Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
 
6. 
Appena Tremagli concluse il suo intervento la platea cominciò a tirarsi su dalle 
poltrone dove si era rannicchiata, a sgranchirsi le gambe addormentate, a darsi pacche di 
solidarietà avendo superato una prova così impegnativa. Per un istante Fabrizio Ciba 
sperò che fosse finita là, che il professore avesse esaurito tutto il tempo a disposizione 
per l’incontro. 
Tremagli guardò Sawhney sicuro che facesse commenti ma l’indiano sorrise e, ancora 
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una volta, abbassò il capo in segno di saluto. A quel punto la palla avvelenata passò a 
Fabrizio. – Credo che tocchi a lei. 
– Grazie – . Il giovane scrittore si massaggiò il collo. – Parlerò poco – . Poi si rivolse 
al pubblico. – Vi vedo leggermente provati. E so che di là c’è un ottimo buffet – . Si 
maledisse nel momento stesso in cui quelle parole gli uscirono di bocca. Aveva 
pubblicamente offeso Tremagli, però vide negli occhi della platea uno scintillio 
d’approvazione che confermava le sue parole. 
Cercò un attacco, una stronzata qualunque con cui partire. – Ahhh… – Si schiarì la 
voce. Bussò sul microfono. Si versò un bicchiere d’acqua e si bagnò le labbra. Nulla. La 
sua mente era uno schermo nero. Uno scrigno svuotato. Un universo freddo e senza 
stelle. Un barattolo di caviale senza il caviale. Quella gente era arrivata li da ogni parte 
della città, sfidando il traffico, non trovando parcheggio, prendendosi una mezza 
giornata di libertà perché c’era lui. E lui non aveva una minchia da dire. Guardò il suo 
pubblico. Il pubblico che pendeva dalle sue labbra. Il pubblico che si domandava che 
cosa aspettasse a cominciare. 
La guerra del fuoco. 
Una fugace visione di un vecchio film francese, visto chissà quando, come lo spirito 
divino gli calò sulla mente e gli eccitò la corteccia che rilasciò sciami di 
neurotrasmettittori che piovvero su recettori pronti ad accoglierli risvegliando altre 
cellule del sistema nervoso centrale. 
– Scusatemi. Mi ero perso in un’immagine affascinante – . Si gettò i capelli indietro, 
regolò meglio l’altezza del microfono. – È l’alba. Un’alba sporca e lontana di 
ottocentomila anni fa. Fa freddo ma non c’è vento. Un canyon. Vegetazione bassa. Sassi. 
Sabbia. Tre piccoli esseri pelosi, alti un metro e mezzo, coperti di pelli di gazzella sono 
al centro di un fiume. La corrente è impetuosa, non è un fiumiciattolo qualsiasi ma un 
fiume con tutti i crismi. Uno di quei corsi d’acqua dove, tanti anni dopo, passeranno 
famiglie americane bardate con giubbotti gonfiabili a bordo di gommoni colorati – . 
Fabrizio fece una pausa tecnica. – L’acqua è grigia ed è bassa e gelata. Gli arriverà alle 
ginocchia, ma la corrente è maledettamente forte. E loro devono attraversare il fiume e 
avanzano poggiando con attenzione un piede alla volta. Uno dei tre, il più grosso, che 
con quelle trecce di capelli e fango assomiglia un po’ ai rasta giamaicani, stringe tra le 
mani una specie di cesta, una roba fatta di ramoscelli intrecciati. Al centro della cesta 
traballa una piccola fiammella, una minuscola fiammella preda dei venti, una fiammella 
che rischia di spegnersi, piccina, che va alimentata continuamente con fascine e pale di 
cactus secche che gli altri due stringono tra le braccia. Di notte, fanno i turni per tenerla 
accesa, rannicchiati dentro una caverna umida. Dormono con un occhio solo, attenti che 
il fuoco non si spenga. Per trovare la legna devono affrontare le bestie. Enormi, paurose. 
Tigri dai denti a sciabola, mammut pelosi, mostruosi armadilli con code appuntite. I 
nostri piccoli antenati non sono a capo della catena alimentare. Non la guardano dall’alto 
in basso. Stanno in una buona posizione nella hit–parade, ma sopra di loro ci sono un 
paio di esseri con un caratterino per niente amichevole. Possiedono denti affilati come 
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rasoi, hanno veleni capaci di inchiodare un rinoceronte in trenta secondi. È un mondo di 
spine, aculei, pungiglioni, di piante colorate e tossiche, di minuscoli rettili che spruzzano 
liquidi simili al Cif Ammoniacal… – Ciba si tastò la mascella e lanciò un’occhiata 
ispirata verso le volte affrescate della sala. 
