Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
 
 
37.Amatriciana di mezzanotte  
Fabrizio prese da parte Larita e le disse sottovoce: – Adesso io e te, belli come il sole, 
ce ne andiamo via da questo posto. E anche di corsa. Ho un brutto presentimento. 
– E quella povera donna? – La cantante indicò Mara Baglione Montuori, che 
continuava a sbrogliarsi i capelli con la forchetta. – Che facciamo? 
– Non possiamo portarcela dietro, ci rallenterebbe. Appena troviamo qualcuno gli 
diciamo di andare a prenderla.
Larita era incerta. – Non so… Lasciarla qui da sola non mi sembra giusto. 
– È giusto, dài retta a me – . Fabrizio le prese una mano e la tirò sul pontile. – Mi pare 
di ricordare che vicino al lago c’è un ingresso alla Villa – . Strappò da terra una lunga 
canna di bambù su cui bruciava una lampada a petrolio. – Muoviamoci. 
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Si incamminarono lungo un viale costeggiato da grandi platani, lasciandosi alle spalle 
il lago. 
Un sacco di domande giravano in testa allo scrittore. Continuava a vedere i coccodrilli 
che strappavano pezzi di carne dal corpo dilaniato del gallerista. 
Larita gli camminava accanto a testa bassa e non parlava. 
Stava per dirle di spicciarsi quando avverti, o gli parve di avvertire, dei movimenti nel 
buio. Fece segno a Larita di fermarsi e rimase in ascolto. Nulla. Si sentiva soltanto, in 
lontananza, il rumore delle automobili sulla Salaria. 
Devo essermi sbagliato. 
Guardò Larita. Aveva gli occhi lucidi e tremava. 
Fabrizio si accorse che il cuore gli andava a mille. Le prese la mano. – Dovremmo 
essere quasi arrivati. 
Ripresero la marcia. 
– Cosa c’è lì? – strillò Larita facendo un salto indietro. 
Fabrizio si immobilizzò. – Dove? 
– Quell’albero. 
Fabrizio, con le gambe molli come tentacoli, alzò la lampada verso il punto che gli 
aveva indicato Larita. Non vedeva nulla. Fece un passo in avanti agitando la lampada 
intorno a sé. I rami degli alberi si protendevano sulla stradina. Non c’era nulla, ma che 
cazzo, si stava cagando sotto. Il panico gli afferrò la gola… quella cos’era? 
Una sagoma nera era appesa a un ramo. 
Una scimmia? 
Non poteva essere una scimmia. Troppo grande. 
Un gorilla? 
Troppo grasso. Per un attimo pensò che fosse una scultura, un manichino appeso. 
Si tirò indietro e la flebile luce della lampada rischiarò il resto della chioma 
dell’albero. Appesi c’erano altri due… 
Uomini. 
Dei ciccioni che si dondolano.
Si girò su se stesso e urlò a Larita: – Scappa! Veloce! 
Sentì alle sue spalle un rumore attutito e un rantolo. Uno di quei mostri doveva essersi 
buttato giù. 
Cominciò a correre a perdifiato. La lanterna gli si spense in mano e l’unica luce 
rimase quella lontana del bivacco. 
Galoppava disperato come mai aveva fatto in vita sua, sentendo il brecciolino che 
strideva sotto le suole delle scarpe e l’aria che gli turbinava giù per la trachea. 
Sperava che Larita gli fosse accanto. 
E se è rimasta indietro? 
Girati! Fermati! Chiamala!,  gli urlava la testa. 
Avrebbe voluto farlo, ma riusciva solo a correre e a pregare che lei stesse facendo 
altrettanto. 
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Ma dopo poche decine di metri la sentì gridare. 
L’hanno presa! Porca troia bastarda, l’hanno presa! 
Mentre correva girò la testa. Tutto era immerso nel nero e in quel nero sentì i suoi 
lamenti e i versi gutturali dei mostri. – Fabrizio! Aiutami! Fabrizio! 
Si fermò, piegato in due dal fiatone e sospirò: – Sono troppo vecchio per questa 
merda – . Poi con un coraggio inaspettato urlò: – Lasciatela bastardi! 
– E tornò indietro, a pugni chiusi, a occhi chiusi, mulinellando le braccia, sperando di 
spaventarli, di cacciarli, di annientarli. 
Ma inciampò, cadde a terra e sbatté la mandibola contro la ghiaia. Nonostante il 
dolore si rialzò, il sangue tra i denti, e nel momento in cui si rialzava, un pugno, un 
bastone, qualcosa di pesante, si abbatté con una violenza inaudita sulla sua spalla destra 
e lui si ritrovò ancora a terra e urlando fino a farsi scoppiare le tempie provò di nuovo, 
caparbio, a rialzarsi, ma un altro pugno gli affondò nello stomaco. 
Fabrizio Ciba si afflosciò come un pallone squarciato e mille lucine arancioni gli 
esplosero davanti agli occhi. Cacciò fuori tutta l’aria che aveva in corpo e mentre era li 
che agonizzava sentì delle mani enormi che lo afferravano e lo sollevavano con la stessa 
facilità con cui un essere umano solleva una busta della spesa. 
Era in apnea, adagiato sopra la spalla dell’essere che camminava. Schiuse gli occhi. Il 
cielo rosato era sopra di lui, poteva toccarlo con una mano e sentiva il rantolo dei suoi 
polmoni strizzati che, come sacchetti sotto vuoto, risucchiavano l’aria. 
E mentre si diceva che ce la poteva fare a respirare di nuovo e a non morire, si rese 
conto che l’oscurità era qualcosa di più che la semplice assenza di luce. Era la sostanza 
nella quale sarebbe affogato. 
Un colpo alla nuca gli strappò via quell’ultimo pensiero.
38. 
– Che stai mangiando? E dacci qualcosa. Non fare l’infame. 
Saverio Moneta vide tre tizi che si affacciavano alla porta. Quello più alto con il 
frangettone e gli occhiali senza montatura l’aveva visto sicuramente in tv, doveva essere 
un presentatore. L’altro, più tracagnotto e con la fronte alta due dita, doveva essere un 
politico. E il terzo, boh… Non lo conosceva. 
Con le loro divise da cacciatori marchiate Ralph Lauren, con i loro capelli pieni di 
gel, con le bottiglie di Champagne in mano si sentivano dei Padreterni, ma erano solo tre 
pezzi di merda ubriachi. 
Saverio se ne intendeva di pezzi di merda. Aveva avuto a che fare con quel tipo di 
persone precocemente, negli anni della scuola. Di solito si aggiravano in gruppo per 
potersi fare forza l’uno con l’altro. E se ti inquadravano, se capivano che volevi essere 
lasciato in pace, ti giravano intorno come iene affamate. 
Se ti diceva bene ti aspettavano fuori da scuola e con un’occasione qualsiasi 
144


