banda di disperati dei cantanti italiani. Se ne stava in una casa sull’Appennino tosco-
emiliano a creare…
Proprio come dovrei fare io.
La solita visione gli si materializzò nella mente. Loro due insieme in una baita rustica.
Lei suonava e lui scriveva. Per i cazzi loro. Forse un figlio. Sicuramente un cane.
Larita si diede un colpo alla frangetta. – Non c’è niente da ringraziare. Se una cosa è
bella, è bella e basta.
Sono un pazzo. Me ne stavo andando via e qui c’è la donna della mia vita.
Chiatti applaudi divertito. – Bene. Ha visto Ciba che bella fan le ho trovato? Adesso
per ringraziarmi mi deve fare un favore. Ce l’ha una poesia?
Fabrizio aggrottò le sopracciglia. – In che senso?
– Una poesia, da recitare prima del mio discorso. Mi piacerebbe essere introdotto da
una sua poesia.
Larita accorse in suo aiuto. – Lui non scrive poesie, almeno credo.
Fabrizio le sorrise poi, serio, a Chiatti: – Esatto. Io non ho mai scritto una poesia in
vita mia.
– E non ne potrebbe scrivere una, anche brevissima? –L’imprenditore si guardò il
Rolex. – In una ventina di minuti non riesce a buttarne giù una? Bastano un paio di
righe.
– Sarebbe magnifico un piccolo poema sui cacciatori. Mi ricordo che Karen Blixen…
–
intervenne Corman Sullivan, ma non riuscì a continuare perché fu sopraffatto da un
attacco di tosse.
– No. Mi dispiace. Non scrivo poesie.
Chiatti allargò le narici e strinse i pugni, ma la voce continuò ad essere cordiale. –
Allora ho un’idea. Potrebbe leggerne una di qualcun altro. Dovrei avere in casa un libro
di poesie di Pablo Neruda. Cosi le andrebbe?
– Perché dovrei leggere una poesia di un altro autore? Ci sono qua fuori centinaia di
attori che si scannerebbero per farlo. La faccia leggere a uno di loro – . Fabrizio
cominciava a farsi girare i coglioni.
Zóltan Patrovi
č
improvvisamente batté il coltello sul bicchiere.
Fabrizio si voltò e rimase catturato dal suo sguardo magnetico.
Che fenomeno
singolare, sembrava che gli occhi dello chef si fossero ingranditi occupandogli tutto il
volto. Sotto il cappuccio nero era come se ci fossero solo due enormi globi oculari che lo
fissavano. Fabrizio provò a spostare lo sguardo, ma non riuscì. Allora provò a chiudere
gli occhi per spezzare l’incantesimo, ma falli di nuovo.
Zóltan posò la mano sulla fronte dello scrittore.
Di colpo, come se qualcuno glielo avesse spinto a forza nella memoria, a Fabrizio
tornò in mente un episodio della sua infanzia che aveva dimenticato.
I suoi genitori,
d’estate, partivano in barca a vela e lo lasciavano con la cugina Anna in una baita di Bad
Sankt Leonhard, in Carinzia, da una famiglia di contadini austriaci. Era una zona
bellissima, con montagne ricoperte di pini e prati verdi
su cui pascolavano beate le
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mucche pezzate. Lui indossava i pantaloncini di pelle con le bretelle caratteristici di
quella zona e gli scarponcini con i lacci rossi. Un giorno, mentre cercava i funghi
insieme ad Anna, si erano persi nel bosco. Non riuscivano più a raccapezzarsi. Avevano
continuato
a girare in tondo, mano nella mano, sempre più impauriti mentre la notte
allungava i suoi tentacoli tra gli alberi tutti uguali. Per fortuna, a un certo punto, si erano
ritrovati di fronte a un piccolo chalet nascosto tra i pini. Dal camino usciva il fumo e le
finestre erano illuminate. Avevano bussato e una donna con uno chignon biondo li aveva
fatti sedere a un tavolo insieme ai suoi tre figli e gli aveva dato da mangiare gli Knödel,
delle grandi palle di pane e carne immerse nel brodo. Mamma mia com’erano buone e
morbide!
Fabrizio si accorse che non desiderava niente di più nella vita che un paio di Knödel
nel brodo. In fondo non gli costava niente dire di si a Chiatti,
dopo poteva sempre
trovare un ristorante austriaco.
– D’accordo, la leggo. Non c’è problema. Scusate, sapete se in zona c’è un ristorante
austriaco?
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