Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
LA FESTA 
Nelle barche ormeggiate la situazione non era differente. Il buffet era stato depredato. 
I resti della cena indiana sparsi tra i fiori, le statue delle divinità indù spaccate, un palco 
abbandonato con un sitar distrutto. Appollaiato su un tavolo un grosso corvo nero 
beccava pezzi di pollo tandoori. 
Fabrizio si avvicinò a Larita. – Io me ne andrei da qua il più velocemente possibile. 
Tutta ’sta storia non mi piace per niente. 
Larita sollevò una scarpa argentata da terra. – Non capisco… 
– Non importa… Andiamo via. 
Una voce femminile alle loro spalle li interruppe. 
– Mio marito… 
Una donna stava sulla porta con uno sguardo catatonico. Le braccia le pendevano 
lungo i fianchi e si reggeva in piedi a malapena. Il sari che aveva addosso era strappato e 
le pendeva tra le gambe come se si fosse coperta con uno straccio. Il reggiseno aveva 
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una spallina rotta e il petto era segnato da lunghi graffi rossi. Le mancava una scarpa. I 
capelli biondi, che doveva aver tenuto insieme con uno chignon, ora erano un groviglio 
impastato di sangue. Un rivolo secco le colava accanto all’orecchio. 
Sulle prime Fabrizio non la riconobbe, ma osservandola meglio ricordò. Era Mara 
Baglione Montuori, moglie di un gallerista di Milano specializzato in arte 
contemporanea. La conosceva perché era la direttrice di una rivista di moda e una volta, 
tanto tempo fa, gli aveva fatto un’intervista. Ora era lo spettro di quella signora elegante 
e snob che aveva incontrato da Rosati a piazza del Popolo. Aveva la stessa espressione 
distante e traumatizzata di una donna appena stuprata. Come se qualcosa, qualcuno, le 
avesse fulminato il cervello. 
Fabrizio le si avvicinò e si accorse che puzzava. Aveva un odore acre di sudore. 
– Mara, che le è successo? Dove sono gli altri? – Fabrizio si accorse di avere le 
viscere rattrappite. 
La donna evitò i suoi occhi, ma si guardò intorno lentamente. – Mio marito… 
Larita raccolse una sedia da terra e ci fece sedere la donna. – Dov’è? 
Mara Baglione Montuori si tolse l’altra scarpa e se la tenne in mano come la volesse 
coccolare. – Mio marito… 
La cantante cominciò a girare per la barca alla ricerca del marito. 
Intanto Fabrizio prese i polsi di Mara provando a intercettare il suo sguardo. – Mi 
ascolti, si ricorda di me? Sono Fabrizio Ciba, noi ci conosciamo. 
La donna lo guardò in faccia e sorrise come se un pensiero divertente le avesse 
attraversato la mente. 
– Martedì dobbiamo andare a Portofino, c’è il matrimonio di Agnese. 
Fabrizio non aveva mai avuto molta pazienza con le persone traumatizzate o 
ammalate, figuriamoci ora, in quella situazione. – Ho capito che è sconvolta, mi dispiace 
tantissimo… Ora però mi deve spiegare che diavolo è successo qui! 
Ma quella stava da un’altra parte. Probabilmente a Portofino. – Mio marito odia il 
marito di Agnese, io non capisco perché fa così. È un bravo ragazzo. Si farà strada… 
Piero alla sua età non è che… 
Lui la scosse. – Dove sta ora tuo marito? Era con te? 
Lei s’infastidì, come se Fabrizio la importunasse, e gli diede le spalle. A terra c’era un 
vassoio d’argento e ci si vide riflessa. 
– Oddio come sono ridotta… Il trucco… I capelli… Non mi si può vedere – . Dal 
tavolo prese una forchetta. – Da piccole io e le mie sorelle a Punta Ala usavamo queste 
per pettinare le bambole – . E cominciò a passarsela tra i capelli incrostati di sangue. 
Ciba buttò la testa indietro per la frustrazione. – No. Questa sta cotta. 
– Oddio che impressione… Vieni qui! Di corsa – . Larita era accanto a una finestra e 
guardava qualcosa tenendosi una mano sulla bocca. 
Fabrizio la raggiunse, prese coraggio e guardò fuori anche lui. 
Ciba aveva sempre amato il canale satellitare Animai Planet con i suoi documentari 
sulla natura. Spesso mentre scriveva il romanzo gli capitava di tenere lo schermo acceso 
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su quel canale. Quando c’erano le sequenze dove il predatore scaricando tutta l’energia 
dei suoi muscoli balzava sulla preda con la forza e la brutalità della fame, Fabrizio si 
alzava come incantato e andava a sedersi sul divano per vederle meglio. Gli piaceva 
l’occhio sgranato dello gnu, la zampata del leone, la nuvola di polvere in cui si 
mescolavano felino ed erbivoro e la testa della vittima che si sollevava per l’ultima 
volta. 
In quegli scontri riconosceva la ferocia della vita naturale. La stessa che governava le 
cose degli uomini. 
Ma ora che osservava dal vivo, a un paio di metri di distanza, una scena simile, non la 
trovò altrettanto eccitante. Spostò lo sguardo sull’acqua che ribolliva, in modo da vedere 
solo con la coda dell’occhio. Ma il trucco non funzionò. Non riusciva a non guardare. E 
una volta cominciato era difficile smettere.
I resti di Piero Baglione Montuori galleggiavano in acqua contesi da tre enormi 
coccodrilli. Sfilze di denti strappavano bocconi di adipe dal tronco del famoso gallerista 
milanese, noto per avere scoperto Andrew Dog, lo scultore giamaicano. I rettili, quando 
non riuscivano a staccare la carne, cominciavano ad avvitarsi in un tripudio di schizzi 
sanguinolenti. La testa del poveretto sbatteva contro le pareti della zattera con il rumore 
sordo di una noce di cocco.
36. 
Il leader delle Belve di Abaddon inchiodò con una sgommata davanti alla centrale 
elettrica. 
Sulla strada non aveva incontrato Zombie, in compenso aveva incrociato gruppi di 
invitati allo sbando. Quando lo avevano visto passare si erano sbracciati urlandogli di 
fermarsi. E più di uno si era piazzato in mezzo alla strada per tentare di bloccarlo. 
Mantos non aveva nemmeno rallentato nonostante i mortacci che gli avevano tirato 
dietro. Era andato tutto esattamente come lui aveva predetto. Appena era calato il buio le 
insulse creature della luce erano entrate nel panico e la Villa si era trasformata nel parco 
degli orrori. A lui, che era una creatura delle tenebre, il buio lo aveva reso invece più 
determinato e feroce. Durlindana in mano, scese dalla macchinetta, accese la torcia e si 
guardò intorno. 
Dove cavolo era finito Zombie? 

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