una volta, abbassò il capo in segno di saluto. A quel punto la palla avvelenata passò a
Fabrizio. – Credo che tocchi a lei.
– Grazie – . Il giovane scrittore si massaggiò il collo. – Parlerò poco – . Poi si rivolse
al pubblico. – Vi vedo leggermente provati. E so che di là c’è un ottimo buffet – . Si
maledisse nel momento stesso in cui quelle parole gli uscirono di bocca. Aveva
pubblicamente offeso Tremagli, però vide negli occhi della platea uno scintillio
d’approvazione che confermava le sue parole.
Cercò un attacco, una stronzata qualunque con cui partire. – Ahhh… – Si schiarì la
voce. Bussò sul microfono. Si versò un bicchiere d’acqua e si bagnò le labbra. Nulla. La
sua mente era uno schermo nero. Uno scrigno svuotato.
Un universo freddo e senza
stelle. Un barattolo di caviale senza il caviale. Quella gente era arrivata li da ogni parte
della città, sfidando il traffico, non trovando parcheggio, prendendosi una mezza
giornata di libertà perché c’era lui. E lui non aveva una minchia da dire. Guardò il suo
pubblico. Il pubblico che pendeva dalle sue labbra. Il pubblico che si domandava che
cosa aspettasse a cominciare.
La guerra del fuoco.
Una fugace visione di un vecchio film francese, visto chissà quando, come lo spirito
divino gli calò sulla mente e gli eccitò la corteccia che rilasciò sciami di
neurotrasmettittori che piovvero su recettori pronti ad accoglierli
risvegliando altre
cellule del sistema nervoso centrale.
– Scusatemi. Mi ero perso in un’immagine affascinante – . Si gettò i capelli indietro,
regolò meglio l’altezza del microfono. – È l’alba. Un’alba sporca e lontana di
ottocentomila anni fa. Fa freddo ma non c’è vento. Un canyon. Vegetazione bassa. Sassi.
Sabbia. Tre piccoli esseri pelosi, alti un metro e mezzo, coperti di pelli di gazzella sono
al centro di un fiume. La corrente è impetuosa, non è un fiumiciattolo qualsiasi ma un
fiume con tutti i crismi. Uno di quei corsi d’acqua dove, tanti anni dopo, passeranno
famiglie americane bardate con giubbotti gonfiabili a bordo di gommoni colorati – .
Fabrizio fece una pausa tecnica. – L’acqua è grigia ed è bassa e gelata. Gli arriverà alle
ginocchia, ma la corrente è maledettamente forte. E loro devono attraversare il fiume e
avanzano poggiando con attenzione un piede alla volta. Uno dei tre, il più grosso, che
con quelle trecce di capelli e fango assomiglia un po’ ai rasta giamaicani, stringe tra le
mani
una specie di cesta, una roba fatta di ramoscelli intrecciati. Al centro della cesta
traballa una piccola fiammella, una minuscola fiammella preda dei venti, una fiammella
che rischia di spegnersi, piccina, che va alimentata continuamente con fascine e pale di
cactus secche che gli altri due stringono tra le braccia. Di notte, fanno i turni per tenerla
accesa, rannicchiati dentro una caverna umida. Dormono con un occhio solo, attenti che
il fuoco non si spenga. Per trovare la legna devono affrontare le bestie. Enormi, paurose.
Tigri dai denti a sciabola, mammut pelosi, mostruosi armadilli con code appuntite. I
nostri piccoli antenati non sono a capo della catena alimentare. Non la guardano dall’alto
in basso. Stanno in una buona posizione nella hit–parade, ma sopra di loro ci sono un
paio di esseri con un caratterino per niente amichevole. Possiedono
denti affilati come
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rasoi, hanno veleni capaci di inchiodare un rinoceronte in trenta secondi. È un mondo di
spine, aculei, pungiglioni, di piante colorate e tossiche, di minuscoli rettili che spruzzano
liquidi simili al Cif Ammoniacal… – Ciba si tastò la mascella e lanciò un’occhiata
ispirata verso le volte affrescate della sala.
Il pubblico non era più li, era nella preistoria. In attesa che lui proseguisse.
