Niccolo Ammaniti Che la festa cominci


partecipazione disse: – Sawhney mi deve parlare. Per favore, fatemi andare



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1


partecipazione disse: – Sawhney mi deve parlare. Per favore, fatemi andare. 
Al tavolo degli aperitivi si scolò due whisky uno dietro l’altro e si sentì meglio. Ora, 
con l’alcol in corpo, poteva affrontare il premio Nobel. 
Leo Malagò si avvicinò scodinzolando felice come un cane che ha ricevuto un 
crostino al cinghiale. – Grande! Hai steso tutti con quella storiella del fuoco. Io mi 
chiedo come ti vengono certe idee. Ora però Fabrizio, per favore, non ti ubriacare. 
Dobbiamo andare a cena – . Lo prese a braccetto. – Sono andato a controllare al banco 
dei libri. Sai quanti ne hai venduti stasera? 
– Quanti? – Non poté fare a meno di rispondere. Era un riflesso condizionato. 
– Novantadue! E sai quanti ne ha venduti Sawhney? Nove! Non sai quanto è 
incazzato Angiò – . Massimo Angiò era l’editor della narrativa straniera. – Ci godo 
troppo a vederlo incazzato! E domani sei su tutti i giornali. A proposito, ma che pezzo di 
figa è la traduttrice? – Il viso di Malagò si rilassò. Gli occhi gli si fecero 
improvvisamente buoni. – Pensa scoparsela… 
Fabrizio invece aveva perso qualsiasi interesse per la ragazza. Il suo umore stava 
scendendo come un termometro durante un’improvvisa gelata. Che voleva l’indiano da 
lui? Rimproverarlo per le stronzate che aveva sparato? Si fece forza. – Scusami un 
attimo. 
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi 
graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. 
Gli si avvicinò con cautela. – Mi scusi… 
Il vecchio indiano si girò, lo vide, sorrise mettendo in mostra una dentatura troppo 
perfetta per essere vera. – La prego, prenda una sedia. 
Fabrizio si sentiva come un bambino chiamato dal preside per fargli una ramanzina. 
– Come va? – chiese Fabrizio con il suo inglese scolastico sedendoglisi di fronte. 
– Bene, grazie – . Poi l’indiano ci ripensò. – In verità, sono un po’ stanco. Non riesco 
a dormire. Soffro d’insonnia. 
– Io no, fortunatamente – . Fabrizio si rese conto che non aveva niente da dirgli. 
– Ho letto il suo libro. Un po’ in fretta, in aereo, me ne scuso… 
A Fabrizio uscì fuori uno strozzato: – E? – Stava per ascoltare il giudizio del premio 
Nobel per la letteratura. Dello scrittore più importante al mondo. Quello che aveva avuto 
la miglior rassegna stampa degli ultimi dieci anni. Una parte del suo cervello si 
domandò se lo volesse veramente sentire. 
Gli ha fatto schifo sicuro. 
– Mi è piaciuto. Molto. 
Fabrizio Ciba avverti un senso di benessere pervadergli il corpo. Una sensazione 
simile a quella che provano i tossici quando si iniettano eroina di buona qualità. Una 
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specie di calore benefico che gli fece formicolare la nuca, gli scivolò lungo la 
mandibola, gli serrò le palpebre, si insinuò tra gengive e denti, scese giù per la trachea, 
si irradiò bollente e piacevole come Vicks VapoRub dallo sterno alla schiena attraverso 
le costole e gli saltellò da una vertebra all’altra fino al bacino. Lo sfintere ebbe un 
palpito e contemporaneamente gli si rizzarono i peli delle braccia. Era come fare una 
doccia calda senza bagnarsi. Meglio. Un massaggio senza essere palpato. Durante questa 
reazione fisiologica che durò all’incirca cinque secondi Fabrizio fu cieco e sordo e 
quando finalmente tornò alla realtà Sawhney stava parlando, 
– … luoghi, fatti e persone sono all’oscuro della forza che li cancella. Non crede? 
– Sì, certamente, – rispose. Non aveva sentito nulla. – Grazie. Sono felice. 
– Lei sa come interessare il lettore, come muovere le corde migliori della sua 
sensibilità. Mi piacerebbe leggere qualcosa di più lungo. 
– La fossa dei leoni è il libro più lungo che ho scritto. Da poco… – in realtà erano 
quasi cinque anni, – … ho scritto un altro romanzo, Il sogno di Nestore, ma anche quello 
è abbastanza breve. 
– Come mai non si avventura oltre? Ha certamente i mezzi espressivi per farlo. Non 
abbia timore. Si lasci andare senza paura. Se posso darle un consiglio, non si freni, si 
faccia afferrare dalla narrazione. 
Fabrizio si trattenne dall’abbracciare quel caro adorabile vecchietto. Quanto era vero e 
giusto quello che stava dicendo. Sapeva di essere in grado di scrivere IL GRANDE 
ROMANZO. Anzi, IL GRANDE ROMANZO ITALIANO, tipo I promessi sposi per 
intenderci, quello che per i critici mancava alla nostra letteratura contemporanea. Dopo 
diversi tentativi, da qualche tempo stava lavorando alla saga di una famiglia sarda, dal 
milleseicento a oggi. Un progetto ambizioso ma che aveva decisamente più forza del 
Gattopardo o dei Viceré. 
Stava per dirglielo, ma un po’ di pudore lo trattenne. Si sentì in dovere di rispondere 
ai complimenti. Cominciò a creare: – Vorrei comunque dirle che il suo libro mi ha 
letteralmente entusiasmato. È un romanzo straordinariamente organico e la trama è così 
intensa… Come fa? Qual è il suo segreto? C’è un’energia drammatica che mi ha lasciato 
scosso per settimane. Il lettore non solo è chiamato a valutare la consapevolezza e 
l’innocenza di queste potenti figure femminili ma attraverso le loro vicende, come 
dire… Sì, il lettore è obbligato a trasferire il suo sguardo dalle pagine del libro alla 
propria realtà. 
– Grazie, – disse l’indiano. – Che bello farsi i complimenti a vicenda. 
I due scrittori scoppiarono a ridere.

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