Il pubblico non era più li, era nella preistoria. In attesa che lui proseguisse. 
Fabrizio si chiese perché cazzo li avesse portati nella preistoria, e dove stava andando 
a parare. Ma non importava, doveva proseguire. – I tre sono al centro di questo fiume. Il 
più grosso, il portatore del fuoco, è in testa alla fila. Con le braccia rigide come pezzi di 
marmo, tiene davanti a sé il debole falò. Sente i muscoli urlare di dolore ma avanza 
trattenendo il respiro. Una cosa non può fare, cadere. Se cade non avranno più il calore 
che gli permette di non morire di freddo in quelle notti senza fine, di arrostire le carni 
coriacee dei facoceri, di tenere lontane le fiere dall’accampamento – . Sbirciò l’indiano. 
Seguiva? Sembrava di si. Alice gli traduceva e lui sorrideva, tenendo la testa un po’ 
sollevata, come fanno a volte i ciechi. – Qual è il problema, vi starete chiedendo? Che ci 
vuole ad accendere un fuoco? Vi ricordate il libro di storia delle medie? Quelle 
illustrazioni in cui si vede il famoso uomo primitivo, con barba e perizoma, che sfrega 
due sassi accanto a un bel falò preparato da uno scout diligente? Dove stanno queste 
maledette pietre focaie? Ne avete mai trovata una durante una passeggiata in montagna? 
Io no. Vi volete fumare una sigaretta durante un trekking, siete senza fiato ma una bella 
marlborina ci vuole proprio, non avete l’accendino e allora che fate? Chiaro! Prendete da 
terra due pietre e tac, una scintilla. No, amici miei! Non funziona così. E i nostri 
antenati, sfortunaccia loro, vivono solo cento anni prima di quel genio, un genio senza 
nome, un genio a cui nessuno ha pensato di dedicare un monumento, un genio al livello 
di Leonardo da Vinci e Einstein, che scoprirà che certe pietre, ricche di zolfo, sfregate 
tra loro producono scintille. Questi tre, per avere il fuoco, devono aspettare che un 
fulmine cada dal cielo e bruci una foresta. Un avvenimento che accade ogni tanto, ma 
non così frequentemente. «Scusa, dovrei arrostire questo brontosauro, non ho fuoco, 
caro, vai a cercare un incendio», dice mamma ominide, e il figlio parte. Lo rivedrà dopo 
tre anni – . Risate del pubblico. Addirittura partono un paio di brevi applausi. – Ora 
capite perché questi tre devono tenere acceso quel fuoco. Il famoso fuoco sacro… – 
Ciba prese fiato ed elargì un gran sorriso al suo pubblico. – Perché vi sto raccontando 
tutto questo, non lo so… 
– Risate. – Anzi, forse lo so… E credo che anche voi lo abbiate capito. Sarwar 
Sawhney, questo eccezionale scrittore, è uno di quegli esseri che si sono presi la 
difficile, terribile responsabilità di tenere acceso il fuoco e consegnarcelo quando il cielo 
si fa buio e il freddo ci penetra l’anima. La cultura è un fuoco che non si può spegnere e 
riaccendere con un fiammifero. Va preservata, mantenuta alta, alimentata. E tutti gli 
scrittori, e tra questi mi ci metto anch’io, hanno il dovere di non dimenticarsi mai di quel 
fuoco – . Ciba si alzò dalla sedia. – Vorrei che vi alzaste tutti. Ve lo chiedo per favore. 
In piedi un attimo. Qui con noi c’è un grande scrittore che va onorato per quello che fa. 
Tutti si alzarono in un gran frastuono di sedie ad applaudire fragorosamente il vecchio 
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indiano, che cominciò a ciondolare la testa piuttosto imbarazzato. – Bravo! Bene! 
Bravo! Grazie di esistere! – urlava qualcuno che probabilmente sentiva il nome di 
Sawhney per la prima volta e che certo non si sarebbe comprato il suo libro. Anche 
Tremagli, a malincuore, dovette alzarsi e applaudire a quella pagliacciata. Una ragazza 
in seconda fila tirò fuori un accendino. Fu subito imitata da tutti. Fiammelle si accesero 
ovunque. Qualcuno spense i grandi lampadari e la lunga stanza fu lugubramente 
illuminata da cento fuocherelli. Sembrava di stare a un concerto di Baglioni. 
– Perché no – . Ciba tirò fuori l’accendino anche lui. Vide l’amministratore delegato, 
il direttore generale e il gruppo intero della Martinelli imitarlo. 
Lo scrittore era soddisfatto.

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