Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

dai centri sociali alla festa di Chiatti scappa via. Che poi quei tre tutto sembravano, 
tranne che ragazzi dei centri sociali. 
Ormai era nella merda e l’unica via per uscirne, a questo punto, era stare un paio d’ore 
alla festa e poi andarsene a casa e scrivere un bell’articolo infuocato. Si avviò verso la 
passerella con la giacca unta di olio e pomodoro. Decise che era meglio levarsela e 
tenerla con nonchalance appesa a una spalla. 
Davanti all’ingresso della Villa la situazione era completamente diversa. Macchinoni 
eleganti continuavano a sputare fuori attori, calciatori, politici, veline fra gli applausi e le 
urla degli spettatori schiacciati sulle transenne come polli alla griglia. Una roba del 
genere non l’aveva vista nemmeno al festival di Venezia. I vip salutavano e le donne si 
lasciavano fotografare nei loro abiti firmati. Una ragazza riuscì a superare le transenne e 
si lanciò su Fabio Sartoretti, il comico di Bazar. Ma le guardie del corpo la inchiodarono 
a terra e la rigettarono nella folla, che se la risucchiò. 
Ciba prese il coraggio a due mani e si avviò a testa bassa, sperando di non essere 
riconosciuto, verso il tappeto rosso. Ma vedendo che i fan lo salutavano così 
calorosamente non riuscì a trattenersi e cominciò a sventolare la mano. 
In quel momento una Bmw con i vetri neri frenò davanti alla passerella. Dall’auto 
uscirono un paio di gambe abbronzate che sembravano non finire mai. Poi uscì il resto di 
Simona Somaini. La miss Italia 2003, che aveva intrapreso con successo la carriera di 
attrice con Sms dall’aldilà, addosso aveva un fazzoletto di Strass che le lasciava scoperta 
la schiena e una buona porzione di culo e davanti le velava appena i seni ma non il 
ventre liscio e abbronzato. Accanto a lei riconobbe la famosa agente dello spettacolo 
Elena Paleologo Rossi Strozzi che sembrava, in confronto alla diva, un pigmeo con il 
verme solitario. Ciba, nonostante fosse ancora scosso dall’incidente, alla vista di quella 
puledra di razza pensò che la giornata in fondo non era da buttare via. E soprattutto 
pensò che non se l’era mai scopata, e questa mancanza andava colmata. 
Fabrizio spalancò il torace, cacciò in dentro lo stomaco e mise su la sua ineffabile 
espressione da scrittore maledetto. Si accese una sigaretta, se la piazzò all’angolo della 
bocca e le passò accanto distratto. 
– Fabri! Fabri! 
Ciba contò fino a cinque, poi si girò e la guardò perplesso, come se davanti avesse 
un’opera di Mondrian. – Aspetta… Aspetta…? – Poi scosse la testa. – No… Scusami… 
L’attrice non era proprio offesa, era, piuttosto, disorientata. Negli ultimi anni non 
l’avevano riconosciuta solo quando era andata a trovare suo zio Pasquale in un istituto 
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per ciechi a Subiaco. Poi pensò che lo scrittore soffrisse di miopia. – Fabrizio? Sono 
Simona. Non dirmi che non ti ricordi di me? 
– A Recanati, forse? – Fabrizio buttò li il primo nome che gli venne in testa. – Per il 
seminario su Leopardi? 
– Porta a Porta un mese fa! – La Somaini avrebbe voluto fare il broncio, ma il 
botulino glielo impedì. 
– La triste storia del piccolo Hans… 
Ciba si diede un colpetto sulla fronte. – Cazzo, l’Alzheimer… Come si fa a 
dimenticare la venere di Milo! Ho pure il tuo calendario in bagno. 
La Somaini emise un verso simile al richiamo del chiurlo in amore: – Non dirmi che 
tu hai il mio calendario! Uno scrittore come te con quel calendario da camionisti. 
Fabrizio mentì spudoratamente. – Adoro Febbraio. 
Lei si diede un colpo alla chioma. – Ma che ci fai qui? Non pensavo che tu fossi tipo 
da queste feste. 
Ciba alzò le mani. – Non lo so… Una forma congenita e mai riconosciuta di 
masochismo? Un’insostenibile voglia di socialità? 
– Fabrizio, ma non senti come… un odore buono di sugo, di pomodoro e mozzarella? 
– L’ultimo arancino che la Somaini aveva assaggiato era stato per la sua cresima. 
– Boh… No, non mi pare, – disse Ciba odorando l’aria. Rita Baudo del Tg 4 lo tolse 
dall’impaccio. Arrivò con un microfono seguita da un cameraman. 
– Ma ecco qui l’attrice Simona Somaini come sempre in splendida forma con lo 
scrittore Fabrizio Ciba! Non mi dite che ho beccato lo scoop! 
La Somaini con un riflesso pavloviano si appolipò al braccio di Ciba. – Ma che dici, 
Rita? Siamo amici! 
– Non volete svelare niente agli ascoltatori di Varietà? –Rita Baudo piazzò il 
microfono sui denti di Ciba, che lo allontanò infastidito. – Hai sentito cosa ha detto 
Simona? Solo vecchi amici. 
– Un saluto ai nostri telespettatori ce lo fai? 
Fabrizio agitò una mano davanti alla telecamera: 
– Ciao – . E si allontanò con la Somaini al braccio. 
