Larita aveva osservato la scena fino a quando i due si erano baciati.
Poi
si era infilata una tuta, si era nascosta sotto il cappuccio ed era riuscita ad
allontanarsi da quella bolgia prima che qualcuno la potesse riconoscere.
Era stata brava, non era scoppiata a piangere.
Con la sua solita sfiga, quella notte aveva incontrato un altro stronzo. Ma per fortuna
si era dileguato dalla sua esistenza prima di poter fare danni.
Nel palmo aveva il bigliettino che le aveva dato Mantos. Lo aprì facendo attenzione a
non stracciarlo. Sopra, stinto ma ancora leggibile, c’era scritto:
MI SONO INNAMORATO SENZA CONOSCERE L ’AMORE E PERDO LA
VITA SENZA AVERLA CONOSCIUTA.
EDO DETTO ZOMBIE
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Parte IV
Quattro anni dopo
Chi vince a Merano…
Chi cerca il petrolio…
Chi dipinge ad olio…
Chi porta gli occhiali…
Chi tutto sommato…
RINO GAETANO,
Il cielo è sempre più blu.
Villa Ada, dopo la terribile notte del festone e la morte di Sasà Chiatti, era ritornata in
mano al Comune. E i romani avevano ripreso a come se l’epoca Chiatti non fosse mai
esistita.
In effetti di quei fasti era rimasto assai poco. Una lapide all’ingresso di via Panama
con i nomi dei vip morti. Le rotaie del trenino già avvolte dalle fronde dell’edera.
Qualche facocero e Gino e Nunzia, una coppia di avvoltoi grassi come tacchini, che
razzolavano nei cestini della monnezza. Gli altri animali erano finiti nei bioparchi della
penisola.
Per il resto era tornata a essere la solita e vecchia Villa Ada. Sterminata, intricata,
sporca, spinosa, polverosa, tana di extracomunitari senza permesso di soggiorno, di cani
randagi e pantegane.
I pini secolari, malati fino al midollo, continuavano a cadere sui
passanti. I prati erano di nuovo invasi dai roveti. I laghi verdi e fetenti, culla di zanzare
tigre, nutrie e tartarughe acquatiche. Erano riapparsi i cani senza museruola, i poliziotti
che flirtavano con le ragazze alla pari, i ciclisti vestiti come catarifrangenti, i suonatori
di bonghi, i fumatori di canne, i vecchi seduti sulle panchine.
Ma il 29 aprile, esattamente a quattro anni dalla notte della festa, in un’assolata ma
ancora fredda giornata romana, c’erano anche Murder e Silvietta.
Sdraiati su un plaid scozzese facevano un picnic a
base di frittata di maccheroni,
supplì e pizza ai funghi.
Da tre anni avevano deciso che quel giorno era dedicato alla memoria di Mantos e di
Zombie.
Non che facessero granché per onorare i loro amici, ma a loro andava bene così. Si
prendevano un giorno di ferie (avevano aperto un’impresa familiare di trattamento di
pavimenti in cotto a Oriolo), montavano sulla Ford Ka e se ne andavano a Roma. E se
c’era bel tempo,
come quel giorno, facevano un picnic, leggevano e qualche volta ci
scappava anche una pennichella all’aria aperta.
Così ricordavano i loro amici.
Quell’anno però era speciale. Avevano portato anche Bruce, il loro figlio di due anni
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che oramai camminava e, se non lo tenevi d’occhio, partiva
spinto da quelle gambette
instabili e finiva chissà dove.
Silvietta sollevò lo sguardo dal libro. – Dài vallo a riprendere… – disse a suo marito.
Murder si mise in piedi e sbadigliò. – Ti sta piacendo quel libro, eh?
– Una luce nella nebbia è bellissimo. Non riesco a staccarmi. Secondo me è meglio
della
Fossa dei leoni. Ciba è diventato uno scrittore maturo. E poi queste storie di
contadini della Bassa padana sono così toccanti.
Murder addentò la pizza. – Chissà come fa a conoscere quella gente? Lui che è
sempre vissuto a Roma.
– È un genio. Puro e semplice talento. Mi ricordo quando alla festa ha letto la poesia.
Che persona speciale – . Silvietta si guardò intorno. – Dài muoviti. Fai il papà. Vai da
Bruce.
Murder si stiracchiò. – D’accordo mia regina, ti riporto il tuo pargolo – . Le diede un
bacio e si avviò verso le giostre, dove si era diretto il bambino.
Silvietta rimase un istante a fissare suo marito che si allontanava. Doveva
assolutamente rifargli l’orlo dei jeans sdruciti. Poi si gettò di nuovo nel romanzo. Le
mancavano meno di cinquanta pagine. Ma dopo neppure tre minuti sentì Murder che la
chiamava. – Amore… Amore… Vieni subito.
Silvietta chiuse il libro e lo lasciò sul plaid. Trovò il marito
e il figlio accanto a un
cucciolo di pastore tedesco. Il bambino allungava la manina verso l’animale, che gli
correva intorno scodinzolando.
Bruce non aveva paura, anzi. Rideva a crepapelle e cercava di prenderlo.
Silvietta si avvicinò al figlio. – Ti piace, tesoro?
Murder accarezzò il cucciolo e quello si buttò a pancia all’aria, pronto per una bella
grattata. – Forse dovremmo prendergliene uno. Guarda quanto gli piace.
– E poi chi lo porta fuori?
Murder sollevò le spalle. – Io. Che problema c’è?
– Non ci credo – . Silvietta diede un pugno affettuoso sulla spalla di suo marito.
Murder prese in braccio Bruce, che cominciò a lamentarsi.
– Dài, andiamo a mangiare che sarà diventato tutto freddo.
Ma quando tornarono trovarono il picnic depredato. Qualcuno aveva preso la busta
con i supplì, e anche la frittata era sparita.
Murder si mise le mani sui fianchi e allargò le gambe. – Ma guarda tu che figli di
puttana! Uno non si può allontanare un attimo…
Silvietta raccattò la borsa. – I soldi non li hanno presi però.
Murder indicò un supplì spappolato sotto un cespuglio di alloro.
Marito e moglie, in silenzio, cercando di non far rumore, si avvicinarono. Sulle prime
non videro niente, poi si accorsero che sotto i rami era accucciato un uomo con addosso
una vecchia tuta sbrindellata
e uno strano copricapo, fatto di penne di piccione e
bottigliette di Coca-Cola. Si stava ingozzando con il loro picnic.
– Ehi! Tu! Ladro! – gli urlò Murder. – Ridammi la frittata!
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L’uomo, colto in flagrante, fece un salto per lo spavento. Per un istante si girò e li
guardò, un istante appena, poi prese la frittata da terra e
zoppicando scomparve tra la
vegetazione.
I due rimasero li, impietriti.
Silvietta si mise la mano sulla bocca. – Non dirmi che era…
Murder fissava i cespugli, poi deglutì e guardò sua moglie. – No. Non te lo dico.
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