Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
 
5. Buffet di benvenuto  
Anche Fabrizio Ciba e gli altri invitati furono costretti a sottoporsi a una trafila simile 
a quella subita dalle Belve per entrare nella Villa. Lo scrittore attraversò il metal 
detector. 
Quando toccò alla Somaini, fu costretta a lasciare il cellulare. 
– Ma che è ’sta pagliacciata? – domandò lo scrittore a una hostess. La ragazza spiegò 
che Chiatti non voleva che la festa diventasse un evento pubblico. Quindi non si 
potevano mandare foto, video né tantomeno comunicare con l’esterno. Per questa 
ragione non erano stati accreditati i giornalisti. 
– Non preoccuparti, ci stanno i fotografi di «Sorrisi & Canzoni». Chiatti gli ha dato 
l’esclusiva, – gli confidò a bassa voce la Somaini, che di queste cose era un’esperta. 
I due uscirono dal posto di controllo e si trovarono di fronte a un piccolo treno a forma 
di siluro, poggiato su una monorotaia. Sopra c’era scritto: VILLA ADA ENTERPRISE.
Si sedettero su delle poltroncine di pelle nera. Gli altoparlanti della carrozza 
diffondevano la voce di Louis Armstrong che cantava What a Wonderful World. Insieme 
a loro montò in carrozza Paco Jiménez de la Frontera, con i lunghi capelli ossigenati e il 
mascellone che faceva impazzire le donne. Per l’occasione il calciatore indossava uno 
smoking sbrilluccicante e sotto una maglietta di raso bianca. La sua donna, la statuaria 
modella di Montopoli di Sabina, Taja Testari, era ricoperta da capo a piedi da un vestito 
di organza nera che le velava il corpo nudo.
Fabrizio, dopo il gran galà di Canale 5, se l’era fatta, ma era talmente ubriaco che si 
ricordava solo che mentre scopavano lei gli aveva tirato un cartone sul naso, non sapeva 
se per un gioco erotico o perché lui le aveva strappato il vestito. 
Lo raggiunse anche il compagno di squadra Milo Serinov con un’ex velina al seguito, 
lasciando dietro di sé una scia nauseabonda di dopobarba. Simona Somaini continuava a 
squittire stringendosi al braccio di Fabrizio Ciba e incollandogli addosso le tette. Lo 
scrittore sospettava facesse tutto questo perché sapeva che i diritti della Fossa dei leoni 
erano stati venduti alla Paramount e chissà cosa sperava. Non sapeva che lui non aveva 
alcun potere sul film. Gli americani non lo avevano nemmeno voluto incontrare. Alla 
sua agente avevano risposto che non lo ritenevano necessario. Gli avevano dato una 
paccata di soldi con il patto di non rompere i coglioni.
Lo schermo piatto sullo schienale della poltrona davanti prese vita e apparve il 
faccione di Salvatore Chiatti. 
– Oddio è uguale a Minosse! – fece Simona mettendosi una mano sulla bocca per la 
sorpresa. 
Fabrizio rimase stupito. Non immaginava che l’attrice fosse esperta di mitologia 
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greca. – Minosse? 
– Sì, il carlino di Diego Malara, il mio parrucchiere. È identico. 
L’attrice non si sbagliava, l’immobiliarista campano aveva una rassomiglianza 
incredibile con il piccolo molossoide. Gli occhi esoftalmici, il naso piccolo e rincagnato, 
il cranio tondo che s’incastonava direttamente nelle spalle larghe. Ai lati, sopra le 
orecchie minute, gli cresceva una striscia di capelli argentati, ma per il resto era 
completamente calvo. 
– Buongiorno, sono Salvatore Chiatti. Spero che questa festa possa superare ogni 
vostra immaginazione. Io e i miei assistenti abbiamo profuso ogni sforzo perché ciò 
possa accadere. Ora per favore chiudete gli occhi. Non sto scherzando, fatelo davvero – . 
