Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
 
8. 
Zombie si guardò attorno e si avvicinò alle casse di legno che contenevano 
l’argenteria per i bivacchi. Cominciò a leggere le etichette sui coperchi. Forc… Forc… 
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Colt… Colt… Cuc… 
– Queste so’ tutte posate – . Si diresse verso un’altra pila di contenitori. Apri una 
scatola e custodito da un panno di velluto blu trovò il trinciapollo d’argento. Era così 
grande che sembrava un trinciastruzzo. Lo prese e tornò tutto contento verso il capanno, 
quando vide Murder e Silvietta dietro una toilette da campo che si stavano vestendo da 
camerieri. – Ragazzi, trovato… – disse e s’azzittì. 
I due, mentre indossavano le divise, discutevano, anzi sembrava proprio che 
litigassero. Erano così presi che non si erano nemmeno accorti di lui. Zombie si avvicinò 
piano piano, senza farsi vedere, e si nascose dietro una Land Rover ad ascoltare. 
– Sei pessimo! Nemmeno questa volta gliel’hai detto, – stava dicendo Silvietta. 
– Lo so… Però un po’ gliel’ho detto, è che mi sono bloccato. Guarda che non è facile 
in questa situazione, –bofonchiava Murder. 
– E infatti glielo dovevi dire questa mattina, a Oriolo. Poi hai detto che glielo dicevi 
in macchina… E ora, come si fa? 
Murder ebbe un moto di stizza. – Scusa, ma perché non glielo dici tu? Non mi è 
chiaro perché lo devo fare io. 
– Sei impazzito? Sei stato tu a dirmi che era meglio se gliene parlavi tu. Che conosci 
da un pezzo Saverio e sai come prenderlo. 
Lui addolcì la voce. – Non è mica facile, patatina. Sono cose delicate, lo sai meglio di 
me. 
La Belva sentì Silvietta sbuffare. – E che ci vorrà mai? Vai li è gli dici: senti, 
perdonaci, io e Silvietta abbiamo deciso di sposarci e quindi non possiamo suicidarci. 
Fine. È tanto difficile? 
A Zombie cadde di mano il trinciapollo. 
Nell’ex residenza reale Mantos, con una cassa di vino tra le braccia, attraversò 
l’ingresso di servizio e si ritrovò nel salotto. Rimase a bocca aperta. Altro che le cagate 
del Mobilificio dei Mastri d’Ascia Tirolesi. La commistione tra antico e moderno era di 
un gusto sopraffino. Era questo che intendeva quando ai brainstorming cercava di 
sgrezzare il vecchio Mastrodomenico e avvicinarlo al mondo dell’Interior Decoration. 
Passò attraverso un disimpegno e si ritrovò in uno studio tappezzato di librerie altissime. 
Tutti i volumi erano rivestiti di carta da pacchi e il titolo era scritto in una bella grafia. 
L’effetto era una stanza marroncina. Al centro c’era un unico blocco di legno massello, 
così grande che doveva essere o un baobab o una sequoia. Sopra, un telefono nero. 
Lo guardò. 
Non farlo. 
Poggiò la cassa e prese la cornetta. 
Sto facendo una stronzata. 
Non importava, prima di buttarsi in quella missione suicida doveva sentire ancora una 
volta la voce di sua moglie. 
Trattenendo il respiro compose il cellulare di Serena. – Tesoro… Sono io… 
La risposta fu un: – Dove cazzo sei? 
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– Amore, aspetta… Fammi spiegare… 
– Che devi spiegare? Che sei un povero coglione, – lo aggredì Serena. 
Saverio si sedette sulla poltrona. Poggiò i gomiti sul tavolo. 
Si era scordata tutto. Come se la notte passata non fosse mai esistita. Era tornata ad 
essere la crudele Serena. 
Chissà cosa mi aspettavo? Che sarebbe cambiata? 
Nessuno cambia. E Serena era tale e quale da quando era stata messa al mondo. Il 
miraggio che con il tempo si sarebbe addolcita lo aveva incastrato nel matrimonio con 
quella strega. Questo meccanismo perverso li aveva tenuti legati. E lei se ne era 
approfittata, facendolo sentire un deficiente senza palle. 
