Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
 
16. 
Bollito. 
Fabrizio Ciba guidava la vespa giù per la panoramica di Monte Mario. Acceleratore a 
palla, si piegava a destra e a sinistra come Valentino Rossi. Era fuori di sé. Quegli 
infami della Martinelli avevano detto che era bollito e volevano fargli le scarpe. A lui 
che li aveva tirati fuori dal fallimento, che aveva venduto più di tutti gli altri scrittori 
italiani messi insieme, a lui che era stato tradotto in ventinove lingue tra cui swahili e 
ladino. 
– E vi beccate pure il venti per cento sui diritti esteri, – urlò superando in piega una 
Ford Ka. 
Se pensavano di poterlo trattare come una suora bulimica si sbagliavano alla grande. 
– Che vi credete? Tutti mi vogliono. E vedrete quando uscirò con il nuovo romanzo, 
bastardi che non siete altro. 
Cominciò a zigzagare nel traffico di viale delle Milizie. Poi si buttò nella corsia dei 
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tram. Si fermò con una sgommata al semaforo rosso. 
Doveva andarsene da un altro editore. E poi andarsene da questo cazzo di Paese. 
L’Italia non mi merita. Poteva vivere a Edimburgo, tra i grandi scrittori scozzesi. Non 
scriveva in inglese, ma non importava. Qualcuno glieli avrebbe tradotti. 
Alice… 
Fu attraversato dall’immagine di loro due in un cottage scozzese. Lei nuda che 
traduceva e lui che preparava un piatto di rigatoni cacio e pepe. L’avrebbe chiamata 
domani e si sarebbe scusato. 
Una goccia grossa come un chicco di caffè lo colpì in piena fronte, seguita da una su 
una spalla, una su un ginocchio, una… 
– Noo! 
Scoppiò l’acquazzone. Sui marciapiedi la gente correva a ripararsi. Si aprivano gli 
ombrelli. Folate di vento strapazzavano i platani ai lati della strada. 
Fabrizio decise di andare avanti lo stesso, la casa della sua agente non era lontana. Si 
sarebbe fatto una doccia calda e poi avrebbero organizzato la controffensiva. 
Arrivò sul lungotevere. Milioni di macchine immobili si imbottigliavano nel 
sottopassaggio. Tutte suonavano. La pioggia frustava le lamiere, l’asfalto e tutto il resto. 
I fari creavano un riverbero accecante. 
Che diavolo succede? 
Venerdì sera + coatti in uscita libera + pioggia = Il centro bloccato tutta la notte.  
Fabrizio detestava il venerdì sera. Orde di barbari provenienti dal Prenestino, da 
Mentana, da Cinecittà, dai Castelli, dalla cinta del Grande Raccordo Anulare si 
riversavano sul centro storico, Trastevere e la Piramide, alla ricerca di pizzerie, pub 
irlandesi, ristoranti messicani e paninoteche. Tutti determinati a divertirsi. 
Lo scrittore, bestemmiando, si gettò anche lui sul lungotevere. Non riusciva ad 
avanzare. La vespa non passava tra una macchina e l’altra. Si inerpicò sul marciapiede, 
ma anche lì era difficile proseguire. C’erano automobili parcheggiate dovunque, gettate 
senza ordine una sull’altra, come le macchinine di un ragazzino viziato. Arrivò, bagnato 
fino alle mutande, in una specie di strettoia che terminava in un lago. Le macchine lo 
attraversavano sollevando onde da motoscafo. Prese un bel respiro e si lanciò. Fece i 
primi venti metri in un tripudio di schizzi. Le ruote scomparvero in un liquido scuro e 
gelato. Ora avanzava più fiaccamente. Il livello dell’acqua si alzava oltre il fondo della 
vespa. Gli arrivava alle caviglie. Il motore cominciò a sputacchiare, a balbettare. Come 
una bestia ferita lo scooter si trascinava avanti a spasmi emettendo un suono disperato. 
Fabrizio in sella implorava tra i denti. – Dài cazzo, dài cazzo, dài porca troia… Ce la fai! 
Ma la vespa emise un rantolo e morì nel punto più profondo. 
Fabrizio Ciba smontò smadonnando. L’acqua gli arrivava ai polpacci. I piedi gli 
sciacquettavano nelle vecchie Church’s. Prese a calci lo scooter. Non poteva credere che 
l’umanità, la meccanica e la natura, in combutta, nell’arco di quaranta minuti, gli si 
fossero rivoltate contro. 
Le macchine, stipate di mostri rasati e tatuati, gli passavano accanto facendogli la 
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doccia. Lo indicavano, scuotevano la testa, ridevano e si allontanavano. 
Si guardò. La giacca si era trasformata in un orrendo poncho gocciolante. I pantaloni 
tutti bagnati e infangati. 
A testa bassa, tremando, spinse la vespa fuori dal lago. La pioggia gli colava sul collo, 
gli scivolava sulla schiena e tra le chiappe. Non sentiva più i piedi. Mollò lo scooter e si 
incamminò. 
Per fortuna non era lontano dalla casa della sua agente. Sarebbe rimasto a dormire da 
lei. Si sarebbe fatto preparare una camomilla con il miele. Si sarebbe preso un paio di 
aspirine e fatto coccolare e rassicurare. Si sarebbe addormentato avvinghiato a quei seni 
caldi mentre lei gli sussurrava dolcemente che avrebbero fatto il culo alla Martinelli. 
Cominciò a marciare risollevato mentre raffiche di vento lo spingevano indietro. La 
lugubre sagoma di Castel Sant’Angelo era avvolta dall’acqua. Attraversò il ponte degli 
angeli. Il fiume in piena gli rombava sotto i piedi incanalandosi tra i pilastri. 
Sulla riva opposta il lungotevere era un boa di lamiera che strombazzava immobile e 
insofferente. I tombini vomitavano torrenti grigi che correvano impetuosi lungo i 
marciapiedi. Tutte le strade, vicoli, buchi che entravano nel centro storico erano 
presidiati da gruppi di agenti con gli impermeabili gialli e le palette che tentavano di 
arginare il flusso di automobili. Sembrava l’esodo da una città sotto la minaccia delle 
bombe. 
Fabrizio si fece largo tra le macchine e si infilò nel primo viottolo che gli si parò 
davanti. Sbucò in una piazzetta dove due tipi si prendevano a spinte per un posto libero. 
Le fidanzate, tutte e due bionde, tutte e due vestite come modelle di Versace, si 
sgolavano dai finestrini delle macchine. 
– Enrico! Non lo vedi che è un testa di cazzo, lascialo perdere. 
– Franco! Non ne vale la pena, è un pezzo di merda. Fabrizio gli passò accanto non 
degnandoli di uno sguardo. Entrò a via dei Coronari. 
Un incubo. 
Ma era finito, era arrivato. 
17.
– E così non vuoi fare l’amore con me?
Serena aprì un occhio. Per riuscire ad addormentarsi si era fatta venticinque gocce di 
EN. Sollevò appena la testa e vide sulla porta della stanza la sagoma scura di suo marito.
– Che vuoi? – biascicò sentendo il sapore dolciastro delle benzodiazepine sulla lingua 
intorpidita. – Non vedi che sto dormendo? Vuoi litigare? 
– Hai detto che non vuoi fare l’amore con me. 
– Piantala. Lasciami stare. È meglio, – lo liquidò, riaffondando la testa nel cuscino. 
Nonostante il sonno, una parte del cervello di Serena notò che Saverio aveva un tono 
diverso, molto deciso. E non era da lui affrontare le cose in quella maniera diretta. 
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