attaccavano briga, ti picchiavano e lì finiva. Altre volte invece si mascheravano da 
amici, erano simpatici e cordiali e ti facevano credere che potevi essere uno di loro e a 
quel punto, come uno scemo, abbassavi le difese e quelli ti spezzavano il cuore 
prendendoti per il culo. Poi ti buttavano via come un giocattolo rotto. La domenica però 
andavano a messa con le famiglie e prendevano la comunione. Dopo le superiori, 
sponsorizzati dal capitale familiare, partivano per studiare all’estero. Li si ripulivano e 
quando tornavano a Oriolo erano avvocati, commercialisti, dentisti. Sembravano persone 
perbene, ma sotto erano ancora dei pezzi di merda. Spesso finivano in politica e 
parlavano di Dio, di valori familiari e patria. Questi erano i nuovi cavalieri della cultura 
cattolica. 
Saverio si cacciò in fretta in fondo alla tasca dei pantaloni il biglietto di Zombie. 
Strizzò gli occhi e le labbra gli si stirarono in un ghigno sardonico. – Vuoi vedere che 
sto mangiando? 
Il tipo con il pizzetto gongolò. – Io e te ci capiamo, fratello. Mostra i tesori che 
nascondi. 
E il politico aggiunse. – Condividilo con i tuoi amici. 
Saverio si girò con gli occhi spiritati. Raccolse il corpo di Zombie da terra. Si stupì di 
come pesasse poco. – Cosa preferite, una coscia o un braccio? – E gli mostrò i resti 
carbonizzati. 
I tre sulle prime non capirono che roba fosse. Il tipo con il pizzetto fece un passo in 
avanti e poi uno indietro in una specie di maldestra tarantella. – Oddio… 
– Ma che cazzo è? – Il politico afferrò il braccio al presentatore. 
– Pare un morto abbrustolito. Ammazza che schifo, –concluse il terzo facendo cadere 
la bottiglia di Champagne, che si disintegrò in mille schegge. 
Saverio poggiò a terra Zombie, afferrò la Durlindana con due mani e la sollevò oltre 
la spalla. – Allora cosa vi taglio? Un braccio o una coscia? 
I tre disgraziati si voltarono e scapparono, spintonandosi per passare per primi 
attraverso il piccolo cancello. Il politico cacciò un urlo disperato e sprofondò fino al 
busto nella terra, che si aprì come una bocca per inghiottirlo. Il poveretto cominciò a 
sbracciarsi ma qualcosa, da sotto, lo tirava giù. Allargò le braccia cercando di opporsi 
ma un attimo dopo era sparito nel buco nero. 
Gli altri due rimasero li, in piedi sul bordo, imbambolati, senza sapere che fare. Poi il 
presentatore prese coraggio e si sporse un attimo sul buco, ma un attimo fu sufficiente 
perché un enorme braccio schizzasse fuori e lo afferrasse per la barbetta. L’uomo, di 
testa, fu trascinato dentro la buca e venne risucchiato anche lui nelle viscere della terra. 
Il terzo stava per fuggire quando una mano spuntò fuori e gli afferrò la caviglia per 
tirarlo dentro. L’uomo finì a terra e prese a scalciare per liberarsi dalla morsa. Con 
l’altro piede colpiva la manona avvinghiata alla sua gamba. Ma non le faceva nulla. 
Quelle dita grosse come sigari e con le unghie nere erano insensibili al dolore. Cercava 
di opporsi puntando le mani contro il terreno e implorava: – Aiutatemi! Vi prego! 
Aiutatemi! – Riuscì ad aggrapparsi a un palo del cancello. Un’altra mano gli prese la 
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gamba libera e a quel punto non ci fu nulla da fare, anche lui sparì nel buco. 
Saverio Moneta, impietrito sulla porta della cabina, aveva visto la scena. Era durata 
nemmeno tre minuti. 

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