Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

Probabilmente avrà deciso di tagliare attraverso i prati e il bosco fottendosene degli 
animali selvatici. 
Era una Belva di Abaddon e non aveva paura di niente e nessuno. 
Prima di andarsene Mantos diede, per scrupolo, un’occhiata alla centrale elettrica. 
Avvicinandosi all’edificio, si accorse di uno strano odore. 
Sembra carne arrostita. 
Il cancello era spalancato. A terra c’era la catena con il lucchetto e il trinciapollo 
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rotto. 
Mantos sorrise e puntò la luce verso la cabina. Il muro tutto intorno agli stipiti e il 
legno della porta aperta erano anneriti come se all’interno fosse divampato un incendio. 
Quel pazzo di Zombie aveva dato fuoco a tutto. 
Il leader delle Belve abbassò la torcia: – Ottimo lavoro, mio prode – . Il fascio di luce 
tagliò il pavimento e illuminò una roba nera al centro della stanza. Mantos fece due passi 
in avanti per capire meglio cosa fosse.
Un pezzo di pneumatico abbrustolito? No… Una scarpa. 
Fece un altro passo in avanti. Sembrava proprio una scarpa. Una scarpa carbonizzata. 
Sulla suola si riconoscevano ancora i tacchetti fusi. 
Mantos deglutì più volte. Trattene il respiro e fece ancora un passo in avanti, non 
avendo il coraggio di puntare la torcia oltre. Invece la sollevò. 
Vide, attaccata alla scarpa, una gamba e poi i resti carbonizzati di un corpo umano. I 
vestiti dovevano essersi completamente bruciati e la pelle nera e rinsecchita era incollata 
come pece alle ossa. Del busto rimaneva solo una massa informe, da cui spuntava la 
gabbia toracica. Le braccia erano sollevate e le dita delle mani ritorte come se fossero 
state piegate dal calore. Il fuoco si era letteralmente mangiato la testa. Ne restava una 
sfera annerita e senza tratti da cui spuntava una chiostra di denti lunghi e bianchi. 
Ridotto in quello stato, nemmeno la madre lo avrebbe riconosciuto. Mantos però 
sapeva che era lui. La forma della fronte, l’altezza, le scarpe, i denti. 
Oh… Gesù. Zombie era bruciato come un fiammifero. 
La Durlindana gli cadde a terra. Lo stomaco gli andò sottosopra. Si coprì la bocca con 
una mano e dovette farsi forza per non vomitare. Le gambe gli si piegarono, allora si 
accoccolò accanto alla porta, incapace di credere a quello che vedeva. 
Deve essersi bruciato cercando di togliere la corrente. 
Saverio allungò una mano. – Zombie come ti sei ridotto… Come… Amico mio – . E 
avrebbe voluto urlare, cacciare fuori tutta la rabbia, ma spalancò la bocca e si strinse la 
testa tra le mani. 
Perché? Perché così? Non doveva essere così. Non in questo modo. Dovevano 
suicidarsi insieme, uniti, dopo aver sacrificato la cantante a Satana. Questo era il patto. 
Perché hai rotto il patto? 
Il dolore travolse Mantos come un’onda, lo sommerse con la forza di un cavallone 
oceanico. E fu abbagliato dalla spietata luce della verità. 
È morto per colpa mia. Che ho combinato? 
Se non ci fossi stato tu… Gli sembrò quasi di vedere quel manichino carbonizzato 
sollevarsi da terra e puntargli contro le dita contorte. Se non ci fossi stato tu… Io adesso 
starei a Oriolo Romano. Con mia madre. Con Murder e Silvietta. Con tutta la vita 
davanti. Ma chi ti credi dì essere per farmi morire in questo modo? 
Mantos, accucciato accanto alla porta, si osservò. Osservò la tunica nera che aveva 
cucito con le vecchie tende dismesse del cinema Flamingo. Osservò la Durlindana 
comprata su eBay. E si accorse di quanto era patetico. 
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– Ma che sto facendo? – sussurrò, sperando che il manichino carbonizzato gli desse 
una risposta. 
Un grumo di dolore gli esplose come una bolla nella trachea. Cominciò a sbattere gli 
occhi, mentre le lacrime gli velavano la vista.. Il teatrino dove Saverio Moneta, 
impiegato del Mobilificio dei Mastri d’Ascia Tirolesi, sognava di essere cattivo e 
spietato come Charles Manson, gli era crollato addosso. Satana, il grande Mantos, le 
Belve di Abaddon, il sacrificio di Larita, erano tutte stronzate inventate da un patetico 
omino che era riuscito a far ammazzare un ragazzo con una grave depressione. 
Carponi, singhiozzando come un bambino, si avvicinò ai resti del suo adepto. – 
Perdonami Edo… – Gli afferrò il polso, che gli si sbriciolò in mano. – Che devo fare? 
Ditemi che devo fare. 
Ma nessuno poteva dirglielo. Era solo. Solo e disperato come nessuno al mondo. 
Zombie non c’era più. Serena e il vecchio bastardo lo volevano vedere morto. Murder e 
Silvietta li aveva persi. 
Si sedette tirando su con il naso e ripulendosi il moccio dalla faccia. 
Doveva prendere quei resti e seppellirli. O gettarli nelle acque del lago di Bracciano. 
Si asciugò gli occhi. – Non ti lascio qua… Non ti preoccupare. Ti riporto a casa. A 
Oriolo. Basta con tutte ’ste stronzate. 
Si mise in piedi e con la torcia si guardò attorno. Doveva trovare uno scatolone. Il 
massimo sarebbe stato una di quelle bustone blu di Ikea. 
Si accorse che su un pannello c’era attaccato un foglio ripiegato in quattro. Si 
avvicinò e vide che sopra c’era scritto: «A Silvietta». Lo prese e stava per aprirlo quando 
sentì alle sue spalle una voce maschile che urlava: – Ragazzi! Sentite che odorino 
buono! La grigliata! Ecco la grigliata! Evviva. Ce l’abbiamo fatta. Comunque, ammazza 
che inculata ’sta festa. Chiatti è un pezzente, non ha nemmeno pagato la bolletta della 
luce.

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