Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
27. 
La fortuna non abbandonò Fabrizio Ciba nemmeno questa volta. Fini sul ventre 
flaccido dell’elefante, che era adagiato su un fianco in un rigagnolo che scorreva tra 
sassi e felci. Larita, aggrovigliata in una matassa di edera, gli cadde accanto un secondo 
dopo. I due rimasero li, immobili, escoriati, doloranti e senza parole, increduli di essere 
ancora vivi. 
Poi Fabrizio si tirò su, aiutò Larita a scendere dall’elefante e si guardò intorno. Si 
trovavano in fondo a una stretta gola ricoperta di vegetazione. Proprio al centro si 
allungava un viottolo di ghiaia, punteggiato da lampioni che formavano piccole cupole 
luminose. Tutto il resto, ai loro lati, sopra le loro teste, era avvolto dalle tenebre, 
Non ci poteva pensare a quello che gli era appena successo. Se non ci fosse stato 
l’elefante ad attutire la caduta a quest’ora era bello che morto.
Si può organizzare un safari a Villa Ada? Solo un pazzo megalomane come Chiatti 
può concepire un’idea così idiota. 
Ma la colpa non era di Chiatti se per poco non ci aveva rimesso la pelle. 
È mia. È colpa mia che sono venuto a ’sta festa. Io non ci dovevo venire. Che cazzo ci 
faccio io qui? Come cazzo mi sono fatto convincere a salire su quell’animale? In mezzo 
a questi mostri? Io sono uno scrittore, cazzo… Io… Io devo scrivere il mio romanzo. Il 
mio romanzo… 
Si tastò il braccio. Lo piegava a fatica. 
Se mi sono slogato una spalla non potrò mai più scrivere…Era troppo per Fabrizio 
Ciba. Nello stomaco cominciò a ribollirgli una rabbia aspra come aceto che risaliva in 
su, verso l’esofago. Più ripensava a quello che gli era accaduto e più s’incazzava. Era 
così pieno di rabbia che rischiava di esplodere come un pallone. Cominciò a dondolare 
su è giù la testa come un piccione che becchetta le granaglie e poi, a denti stretti, prese a 
parlare da solo e a gesticolare. 
– Fanculo! Io me li inculo tutti. Uno per uno. Li metto in riga e me li inculo uno per 
uno – . Le narici gli si erano allargate per la furia. – Per cominciare m’inculo quel 
buffone di Chiatti… Scrivo l’articolo e lo rovino. Ha finito di farci il re quel pallone 
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pieno di merda. Mi sa proprio che non ha capito con chi ha a che fare… 
Si girò di scatto verso Larita cercando sostegno. – E mi spieghi che cazzo ci facevano 
i cacciatori alla volpe…? – Ma si azzittì vedendola immobile, paralizzata accanto 
all’animale morto. 
Sembrava di vedere la scena finale di King Kong. Quando la ragazza sta accanto allo 
scimmione caduto dal grattacielo. 
Larita era veramente piccina vicino all’elefante. Da morto, poi, il pachiderma 
sembrava ancora più grande che da vivo. La proboscide allungata come un serpente tra 
le pietre del rigagnolo. Le zampe raccolte contro il ventre, una zanna spezzata. L’occhio 
spalancato rifletteva la luce del lampione. Dalla bocca gli colava un rivolo di sangue che 
si stemperava nell’acqua del fiumicello. 
Larita improvvisamente, come liberata da un incantesimo, spalancò la bocca cercando 
di inspirare, ma qualcosa, un groppo forse, glielo impedì. Allora lentamente allungò la 
mano e la poggiò sulla fronte rugosa dell’elefante. Come se le avessero tagliato i fili che 
la reggevano in piedi, andò giù e si accucciò contro la groppa e cominciò a piangere 
scossa dai singhiozzi. 
Fabrizio si mise una mano sulla bocca. Come aveva fatto a dimenticarsi di Larita? Era 
lei l’unica cosa preziosa in tutta quella merda. Era lei l’angelo che lo avrebbe salvato. 
Lui e lei erano diversi. Lui e lei non c’entravano niente con quella festa. E lui doveva 
prendersi cura di quella creatura e portarla in salvo. 
Corse da lei e l’abbracciò forte sentendo quel corpicino squassato dai singhiozzi. Era 
così piccola. Cosi indifesa. 
Larita con gli occhi immersi nelle lacrime, la faccia infuocata, ingoiando aria provava 
a parlargli: – Po… Po… Poverino… 
Di chi sta parlando? 
– Non… Non è giusto… non aveva fatto niente di ma… le – . E fu di nuovo afferrata 
dal pianto. 
Dell’elefante, idiota. 
Le strinse la testa e se la poggiò sulla spalla. – Non piangere. Ti prego… Non 
piangere, – le sussurrava nell’orecchio accarezzandole i capelli. Ma lei non smetteva. 
Appena il ritmo rallentava, prendeva respiro e ricominciava. 
Fabrizio provò a dire qualcosa. Un borbottio di frasi con poco senso. – No… Non ha 
sofferto tanto… Si è spezzato la schiena, non ha sentito niente… È stato liberato… Una 
vita in catene. 
Ma nulla, lei continuava a piangere, sembrava alimentata da una batteria. Disperato, 
non sapendo più che fare per calmarla, le afferrò il collo, le tolse i capelli dalla faccia e 
con una naturalezza che non aveva mai conosciuto in vita sua schiuse le labbra e la 
baciò.

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