I viaggiatori si guardarono tra loro e poi un po’ imbarazzati obbedirono. 
La voce di Chiatti era sempre più zuccherosa. – Immaginate di tornare bambini. Siete 
soli in una piccola capanna di legno, la nonna è andata in paese. A un tratto il cielo inizia 
a brontolare. Aprite la finestra e che cosa vedete? In fondo alla pianura un tornado 
avanza verso di voi. Allora disperati cominciate a chiudere tutte le imposte, a serrare la 
porticina, ma la tromba d’aria in un attimo è sulla casetta e vi trascina in cielo con tutta 
la capanna. La casa gira, gira, gira… E il tornado vi porta in alto, sempre più in alto, 
sempre più in alto, oltre l’arcobaleno – . Di sottofondo attaccò una versione strumentale 
di Over the Rainbow. – E per finire vi deposita gentilmente in un nuovo mondo mai 
esplorato. In un mondo dove la natura selvaggia e incontaminata vive in armonia con gli 
uomini. Ora potete aprire gli occhi. Benvenuti nel paradiso terrestre. Benvenuti a Villa 
Ada. Reggetevi forte. Un, due, tre, si parte! 
– Oddio – . Simona Somaini strinse la mano di Fabrizio Ciba mentre il treno partiva 
appiccicandoli agli schienali. Attraversarono a tutta velocità poche decine di metri di 
bosco e poi la rotaia come le montagne russe puntò in alto portandoli al di sopra delle 
fronde dei pini. Al loro passaggio si sollevavano stormi di pappagalli colorati, gru 
cenerine ed enormi avvoltoi dal collo spelacchiato. Poi lentamente ridiscesero e si 
trovarono in una prateria verde, passarono tra mandrie di gnu, zebre, bufali e giraffe che 
non sembravano turbati dal treno. Proseguirono su una piccola altura dove una colonia 
di leoni sonnecchiava al sole accanto a un branco di licaoni, e da lì giù per un costone su 
cui crescevano degli alberi bassi. 
I passeggeri urlavano dall’eccitazione indicando gli animali. Tra la vegetazione a 
Fabrizio sembrò di intravedere delle scimmie. Il treno fece un’ampia curva che 
lentamente li riportò a una trentina di metri d’altezza. Da quella posizione ebbero una 
visione completa del parco. Era un immenso tappeto verde e i palazzi del quartiere 
Salario e il viadotto dell’Olimpica si scorgevano appena. 
In una discesa da mozzare il respiro il treno scivolò su un grande lago dove erano 
ormeggiate tre case galleggianti. Il siluro s’incuneò sott’acqua in un tripudio di schizzi e 
urla dei viaggiatori. 
Simona era entusiasta. – Nemmeno a Gardaland nelle cascate dei pirati mi sono 
divertita tanto. 
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Il treno tornò indietro puntando verso un palazzetto con una torretta e un giardino 
all’italiana con le siepi che formavano grandi disegni geometrici. Li rallentò 
bruscamente e si fermò. Le porte si aprirono con uno sbuffo. Ad attenderli sulla 
piattaforma c’erano hostess che offrivano binocoli e libretti con le foto degli animali 
della riserva. 
– Dove si beve? Ho bisogno di un bourbon, – fece Ciba, impedendosi di esprimere 
tutto il profondo disprezzo che provava per Chiatti e quella messa in scena dello 
zoosafari. E vogliamo parlare della storiella che aveva raccontato, copiata alla cazzo di 
cane dal Mago di Oz? Quello sdegno lo avrebbe fatto crescere, l’avrebbe raffinato, reso 
sublime e poi lo avrebbe riversato con la potenza di una bomba nucleare sull’articolone 
per «Repubblica». 
A questo pensiero si sentì meglio. Era ancora l’enfant terrible di un tempo, lo scrittore 
acuto e tagliente come una scheggia impazzita che avrebbe fatto a pezzi quel patetico 
baraccone.

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