146
Parte III
Katakumba
But I’m a creep,
I’m weirdo.
What the hell am I doing here?
I’dont belong here.
RADIOHEAD, Creep.
Il barone Pierre de Coubertin, nato a Parigi nel 1863, è ricordato per aver coniato
l’odiosa frase: «L’importante non è vincere, ma partecipare» (che tra l’altro non è sua,
ma di un vescovo della Pennsylvania). Oltre a questo, de Coubertin è noto per aver
riformato il sistema educativo francese e per aver riportato in vita nel mondo moderno
gli antichi giochi olimpici greci. Grande sostenitore dello sport e dell’ attività fisica nella
formazione del carattere della gioventù, il barone fu incaricato dal governo francese di
formare una società sportiva internazionale. Dopo aver consultato quattordici nazioni,
fondò il Comitato olimpico internazionale che organizzò nel 1896 le prime Olimpiadi
moderne ad Atene. Fu un enorme successo, replicato quattro anni dopo a Parigi. La terza
Olimpiade si tenne nel 1904 a Saint Louis, negli Stati Uniti. Per la quarta edizione il
barone sperava di portare i giochi olimpici a Roma, volendo ricreare la mitica rivalità tra
Roma e Atene, le due potenze del mondo antico. Ma l’Italia in quel periodo, tanto per
cambiare, aveva problemi economici e declinò l’offerta.
Il 16 giugno del 1955, il sogno del barone de Coubertin diventò finalmente realtà: la
città di Roma, dopo un avvincente testa a testa con Losanna, conquistò il diritto di
ospitare i Giochi della diciassettesima Olimpiade previsti per il 1960.
Il governo italiano investi circa cento miliardi di lire per mostrare a tutto il mondo che
anche l’Italia faceva parte dell’esclusivo club dei Paesi ricchi.
La Città Eterna si trasformò in un cantiere per prepararsi all’evento. Furono costruite
nuove strade e fu edificato, tra Villa Glori e la sponda del Tevere, un villaggio olimpico
per ospitare gli atleti provenienti da tutto il mondo. Un grande comprensorio di moderne
palazzine immerse nel verde a pochi chilometri dal centro storico. Vennero eretti due
palazzetti dello sport. Lo stadio Olimpico fu ristrutturato per contenere fino a
sessantacinquemila spettatori. E poi nuove piscine, velodromi, campi da hockey. E, per
la prima volta nella storia delle Olimpiadi, le immagini delle gare vennero trasmesse in
tutta Europa dalla Rai.
Roma si fece notare nel mondo per la bellezza dei campi di gara : le Terme di
Caracalla ospitavano la ginnastica, la basilica di Massenzio la lotta, mentre la
maratona partiva dal Campidoglio e seguendo l’Appia Antica si chiudeva sotto l’Arco
di Costantino. Proprio nella maratona avvenne qualcosa di straordinario. Abebe Bikila,
147
un piccolo atleta della Guardia imperiale etiope, vinse la gara correndo a piedi nudi.
Tagliò il traguardo con il nuovo record del mondo.
Con la bellezza di 36 medaglie l’Italia si collocò al terzo posto del medagliere, dietro i
sovietici e gli americani.
Tutto ciò è risaputo. Quello che invece pochissimi sanno è cosa successe a un piccolo
gruppo di atleti sovietici durante la notte della chiusura dei giochi.
L’Urss partecipava ai giochi olimpici solo da due edizioni. Nel 1952 a Helsinki c’era
stata la prima apparizione di atleti sovietici. Prima di allora i dirigenti del Partito
comunista consideravano i giochi «un mezzo per distogliere i lavoratori dalla lotta di
classe e offrire loro l’addestramento per nuove guerre imperialistiche».In realtà,
l’atteggiamento diffidente del Cremlino celava l’intenzione di presentarsi alla ribalta
olimpica solo quando l’Unione Sovietica avesse avuto la possibilità di recitarvi un ruolo
da protagonista. Dal 1952 in poi le due superpotenze, congelate dalla guerra fredda,
trovarono nelle Olimpiadi un perfetto campo di battaglia per dimostrare tutta la propria
forza. Da una parte l’Unione Sovietica, con una ferrea organizzazione paramilitare che
studi scientifici incrementavano incessantemente, sollevando sospetti e insinuazioni
sull’uso di medicinali per potenziare i loro atleti. Dall’ altra gli Stati Uniti, protagonisti
di tutte le edizioni dei Giochi dal 1896 in poi, sorretti dalla possibilità di selezionare i
migliori tra le migliaia di sportivi dei college e delle università.
