano vendicati e avevano scagliato contro il suo accampamento una terribile
pestilenza.
– Questa è la vostra vendetta… – Guardò in alto il cielo verdastro. – Solo che gli dèi
greci erano grandi e potenti. Quelli italiani sono miserabili. Avete mandato ’sti ciccioni
ad ammazzarmi – . Prese di mira una specie di molosso che si trascinava un bustone
pieno di bibite e lo fece stramazzare al suolo.
Arrivò in fondo alle scale. – Non dovrebbe essere l’obbiettivo della democrazia? A
tutti un’opportunità! –Chiatti, con uno scatto del braccio, ricaricò il lanciagranate. –
Beccatevi questa opportunità di andare a fanculo – . E fece
esplodere un ciccione con
un’intera porchetta sulle spalle.
– Schifosi morti di fame… Evviva l’Italia – . Sputò via il sigaro e cominciò a correre
e a sparare all’impazzata falciando i sicari obesi. – Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta… –
cantava, mentre i bossoli del
TAR
-21 schizzavano da tutte le parti. – Dell’elmo di Scipio si
è cinta la testa… – Ne colpì uno, il cranio si aprì come un’anguria matura.
– Imbecilli, non vi siete neanche armati! Chi cazzo vi credete di essere per venire qui
così? Non siete immortali. Dite a quelli che vi hanno mandato che ci vuole altro per fare
fuori Sasà Chiatti – . Si fermò col fiatone, poi scoppiò a ridere. – Mi sa che non potrete
dirgli un bel niente, sarete tutti schiattati – . Infilò un’altra granata e colpì l’Apecar dei
gelati Algida. Ci fu un’esplosione che per un istante illuminò a giorno il giardino
all’italiana, il labirinto di bosso, il gazebo delle informazioni e le tende della caccia. La
ruota anteriore del triciclo schizzò fuori dalla palla di fuoco, superò i tavoli degli
aperitivi, i resti della fontana, le aiuole di ortensie e colpì l’immobiliarista in fronte.
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Sasà Chiatti con i suoi novanta chili ondeggiò e parve resistere all’impatto, ma poi
come un grattacielo a cui hanno minato le fondamenta cadde giù. Mentre il mondo
intorno
a lui si ribaltava, con l’indice tirò il grilletto del mitragliatore e si portò via la
punta della pantofola in velluto blu, su cui erano cucite le sue iniziali in oro. Dentro
c’erano quattro dita e una bella porzione di piede.
Finì a terra e con la testa batté contro lo spigolo di un tavolino di cristallo. Una lunga
scheggia triangolare gli si piantò proprio sopra la nuca, attraversò la scatola cranica, la
dura madre, l’aracnoide, la pia madre e s’infilò nel tessuto molle del cervello come una
lama affilata in una Danette alla vaniglia.
– Ahhhh… Ahhhh… Che dolore… Mi avete colpito, – riuscì a mugugnare, prima di
vomitarsi addosso i resti semidigeriti dei rigatoni all’amatriciana e delle polpette con i
pinoli e l’uva passa.
Con il visore notturno tutto storto osservò quello che restava dell’estremità del suo
arto sinistro. Il moncherino, un ammasso di carne viva e spunzoni di osso, perdeva come
un rubinetto spanato un liquido verde scuro. L’immobiliarista allungò una mano, afferrò
una tovaglia da un tavolino rovesciato e ci si fasciò alla bell’e meglio la ferita. Poi prese
una bottiglia di amaro Averna e se ne scolò un quarto.
– Bastardi. Pensate di avermi fatto male? Vi sbagliate. Forza, stupitemi, fatemi vedere
che cosa sapete fare.
Sono qua, – fece segno con le dita di farsi avanti. Afferrò il
mitragliatore e continuò a sparare in giro finché non ci fu più niente a cui sparare.
Rimase per un attimo in silenzio e si accorse che aveva il collo e le spalle zuppe di
sangue. Si toccò la nuca. Tra i capelli gli spuntava un pezzo di vetro. L’afferrò con il
pollice e l’indice e provò a estrarlo, ma gli scivolava tra i polpastrelli. Boccheggiando ci
riprovò, e appena lo mosse un flash rosa gli accecò l’occhio sinistro.
Decise di lasciarlo li e si accasciò contro i resti della scultura in ghiaccio di un angelo
e con le poche forze che gli restavano si tracannò il resto dell’amaro, sentendo il sapore
dolceamaro dell’Averna mischiarsi con quello salato del sangue. – Non mi avete fatto un
cazzo… Non mi avete… Complotto di merdosi – . Dalla testa dell’angelo e dagli
abbozzi consumati delle ali cadeva una pioggia gelata che gli scivolava sul cranio liscio
e sulla maschera a infrarossi, gli colava sulle guance paffute e gocciolava sulla pancia
dilatata, sulla vestaglia, e annacquava la pozza di sangue in cui era sprofondato.
La morte era fredda. E un polipo di ghiaccio gli avvolgeva i tentacoli gelati lungo la
spina dorsale.
Ripensò a sua madre. Avrebbe voluto dirle che il suo chiappariello le voleva bene, e
che era stato bravo. Ma non aveva più fiato nei polmoni. Fortuna che l’aveva nascosta al
sicuro nel bunker.
Do'stlaringiz bilan baham: