Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Bog'liq
Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
 
4. 
Nella sala delle conferenze di Villa Malaparte c’era gente ovunque. Molti erano in 
piedi lungo i corridoi laterali. Alcuni studenti universitari erano seduti a terra a gambe 
incrociate di fronte al tavolo dei conferenzieri. Altri si erano appollaiati sui cornicioni 
delle finestre. Strano che non ci fosse nessuno appeso ai lampadari di Murano. 
Appena il primo fotografo avvistò lo scrittore i flash cominciarono a sparare. Trecento 
teste si girarono e ci fu un istante di silenzio. Poi, lentamente, montò un mormorio. 
Ciba camminava con addosso seicento occhi che lo osservavano. Si voltò un attimo 
indietro, abbassò il capo, si toccò il lobo dell’orecchio e mise su uno sguardo impaurito 
cercando di apparire leggermente goffo e imbarazzato. Tipo alieno teletrasportato dalle 
grotte venusiane. Il messaggio corporale che inviava era semplice: Io sono il più grande 
scrittore esistente sulla terra, eppure capita anche a me di arrivare in ritardo perché, 
nonostante tutto, sono una persona normale, proprio come voi. Appariva esattamente 
come voleva apparire. Giovane, tormentato, con la testa fra le nuvole. Con la giacca di 
tweed lisa sui gomiti e tenuta in piega dentro un barattolo di marmellata, con i pantaloni 
sformati e di due taglie più grandi (se li faceva fare in un kibbutz vicino al Mar Morto), 
con il gilet comprato in un charity shop di Portobello, con le vecchie Church’s che gli 
erano state regalate il giorno della laurea, con il naso appena troppo grande per il suo 
viso e con quel cespo di capelli ribelli che gli cadevano sugli occhi verdi. Una star. Un 
attore inglese che aveva il dono di scrivere come un dio. 
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Mentre avanzava verso il tavolo Fabrizio esaminò la composizione della platea. 
Valutò un dieci per cento di autorità, un quindici di giornalisti e fotografi, un buon 
quaranta di studenti, anzi studentesse cariche di ormoni, e un trentacinque di babbione in 
odore di menopausa. Poi calcolò la percentuale del suo libro e di quello dell’indiano 
tenuti sul petto da queste brave persone. Facile. Il suo era color carta da zucchero con il 
titolo di un bel rosso sangue, quello dell’indiano, bianco con le scritte in nero. Più 
dell’ottanta per cento era azzurrino! Riuscì a farsi spazio tra gli ultimi grappoli di folla. 
Chi gli stringeva la mano, chi gli dava una pacca fraterna come se fosse di ritorno 
dall’Isola dei famosi. 
Finalmente giunse al tavolo dei presentatori. Lo scrittore indiano era seduto al centro. 
Assomigliava a una testuggine a cui hanno sfilato il guscio, e infilato una tunica bianca e 
un paio di occhiali da vista con la montatura nera. Aveva un volto placido e due 
occhietti liquidi e distanti. Un tappeto di capelli neri tirati indietro con la brillantina lo 
aiutava a non assomigliare a una mummia egizia. Quando vide Fabrizio, l’indiano piegò 
leggermente la testa e poggiò le palme delle mani una sull’altra in segno di saluto. Ma a 
magnetizzare l’attenzione di Ciba fu la creatura femminile seduta accanto a Sawhney. 
Una trentina d’anni. Sangue misto. Mezza indiana e mezza caucasica. Poteva essere una 
modella, eppure quegli occhialini posati sul nasino all’insù le davano un’aria da 
maestrina. Una bacchetta cinese teneva disordinatamente insieme i lunghi capelli. 
Ciocche scomposte, color catrame, le cadevano sul collo magro. Una bocca piccola e 
carnosa, pigramente aperta, risaltava come una prugna matura sul mento appuntito. 
Indossava una camicetta di lino bianco, aperta quel tanto che basta per mettere in luce un 
décolleté né troppo piccolo né troppo abbondante. 
Una terza, calcolò Fabrizio. 
Le braccia color bronzo finivano con dei polsi sottili coperti di pesanti bracciali di 
rame. Le dita finivano invece con delle unghie laccate di nero. Fabrizio, sedendosi al suo 
posto, sbirciò sotto il tavolo per vedere se anche là era messa bene. Gambe eleganti 
spuntavano da una gonna scura. I piedi magri erano fasciati da sandali greci e anche le 
unghie dei piedi erano coperte dallo stesso smalto nero delle mani. Chi era quella dea 
calata dall’Olimpo? 
Tremagli, seduto sulla sinistra, sollevò uno sguardo severo dai suoi fogli. – Bene, il 
signor Ciba si è degnato di arrivare… – Fissò con ostentazione l’orologio che teneva al 
polso. – Credo, sempre che lei sia d’accordo, che potremmo iniziare. 
– D’accordo. 
A Fabrizio Ciba lo stimato professor Tremagli, senza usare mezzi termini, stava 
parecchio sui coglioni. Non lo aveva mai aggredito con le sue velenose recensioni ma 
non lo aveva nemmeno mai elogiato. Semplicemente, per il professor Tremagli l’opera 
di Ciba non esisteva. Quando parlava dell’attuale, increscioso, stato della letteratura 
italiana, cominciava a lodare una serie di scrittorucoli che conosceva solo lui e che se 
vendevano millecinquecento copie era festa in famiglia. Mai un accenno, mai un 
commento su Fabrizio. Finalmente, un giorno, sul «Corriere della Sera», alla domanda 
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diretta: «Professore, come spiega il fenomeno Ciba?» aveva risposto: «Se di fenomeno 
dobbiamo parlare, è fenomeno passeggero, una di quelle tempeste tanto temute dai 
meteorologi che passano senza arrecare danni». E aveva precisato: «Comunque non l’ho 
letto con attenzione». 
Fabrizio aveva cominciato a schiumare come un cane idrofobo e si era gettato sul 
computer a scrivere una risposta infuocata da pubblicare in prima di «Repubblica». Ma 
quando la rabbia era sbollita aveva cancellato il file. 
La prima regola di ogni vero scrittore è: mai e poi mai, nemmeno in punto di morte, 
nemmeno sotto tortura, rispondere alle offese. Tutti aspettano che tu cada nella trappola 
della risposta. No, bisogna essere intangibili come un gas nobile e distanti come Alpha 
Centauri. 
Ma gli era venuta voglia di aspettare il vecchio sotto casa e strappargli quel suo cazzo 
di bastone e percuoterglielo sulla zucca come fosse un tamburo africano. Che piacere, e 
avrebbe rinsaldato la sua fama di scrittore maledetto, di uno che alle offese letterarie 
risponde con le mani, come gli uomini veri e non come gli intellettuali del cazzo con 
acide rispostine in seconda di cultura. Solo che quello aveva settant’anni e ci stirava le 
zampe in mezzo a viale Somalia.
Tremagli con tono da ipnotizzatore cominciò una lezione sulla letteratura indiana che 
partiva dai primi testi in sanscrito del 2000 a.C. trovati nelle tombe rupestri di Jaipur. 
Fabrizio considerò che per arrivare al 2000 d.C. ci avrebbe messo come minimo un’ora. 
Le prime a cadere anestetizzate sarebbero state le vecchie babbione, poi le autorità, poi 
tutti gli altri, compreso Fabrizio e lo scrittore indiano.
Ciba poggiò un gomito sul tavolo e la fronte sul palmo, cercando di fare tre 
operazioni contemporaneamente: 

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