La Baudo si girò verso l’operatore e guardò sorniona in macchina: – Secondo me 
questi due non ce la raccontano giusta! 
Un urlo disumano si levò dal girone infernale oltre le transenne. La Baudo cominciò a 
correre. Da una Hummer stava scendendo Paco Jiménez de la Frontera e Milo Serinov, il 
centroavanti e il portiere della Roma.
4. 
A circa trecento metri dal parterre dei vip, nel piazzale dietro la Villa Reale le Belve 
di Abaddon erano state messe sotto. Zombie smadonnava e scaricava casse di Fiano 
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d’Avellino da un furgone. Mantos era finito in cucina a fare lo sguattero. A Murder e 
Silvietta invece avevano dato il compito di lucidare sei casse di posate d’argento per la 
cena indiana. 
La vestale strofinava ad occhi bassi una forchetta con un panno. – Sei il solito. 
Murder sbuffò. – Senti, possiamo lasciare perdere per una volta… 
– No, non lasciamo perdere proprio per niente. Avevi promesso che glielo avresti 
detto in macchina. Perché non lo hai fatto? 
Murder gettò spazientito un coltello da lucidare tra quelli lucidati. – Ci ho provato… 
Ma alla fine non mi ha retto, dopo quel discorso che ha fatto come facevo? E poi scusa, 
perché tocca sempre a me dire le cose difficili? 
Silvietta scattò in piedi. Certe volte non sopportava il suo fidanzato. – Guarda che sei 
stato tu a dirmi che glielo avresti detto. Che non c’era problema. 
Murder aprì le braccia. – E infatti che problema c’è? Appena posso glielo dico. 
La fidanzata lo afferrò per un polso. – No, adesso glielo andiamo a dire subito! Cosi 
stiamo più tranquilli. Va bene? 
Murder si alzò controvoglia. – Va bene. Però che noia che sei… Sai come s’incazza… 
I due attraversarono il piazzale facendo attenzione a non farsi beccare da Antonio, che 
in piedi su una cassa dava ordini a tutti. Da uomo mite e affabile si era trasformato in un 
kapò. 
Murder e Silvietta entrarono nelle cucine. Erano tre stanze enormi. Piene di macchine 
d’acciaio inox, vapori, profumi e aromi di tutti i tipi. Ci saranno stati almeno una 
cinquantina di cuochi vestiti di bianco e con il cappello in testa. E un esercito di 
sguatteri tutti indaffarati. Il rumore di pentole e voci era assordante. 
Trovarono Saverio seduto su uno sgabello con un coltellino in mano. Pelava un 
mucchio di patate con cui si sarebbe potuta sfamare tutta Rebibbia. 
Mantos li vide e a bassa voce sussurrò: – Che fate qui? Siete impazziti? Se vi 
beccano… Ho detto a Zombie che tra mezz’ora ci vediamo fuori per un breve briefing in 
cui vi comunico il piano d’azione. Adesso, però, uscite. 
Murder lo guardò e torcendosi tutto sussurrò: – Aspetta… Abbiamo una cosa 
importante da dirti. 
Mantos si alzò e li portò in un angolo. – Cosa? 
– Ecco… – Murder non riusciva ad andare avanti. 
– Ecco cosa? Di’, forza! 
Una voce flautata con un forte accento dell’Est, alle loro spalle, disse: – A voi due chi 
vi ha dato il permesso di entrare nel tempio? 
Nelle cucine era calato un silenzio sepolcrale. Anche le cappe aspiratrici e i minipimer 
sembravano essersi zittiti. I passeri fuori erano ammutoliti. 
Le Belve si girarono e si trovarono di fronte, avvolto dai vapori del bollito, un 
monaco. Solo che il saio era di seta nera, ricamato con degli uccelli del paradiso 
argentati. Teneva le dita incrociate nascoste dentro le ampie maniche del vestito ed era a 
piedi nudi. Da sotto il cappuccio spuntavano una barbetta bianca appuntita, due zigomi 
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squadrati, un naso a becco e due occhi grigi e freddi come una giornata d’inverno sul 
Mar Caspio. 
Il leader delle Belve di Abaddon ebbe la certezza che quello fosse Zóltan Patrovi
č

l’imprevedibile chef bulgaro. 
Saverio non aveva visto il grande Rasputin, il monaco maledetto che aveva 
condannato con i suoi imbrogli e malefici lo zar e la sua famiglia. Ma pensò che quello 
davanti a lui doveva esserne la rincarnazione. 
Dietro di lui tutti i cuochi e gli sguatteri erano immobili e con gli occhi bassi. 
– No… È che… Non si sa… – A Saverio uscirono dalla bocca un po’ di parole senza 
costrutto. Avrebbe voluto assumersi la colpa, ma era come se la lingua fosse intorpidita 
da un’iniezione di lidocaina. E non riusciva a staccare gli occhi da quelli dello chef. Due 
pozzi neri. Erano così profondi. Gli sembrò di esserci risucchiato dentro. 
Zóltan gli afferrò con una mano la fronte. 
Il leader delle Belve avverti un benefico flusso di calore scorrere dai polpastrelli dello 
chef nella sua testa e si ritrovò a pensare alla frittata di maccheroni che gli faceva zia 
Imma quando da piccolo andava l’estate a Gaeta. 

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