Umiliata nelle Olimpiadi di Helsinki, e vincitrice di misura a Melbourne, l’Unione
Sovietica era arrivata a Roma con l’intenzione di mostrare la superiorità del regime
comunista.
La rappresentanza sovietica era separata da tutte le altre e occupava delle palazzine
riservate. Gli atleti non dovevano aver alcun contatto con quelli delle nazioni che erano
il simbolo del capitalismo occidentale corrotto. Erano costantemente tenuti sotto
controllo da addetti del Partito.
Fra gli atleti c’erano Arkadij e Ljudmila Brusilov. Lui lanciatore di giavellotto, lei
ginnasta artistica. Si erano sposati nel 1958 a Kutuko, un paese vicino Mosca. Entrambi
avevano nel cuore un sogno : abbandonare l’Urss e andare a vivere in Occidente.
Detestavano il regime autoritario comunista e volevano dare alla luce i loro figli nel
mondo libero. Ma questo era solo un sogno, nessuno poteva lasciare il Paese. E ciò
valeva ancor di più per degli atleti considerati rappresentanti ufficiali dell’ ideologia e
della forza sovietica in tutto il mondo.
Durante i giochi, i due cominciarono a organizzare un piano per scappare e rifugiarsi
in Occidente. Il giorno dopo aver vinto la medaglia d’argento, Ljudmila si fece sfuggire
con Irina Kalina, una saltatrice con l’asta che divideva con lei l’alloggio, i progetti di
fuga. Irina li pregò di portarla con loro. Le spiegarono che era pericoloso e che quella
scelta avrebbe condizionato il resto della sua esistenza. Il Kgb non avrebbe dato loro
tregua. Dovevano rifugiarsi in un luogo segreto e vivere in completa clandestinità.
– Non importa… Sono disposta a tutto, – fece Irina, il cui nonno era finito in un gulag
in Siberia.
148
Lentamente il segreto cominciò a girare tra gli atleti. E alla fine si ritrovarono in
ventidue, fra uomini e donne, a organizzare l’evasione.
Visto come progredivano le gare, era evidente che sarebbero stati i sovietici a
conquistare il palmarès. E dopo la chiusura dei Giochi si sarebbe sicuramente brindato
per aver battuto, per la seconda volta e in modo ancora più cocente, gli imperialisti
americani.
E così fu. I dirigenti organizzarono una cena per tutta la delegazione con portate di
insalata russa, carpa bollita, patate al cartoccio e stufato di cipolle, il tutto innaffiato da
litri di vodka. Già alle nove di sera organizzatori, allenatori, atleti e addetti di partito
erano ubriachi. C’era chi cantava, chi intonava vecchie poesie, chi suonava ballate al
pianoforte. L’atmosfera era all’apparenza gioiosa, ma il tutto era velato da una terribile
nostalgia.
I ventidue dissidenti avevano riempito d’acqua le loro bottiglie di vodka. A un cenno
prestabilito di Arkadij tutto il gruppo si ritrovò nel giardino del padiglione. Le due
guardie giacevano addormentate su una panchina. Fu facile scavalcare il recinto e
fuggire, protetti dalla notte romana.
Corsero veloci lungo il Tevere fino ai campi sportivi dell’Acqua Acetosa, da li
risalirono senza mai fermarsi verso i Parioli e si ritrovarono di fronte a una grande
collina coperta di boschi. Non lo sapevano, ma quello era Forte Antenne, la punta
estrema di un immenso parco chiamato Villa Ada.
Ci entrarono, e di loro non si seppe più nulla.
Ovviamente le autorità sovietiche negarono la cosa. Non potevano ammettere al
mondo che alcuni dei loro più gloriosi atleti erano fuggiti, ripudiando il comunismo e il
proprio Paese. Sguinzagliarono i servizi segreti per rintracciarli e fargliela pagare. Per
anni gli agenti li cercarono in ogni parte del mondo. Nulla. Un buco nell’acqua.
Sembravano essersi dissolti, come se qualche Paese occidentale li avesse aiutati a far
perdere le loro tracce.
Come abbiamo detto, il sottosuolo di Villa Ada è attraversato dalle antiche catacombe
di Priscilla. Oltre quattordici chilometri di gallerie e cubìcoli scavati nel tufo, divisi in
tre piani stipati dei resti degli antichi cristiani. Il nome della necropoli sotterranea si
deve alla romana Priscilla, nata nella seconda metà del secondo secolo d.C. Sembra che
la donna abbia regalato il terreno ai cristiani, che vi scavarono il loro cimitero.