Con un groppo in gola allontanò la cornetta dall’orecchio, ma anche così la sentiva 
sbraitare: – Ma ti sei bevuto il cervello? Sono ore che ti chiamo al cellulare ed è sempre 
spento. Papà è fuori dalla grazia di Dio. Ti vuole licenziare. Oggi comincia la settimana 
delle camerette. Qui ci stanno duemila bambini che urlano. E tu dove sei? Con quei 
quattro mentecatti. Ma quant’è vero Iddio questa te la faccio pagare salata… 
Saverio guardava fuori dalla finestra. Un pettirosso si puliva le penne su un albero di 
ciliegie. La visione sfocò, velata dalle lacrime. 
Per farsi rispettare da quella donna avrebbe dovuto violentarla ogni notte. Prenderla a 
calci come una cagna, ma quella non era la sua idea di amore. 
Almeno ora sono certo di aver fatto la scelta giusta. 
Una strana calma si impossessò di Saverio. Si sentì tranquillo. Non aveva più dubbi. 
Avvicinò la cornetta alla bocca. – Serena ascoltami bene. Ti ho sempre amata. Ho 
provato in tutti i modi a renderti felice ma tu sei una brutta persona e rendi brutto pure 
quello che ti sta intorno. 
Serena aveva una voce rauca, da posseduta. – Come ti permetti! Dimmi dove sei? 
Vengo lì e ti spacco la faccia. Saverio te lo giuro sulla testa di mio padre. 
Il leader delle Belve di Abaddon gonfiò la cassa toracica e con la voce ferma disse: – 
Io non sono Saverio, io sono Mantos – . E attaccò.
– Che diavolo stai facendo qui? Chi ti ha detto di prendere il trinciapollo? 
Zombie non ebbe nemmeno il tempo di girarsi, capire, che fu acchiappato per un 
orecchio e trascinato in mezzo al piazzale. Cominciò a urlare cercando di liberarsi da 
quella morsa. Con la coda dell’occhio riuscì a vedere Antonio che gli stritolava il 
padiglione. 
Il capocameriere aveva le vene del collo gonfie e gli occhi iniettati di sangue e 
sputacchiava urlando a Murder e Silvietta: – Ehi! Ehi! Voi due perché siete vestiti da 
camerieri? 
Zombie riuscì a liberarsi e si massaggiò l’orecchio bollente. 
– Voi dovete essere impazziti. Credete forse di stare alla sagra del coregone a 
Capodimonte? Ma vi aggiusto io – . Antonio diede uno spintone a Murder. – Ditemi 
perché siete vestiti da camerieri. 
– Pensavamo di essere utili. Qui non c’è molto da fare… – provò a buttare là Murder 
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senza troppa convinzione. 
Antonio gli si avvicinò a un palmo dal naso. Aveva l’alito che sapeva di mentolo. – 
Utili? Voi pensate che stiamo giocando? E che gioco è? Un, due, tre, stella? Buzzico 
rampichino? Voi belli belli avete deciso che volete fare i camerieri? Voi cazzeggiate e io 
perdo il posto. Non avete capito dove siamo? Di là ci sono camerieri dell’Harry ’s Bar, 
dell’Hotel de Russie, gente che ha fatto l’alberghiero, ho rifiutato personale del Caffè 
Greco – . Antonio era cianotico, dovette fermarsi un istante per riprendere fiato. – 
Adesso fate una bella cosa, vi spogliate e uscite da qui. Non vi do una lira e quella faccia 
di merda di Saverio se ne va via con voi! Mai fidarsi dei parenti. A proposito dove sta 
quel… – Antonio si portò una mano al collo come se lo avesse pizzicato un tafano. Si 
strappò qualcosa da sopra il colletto della camicia e aprì la mano. 
Sul palmo si trovò un cono di carta con uno spillo sulla punta. 
– Ma che…? – riuscì solo a dire, poi le palle degli occhi rotearono in su mettendo in 
mostra la sclera bianca e la bocca gli si paralizzò in un ghigno. Fece un passo indietro e, 
rigido come una statua, crollò a terra. 
Le Belve lo guardavano stupite, poi da un cespuglio apparve Mantos con la sua 
cerbottana. – Cagava il cazzo, eh? Non sapete quanto lo cagava a scuola… 
Murder diede il cinque al suo capo. – L’hai steso. Questo Sedaron è una bomba. 
– Ve l’avevo detto. Bravo Zombie, hai trovato il trinciapollo. 
– E di questo? – Silvietta si abbassò sul corpo di Antonio. – Che ne facciamo? 
– Lo leghiamo e lo imbavagliamo. E poi lo nascondiamo da qualche parte.

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