Fabrizio si chiese perché cazzo li avesse portati nella preistoria, e dove stava andando
a parare. Ma non importava, doveva proseguire. – I tre sono al centro di questo fiume. Il
più grosso, il portatore del fuoco, è in testa alla fila. Con le braccia rigide come pezzi di
marmo, tiene davanti a sé il debole falò. Sente i muscoli urlare di dolore ma avanza
trattenendo il respiro. Una cosa non può fare, cadere. Se cade non avranno più il calore
che gli permette di non morire di freddo in quelle notti senza fine, di arrostire le carni
coriacee dei facoceri, di tenere lontane le fiere dall’accampamento – . Sbirciò l’indiano.
Seguiva? Sembrava di si. Alice gli traduceva e lui sorrideva, tenendo la testa un po’
sollevata, come fanno a volte i ciechi. – Qual è il problema, vi starete chiedendo? Che ci
vuole ad accendere un fuoco? Vi ricordate il libro di storia delle medie?
Quelle
illustrazioni in cui si vede il famoso uomo primitivo, con barba e perizoma, che sfrega
due sassi accanto a un bel falò preparato da uno scout diligente? Dove stanno queste
maledette pietre focaie? Ne avete mai trovata una durante una passeggiata in montagna?
Io no. Vi volete fumare una sigaretta durante un trekking, siete senza fiato ma una bella
marlborina ci vuole proprio, non avete l’accendino e allora che fate? Chiaro! Prendete da
terra due pietre e tac, una scintilla. No, amici miei! Non funziona così. E i nostri
antenati, sfortunaccia loro, vivono solo cento anni prima di quel genio, un genio senza
nome, un genio a cui nessuno ha pensato di dedicare un monumento, un genio al livello
di Leonardo da Vinci e Einstein, che scoprirà che certe pietre, ricche di zolfo, sfregate
tra loro producono scintille. Questi tre,
per avere il fuoco, devono aspettare che un
fulmine cada dal cielo e bruci una foresta. Un avvenimento che accade ogni tanto, ma
non così frequentemente. «Scusa, dovrei arrostire questo brontosauro, non ho fuoco,
caro, vai a cercare un incendio», dice mamma ominide, e il figlio parte. Lo rivedrà dopo
tre anni – . Risate del pubblico. Addirittura partono un paio di brevi applausi. – Ora
capite perché questi tre devono tenere acceso quel fuoco. Il famoso fuoco sacro… –
Ciba prese fiato ed elargì un gran sorriso al suo pubblico. – Perché vi sto raccontando
tutto questo, non lo so…
– Risate. – Anzi, forse lo so… E credo che anche voi lo abbiate capito.
Sarwar
Sawhney, questo eccezionale scrittore, è uno di quegli esseri che si sono presi la
difficile, terribile responsabilità di tenere acceso il fuoco e consegnarcelo quando il cielo
si fa buio e il freddo ci penetra l’anima. La cultura è un fuoco che non si può spegnere e
riaccendere con un fiammifero. Va preservata, mantenuta alta, alimentata.
E tutti gli
scrittori, e tra questi mi ci metto anch’io, hanno il dovere di non dimenticarsi mai di quel
fuoco – . Ciba si alzò dalla sedia. – Vorrei che vi alzaste tutti. Ve lo chiedo per favore.
In piedi un attimo. Qui con noi c’è un grande scrittore che va onorato per quello che fa.
Tutti si alzarono in un gran frastuono di sedie ad applaudire fragorosamente il vecchio
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indiano, che cominciò a ciondolare la testa piuttosto imbarazzato. – Bravo! Bene!
Bravo! Grazie di esistere! – urlava qualcuno che probabilmente sentiva il nome di
Sawhney per la prima volta e che certo non si sarebbe comprato il suo libro. Anche
Tremagli, a malincuore, dovette alzarsi e applaudire a quella pagliacciata. Una ragazza
in seconda fila tirò fuori un accendino. Fu subito imitata da tutti. Fiammelle si accesero
ovunque. Qualcuno spense i grandi lampadari e la lunga stanza fu lugubramente
illuminata da cento fuocherelli. Sembrava di stare a un concerto di Baglioni.
– Perché no – . Ciba tirò fuori l’accendino anche lui. Vide l’amministratore delegato,
il direttore generale e il gruppo intero della Martinelli imitarlo.
Lo scrittore era soddisfatto.
Do'stlaringiz bilan baham: