Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
 
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15. 
Un minuscolo puntino teneva il sole ancorato all’orizzonte, quando Fabrizio Ciba 
riapri gli occhi. 
Vide una volta di foglie d’oro, nubi di moscerini, farfalle. Tutto intorno 
riecheggiavano i richiami degli uccelli. E sentiva l’acqua che scorreva e gocciolava 
carezzevole come quella di una doccia. Aspirò l’odore di terra zuppa. Sulle spalle, sulla 
nuca e sugli stracci bagnati che aveva addosso gli arrivava il calore tiepido del sole. 
Restò fermo, senza pensare a nulla. Poi lentamente i ricordi della notte passata, della 
catacomba, del muro d’acqua che lo aveva sepolto si coagularono in un pensiero. Un 
pensiero molto positivo. 
Sono vivo. 
Questa consapevolezza lo cullò, e cominciò a riflettere che anche questa brutta 
esperienza sarebbe passata. Con il tempo avrebbe perso di drammaticità e nell’arco di 
qualche mese l’avrebbe ricordata con un misto di divertimento e rimpianto. E avrebbe 
avuto un senso. 
La mente umana funziona così. 
Si sorprese di quanto era saggio. 
Era arrivato il momento di scoprire dove stava. Si tirò sui gomiti e vide che era steso 
su un letto di fango e sabbia che si spargeva tra due collinette coperte di alberi. Al centro 
scorreva un rivolo d’acqua. C’erano ossa ovunque, scarpe, un cap da cavallo e un grande 
coccodrillo a pancia all’aria, il ventre gonfio e bianco. Le mosche già gli ronzavano 
intorno. 
Si mise in piedi e si sgranchì, contento di non avere ferite e di sentirsi un po’ 
acciaccato ma in forma. E si accorse di avere fame. 
È un buon segno. Un segno di vita. 
Si incamminò verso il sole. Superò il boschetto sbadigliando ma si dovette fermare di 
fronte a una visione mozzafiato. 
Nella vegetazione si apriva uno spiraglio. Si vedeva in lontananza l’Olimpica intasata 
dal solito traffico mattutino, i campi da rugby deserti dell’Acqua Acetosa, l’ansa 
immobile e grigia del Tevere. Più in fondo il viadotto di corso Francia coperto di 
macchine e la collina Fleming rigogliosa di vegetazione. 
Roma. 
La sua città. La più bella e antica del mondo. Non l’aveva mai amata come in quel 
momento. 
Cominciò a evocare con la mente un bar, un bar romano, uno imprecisato. Con il 
terziario in giacca e cravatta che si accalca contro il bancone sporco di zucchero. I 
cornetti alla crema. I fagottini con le mele. I tramezzini. Il rumore dei piattini e delle 
tazze sbattuti nel lavello. Il tintinnio dei cucchiai. Il «Corriere dello Sport». 
Scese dalla collinetta quasi saltando. Se non ricordava male, l’uscita era in quella 
direzione. Trovò un viottolo e cominciò a scendere a due gradini per volta le scalette 
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che, attraverso il bosco, portavano verso il lago. 
C’era qualcosa, uno strano oggetto, proprio in mezzo alle scale. Rallentò. Sembrava 
di metallo e aveva delle ruote. Si avvicinò un altro po’ fino a quando capi cos’era. 
Una sedia a rotelle. 
Era rovesciata su un fianco. Oltre la sedia c’era un corpo, steso sui gradini. Fabrizio, 
trattenendo il fiato, si avvicinò. 
Sulle prime non lo riconobbe, ma vide poi la testa pelata, le orecchie a sventola. La 
sacca fecale di Vuitton. 
Si mise una mano tra i capelli. Oddio, è Umberto Cruciani. 
Il vecchio maestro, a terra e senza la sua sedia, sembrava un paguro Bernardo a cui 
hanno tolto il guscio. 
Fabrizio non ebbe bisogno di toccarlo per capire che era morto. Gli occhi sbarrati 
sotto le sopracciglia scure e folte. La bocca senza denti spalancata. Le mani rattrappite. 
Doveva essere precipitato per le scale. 
Fabrizio si piegò sul cadavere del grande scrittore e gli chiuse gli occhi. 
Un altro grande se n’era andato. L’autore della Muraglia occidentale e di Pane e 
chiodi, i capolavori della letteratura italiana degli anni Settanta, se n’era andato 
lasciando un mondo più povero e triste. 
Fabrizio Ciba fu scosso da un singhiozzo, da un altro e da un altro ancora. Non aveva 
mai pianto durante quella notte folle, ma ora scoppiò a piangere come un bambino. 
Non piangeva di dolore, ma di gioia. 
Si asciugò le lacrime, gli carezzò il volto scheletrico e con un colpo gli strappò la 
chiavetta USB da 40 gb dal collo. 
Sorrise tirando su con il naso. – Grazie, maestro. Mi hai salvato. 
E lo baciò sulla bocca. 
Larita era riuscita a emergere dal pozzo. Le radici l’avevano aiutata ad arrampicarsi 
fino in cima. 
Ora camminava a testa bassa attraverso un pratone su cui pascolavano tranquilli gnu, 
bufali e canguri. 
Non poteva togliersi dalla testa l’immagine della mano di Mantos che sfiorava la sua, 
le dava un bigliettino e spariva nell’acqua nera. 
Tirò fuori dalla tasca il pezzo di carta tutto bagnato. Sopra c’era una scritta slavata, 
ma ancora leggibile. 
«A Silvietta». 
Chi era Silvietta? E soprattutto, chi era Mantos? 
Un eroe apparso dal nulla che si era sacrificato per salvarla. 
Forse Silvietta era la sua amata. 
La cantante stava per aprire il biglietto, quando sentì le sirene della polizia. 
Col pezzetto di carta in mano cominciò a correre. I vigili del fuoco dopo diverse ore 
di lavoro erano riusciti ad aprire una breccia nel muro di recinzione della Villa. Era più 
facile che sfondare i cancelli d’acciaio. Avevano recintato la zona, che si era affollata di 
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curiosi, macchine della polizia, decine di ambulanze, giornalisti e fotografi. Gli invitati 
arrivavano alla spicciolata. Molti si reggevano in piedi a malapena e venivano accolti da 
équipe mediche che li sdraiavano sulle lettighe. Corman Sullivan era stato imbustato in 
una camera iperbarica gonfiabile. Antonio, il cugino di Saverio, con la testa fasciata in 
un enorme turbante di garza, beveva un tè caldo. Paco Jiménez de la Frontera e Milo 
Serinov parlavano al cellulare. Cristina Lotto si abbracciava al marito. Mago Daniel era 
in mutande e discuteva con il vecchio Cinelli e un cinese vestito da acrobata. 
Larita si fece spazio tra la gente. Il cuore le batteva forte e le tremavano le mani per 
l’emozione. 
Una giovane infermiera le si avvicinò con una coperta. – Venga con me. 
La cantante fece segno che stava bene. – Un attimo… Un attimo soltanto. 
Dov’era? E se… Non volle finire quel pensiero troppo triste. 
Non c’era da nessuna parte. Poi si accorse di un capannello di giornalisti che si 
accalcavano intorno a qualcuno. Fabrizio era li che rispondeva alle domande degli 
intervistatori. Nonostante fosse avvolto in una coperta grigia, pareva in ottima forma. 
Un peso scomparve dal cuore di Larita. Si avvicinò per guardarselo meglio. 

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