Lì dentro si nascosero Arkadij e la compagnia dei dissidenti. Dopo aver perlustrato la
necropoli dall’alto in basso, organizzarono le loro dimore nella galleria del piano più
profondo, a oltre cinquanta metri dalla superficie terrestre. Questa zona, fresca d’estate e
calda d’inverno, era stata esplorata, mappata e infine chiusa al pubblico e dimenticata. I
turisti visitavano solo parte del primo piano, nella zona antistante il monastero delle
monache benedettine.
I russi, solo di notte, quando il parco era chiuso, risalivano le gallerie e uscivano fuori
per cercare cibo. La loro alimentazione si basava principalmente su ciò che i romani
abbandonavano durante il giorno : resti dì panini, frittate, patatine e Cipster, merendine,
149
snack, il fondo delle lattine di Coca- Cola. La loro era un’economia sostanzialmente
incentrata sulla raccolta dei rifiuti. Simile, per certi versi, a quella delle popolazioni
raccoglitrici del paleolitico. Si vestivano con tute, felpe e berretti che la gente distratta
dimenticava sui prati o perdeva nei percorsi sportivi attrezzati. Gli etologi potrebbero
paragonare la relazione che si era instaurata tra gli atleti sovietici e i romani alla
simbiosi tra gli ippopotami e gli aironi. Questi splendidi uccelli vivono sul dorso dei
grossi mammiferi nutrendosi dei parassiti della pelle. Nello stesso modo i romani si
ritrovavano la Villa sempre pulita, e i russi cibo e vestiti.
Nelle gallerie delle catacombe la piccola comunità cominciò a riprodursi e lentamente
si ingrandì. Ovviamente, essendo una piccola popolazione, gli incroci tra consanguinei
avvenivano di frequente, generando una deriva genetica incontrollata e accelerata.
Anche la vita ipogea, nel buio dei cunicoli, e una dieta ricca di carboidrati e grassi
contribuì a trasformarli morfologicamente. Le nuove generazioni erano obese, con gravi
problemi dentari, e assai pallide. In compenso avevano una vista adattata al buio e,
discendendo in linea diretta da atleti, erano molto agili e forti.
Sembra incredibile, ma in quasi cinquant’anni nessuno notò la loro presenza. Solo tra
gli spazzini e gli addetti alla manutenzione di Villa Ada girava la leggenda degli uomini
talpa. Sì raccontava che di notte uscissero dai fori di areazione delle catacombe e
ripulissero tutta l’immondizia del parco, levandogli il grosso del lavoro. C’era chi invece
giurava di averli visti saltare da un albero all’altro, compiendo acrobazie incredibili. Ma
sembrava solo un’altra leggenda metropolitana.
L’acquisto della Villa da parte di Chiatti ruppe il delicato rapporto tra il parco e i suoi
ospiti sotterranei.
Da un giorno all’altro i russi non trovarono più i cestini che rigurgitavano resti di
cibo. E lentamente il parco si era popolato di bestie feroci. Non essendo cacciatori ma
raccoglitori, e con un metabolismo che richiedeva costantemente glucosio e colesterolo,
gli abitanti delle catacombe cominciarono a stare male e ad ammalarsi nutrendosi di
topi, insetti e altri piccoli animaletti.
Rompendo l’antica e assoluta regola che sì erano imposti quando erano entrati nelle
catacombe, e che vietava di uscire all’aperto durante il giorno, il vecchio re Arkadij
inviò in superficie un piccolo drappello di esploratori muniti di occhiali da sole,
capitanato da suo figlio Ossacatogna, per capire che diavolo stesse succedendo nella
Villa.
Quando gli esploratori tornarono, raccontarono che il parco era stato chiuso ed era
diventato una specie di zoo privato di un uomo molto potente, che stava organizzando
una grande festa.
Fu convocato immediatamente il consiglio dei vecchi atleti, al quale sovrintese anche
il re, oramai del tutto cieco e devastato dalla psoriasi. Lui sapeva cosa stava succedendo.
Quello che aveva sempre temuto in cinquant’anni di vita sotterranea. L’impero sovietico
alla fine aveva trionfato, con i suoi eserciti aveva invaso l’Italia e ora il comunismo
regnava incontrastato sul pianeta intero.
150
Sicuramente quel parco era diventato la residenza di un burocrate, un pezzo grosso del
Do'stlaringiz bilan baham: |