Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

leoni. Bellissimo. Ma il mio preferito è Il sogno di Nestore. L’ho riletto tre volte. E tutte 
e tre le volte ho pianto come una bambina. 
Fu come se un dardo avesse centrato in pieno petto Fabrizio Ciba. Le gambe, per un 
istante, gli cedettero e per poco non si accasciò sulla spalla dell’uomo del Similaun. 
Finalmente qualcuno che lo aveva capito. Quello era il suo libro migliore, per finirlo 
si era spremuto come un limone. Ogni singola parola, ogni virgola era stata tirata fuori 
con fatica. Quando pensava al Sogno di Nestore gli veniva un’immagine. Era come se un 
aereo fosse esploso in cielo e i resti dell’apparecchio si fossero sparsi in un raggio di 
migliaia di chilometri su un deserto piatto e sterile. A lui toccava cercare i pezzi e 
rimettere insieme la carlinga dell’aeroplano. Tutto il contrario della Fossa dei leoni, che 
era uscito fuori senza sofferenza, quasi si fosse scritto da solo. Eppure lui era certo che Il 
sogno di Nestore fosse la sua opera più matura e completa. Ma l’accoglienza tra i suoi 
lettori era stata, a essere gentili, tiepida e i critici glielo avevano stroncato. Quindi 
sentendo la cantante dire quelle cose non poté che provare una profonda gratitudine. 
– Sei gentile. Mi fa piacere. Grazie, – le disse quasi imbarazzato. 
Difficilmente avresti notato Larita incrociandola per strada, ma se la osservavi con 
attenzione non potevi non ammettere che era molto carina. Ogni parte del suo corpo era 
proporzionata. Il collo, le spalle né troppo grandi né troppo piccole, i polsi sottili, le 
mani magre e aggraziate. Il caschetto di capelli neri le nascondeva la fronte. Il viso era 
dolce. Il nasino piccolo e quella bocca un po’ troppo larga per il suo ovale esprimevano 
una simpatia timida e sincera. Ma soprattutto gli occhi grandi, color nocciola e screziati 
d’oro, che in quel momento sembravano un po’ smarriti. 
Che strano, tra feste, presentazioni, concerti, salotti, Ciba aveva incontrato quasi tutti, 
eppure mai una volta che avesse incrociato la cantante. Aveva letto da qualche parte che 
era una ragazza riservata e si faceva gli affari suoi. Non amava apparire. 
Un po’ come me. 
E poi la storia della conversione religiosa a Fabrizio era piaciuta. Anche lui negli 
ultimi tempi sentiva forte il richiamo della fede. Larita era mille volte superiore a quella 
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banda di disperati dei cantanti italiani. Se ne stava in una casa sull’Appennino tosco-
emiliano a creare… 
Proprio come dovrei fare io. 
La solita visione gli si materializzò nella mente. Loro due insieme in una baita rustica. 
Lei suonava e lui scriveva. Per i cazzi loro. Forse un figlio. Sicuramente un cane. 
Larita si diede un colpo alla frangetta. – Non c’è niente da ringraziare. Se una cosa è 
bella, è bella e basta. 
Sono un pazzo. Me ne stavo andando via e qui c’è la donna della mia vita. 
Chiatti applaudi divertito. – Bene. Ha visto Ciba che bella fan le ho trovato? Adesso 
per ringraziarmi mi deve fare un favore. Ce l’ha una poesia? 
Fabrizio aggrottò le sopracciglia. – In che senso? 
– Una poesia, da recitare prima del mio discorso. Mi piacerebbe essere introdotto da 
una sua poesia. 
Larita accorse in suo aiuto. – Lui non scrive poesie, almeno credo. 
Fabrizio le sorrise poi, serio, a Chiatti: – Esatto. Io non ho mai scritto una poesia in 
vita mia. 
– E non ne potrebbe scrivere una, anche brevissima? –L’imprenditore si guardò il 
Rolex. – In una ventina di minuti non riesce a buttarne giù una? Bastano un paio di 
righe. 
– Sarebbe magnifico un piccolo poema sui cacciatori. Mi ricordo che Karen Blixen… 
intervenne Corman Sullivan, ma non riuscì a continuare perché fu sopraffatto da un 
attacco di tosse. 
– No. Mi dispiace. Non scrivo poesie. 
Chiatti allargò le narici e strinse i pugni, ma la voce continuò ad essere cordiale. – 
Allora ho un’idea. Potrebbe leggerne una di qualcun altro. Dovrei avere in casa un libro 
di poesie di Pablo Neruda. Cosi le andrebbe? 
– Perché dovrei leggere una poesia di un altro autore? Ci sono qua fuori centinaia di 
attori che si scannerebbero per farlo. La faccia leggere a uno di loro – . Fabrizio 
cominciava a farsi girare i coglioni. 
Zóltan Patrovi
č
improvvisamente batté il coltello sul bicchiere. 
Fabrizio si voltò e rimase catturato dal suo sguardo magnetico. Che fenomeno 
singolare, sembrava che gli occhi dello chef si fossero ingranditi occupandogli tutto il 
volto. Sotto il cappuccio nero era come se ci fossero solo due enormi globi oculari che lo 
fissavano. Fabrizio provò a spostare lo sguardo, ma non riuscì. Allora provò a chiudere 
gli occhi per spezzare l’incantesimo, ma falli di nuovo. 
Zóltan posò la mano sulla fronte dello scrittore. 
Di colpo, come se qualcuno glielo avesse spinto a forza nella memoria, a Fabrizio 
tornò in mente un episodio della sua infanzia che aveva dimenticato. I suoi genitori
d’estate, partivano in barca a vela e lo lasciavano con la cugina Anna in una baita di Bad 
Sankt Leonhard, in Carinzia, da una famiglia di contadini austriaci. Era una zona 
bellissima, con montagne ricoperte di pini e prati verdi su cui pascolavano beate le 
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mucche pezzate. Lui indossava i pantaloncini di pelle con le bretelle caratteristici di 
quella zona e gli scarponcini con i lacci rossi. Un giorno, mentre cercava i funghi 
insieme ad Anna, si erano persi nel bosco. Non riuscivano più a raccapezzarsi. Avevano 
continuato a girare in tondo, mano nella mano, sempre più impauriti mentre la notte 
allungava i suoi tentacoli tra gli alberi tutti uguali. Per fortuna, a un certo punto, si erano 
ritrovati di fronte a un piccolo chalet nascosto tra i pini. Dal camino usciva il fumo e le 
finestre erano illuminate. Avevano bussato e una donna con uno chignon biondo li aveva 
fatti sedere a un tavolo insieme ai suoi tre figli e gli aveva dato da mangiare gli Knödel, 
delle grandi palle di pane e carne immerse nel brodo. Mamma mia com’erano buone e 
morbide! 
Fabrizio si accorse che non desiderava niente di più nella vita che un paio di Knödel 
nel brodo. In fondo non gli costava niente dire di si a Chiatti, dopo poteva sempre 
trovare un ristorante austriaco. 
– D’accordo, la leggo. Non c’è problema. Scusate, sapete se in zona c’è un ristorante 
austriaco?

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