L’altra ragazzina masticando la gomma gli domandò: – Non è che ci puoi imbucare?
Ti prego… Ti prego… Ti scongiuro… Ci sono tutti…
– Magari, ma mi sa proprio che non si può. Mi divertirei molto di più se ci foste pure
voi.
Il semaforo divenne verde. Lo scrittore ingranò la prima e la vespa scattò. Per un
secondo Ciba si vide riflesso nella vetrina di una boutique. Per l’occasione si era messo
un paio di pantaloni di tela marrone chiaro, una camicia oxford azzurrina, una cravatta
Cambridge blu lisa che era appartenuta a suo nonno e una giacca di cotone madras a tre
bottoni di J. Crew, a righine bianche e grigie. Il tutto rigorosamente stropicciato.
Più avanzava verso Villa Ada e più il traffico aumentava. Drappelli di vigili
cercavano di deviarlo su via Chiana e via Panama. In alto
ronzava un elicottero dei
Carabinieri. Sui marciapiedi ai lati della strada la folla si accalcava, dietro le transenne
controllate da celerini in tenuta antisommossa. Molti erano giovani dissidenti dei centri
sociali che manifestavano contro la privatizzazione di Villa Ada. Dai balconi pendevano
degli striscioni. Uno lunghissimo diceva: CHIATTI MAFIOSO!RIDACCI IL NOSTRO
PARCO! Un altro: GIUNTA COMUNALE MANICA DI LADRI! E poi: VILLA ADA
TORNI AI ROMANI!
Fabrizio decise di parcheggiare la vespa e di riflettere su un aspetto che non aveva
considerato. Partecipando alla festa di Chiatti la sua immagine pubblica di intellettuale
impegnato ne avrebbe risentito negativamente. Lui era uno scrittore di sinistra. Aveva
aperto il congresso nazionale del Pd, chiedendo un impegno
urgente per la cultura
italiana oramai agonizzante. Non si era mai tirato indietro da una presentazione al
Leoncavallo o al Brancaleone.
Sono ancora in tempo a tornarmene a casa, nessuno mi ha visto…
– A frocione!
Fabrizio si girò. Paolo Bocchi alla guida di una Porsche Cayenne gli si fermò accanto.
E no!
– Scritto’, lascia ’sto catorcio e sali in macchina, va’! Fai un ingresso come si deve.
– Vai vai, ho una telefonata di lavoro, ci vediamo dentro, – mentì Fabrizio.
Il chirurgo indicò un gruppo di ragazzotti con la kefiah. – Ma che vogliono ’sti
scassacazzi? – E parti strombazzando.
Che fare? Se bisognava andarsene era meglio farlo in fretta. Fotografi e troupe
televisive si aggiravano famelici alla ricerca degli invitati.
Mentre osservava i ragazzi dei centri sociali che urlavano ai poliziotti: «Siete merde e
merde resterete», a Fabrizio tornò in mente una cosa che ogni tanto inspiegabilmente si
scordava:
Io sono uno scrittore. Io racconto la vita. Come ho denunciato l’abbattimento
delle foreste millenarie finlandesi, posso sputtanare ’sta banda di arricchiti e mafiosi.
Un bell’articolo tosto in cultura di «Repubblica» e li sistemo tutti. Io sono diverso. Si
osservò il vestito stropicciato.
A me non mi comprate! Io vi faccio il culo! Rimontò sulla
vespa, ingranò la prima e affrontò la folla.
La composizione degli spettatori dietro le transenne stava cambiando. Ora c’erano più
73
ragazzine e
famiglie intere coi cellulari, che presero a fotografarlo e a urlargli di
fermarsi.
Finalmente arrivò al varco presidiato da una ventina di hostess e un drappello di
guardie private. Una ragazza bionda fasciata in un tailleur attillato gli si fece incontro. –
Buon giorno, felice di averla con noi. Non eravamo certi della sua presenza, lei non ha
confermato.
Fabrizio si sfilò i Ray–Ban e la guardò. – Ha ragione, sono terribilmente colpevole.
Come posso farmi perdonare?
La ragazza sorrise. – Lei non ha niente da farsi perdonare… basta
che mi dia il suo
invito – . E protese la mano verso lo scrittore.
Fabrizio prese la busta. Dentro, oltre all’invito, c’era una tessera magnetica. La
consegnò alla hostess, che la strisciò su un lettore. – Tutto a posto dottor Ciba. La vespa
le conviene parcheggiarla qui a sinistra e farsi la passerella a piedi. Buon divertimento.
– Grazie, – rispose lo scrittore e inserì la prima. Girò a sinistra oltre il tappeto rosso
che portava all’ingresso, verso uno spiazzo dove erano parcheggiate Bmw, Mercedes,
Hummer, Ferrari. Mise la vespa sul cavalletto, si tolse il casco e si ravviò la chioma con
le mani. Mentre si dava un’occhiata di controllo allo specchietto, dalle transenne sentì
un urlo strozzato: – A falsoooo! – Non ebbe neanche il
tempo di capire cosa stesse
succedendo che qualcosa di pesante lo colpì sulla spalla sinistra. Pensò per un attimo che
i Black Bloc avessero lanciato una gragnola di sampietrini. Sbiancò e arretrò terrorizzato
e si acquattò dietro un Suv. Poi ingoiando aria si guardò la spalla offesa. Un arancino
siciliano, ripieno di riso e piselli, gli era esploso sulla giacca e colava lentamente sul
petto lasciando una bava oleosa di mozzarella e sugo bollente. Fabrizio si strappò dalla
spalla l’arancino come fosse una sanguisuga infetta e lo scagliò a terra. Offeso, deriso e
umiliato si girò verso la folla. Tre uomini in giacca e cravatta
con i capelli ricci e la
barba lo guardavano con odio, neanche fosse Mussolini (arrestato tra l’altro proprio a
Villa Ada). Lo indicavano con le braccia tese e gli urlavano in coro: – Ciba bastardo!
Devi morire! Sei un venduto – . Lo scrittore riuscì a schivare per un pelo un bicchierone
da un litro di Coca-Cola che esplose sul muso del Suv.
Un blindato vomitò una falange di celerini che aggredì a manganellate i facinorosi. I
tre cercarono di difendersi tirando su una transenna. A quello che gli aveva lanciato
l’arancino un poliziotto colpì l’arcata sopraciliare, un fiotto di sangue sprizzò
trasformandogli la faccia in una maschera rossa. Gli altri due finirono a terra sotto i colpi
dei manganelli.
Un giovane poliziotto prese lo scrittore per un braccio e lo trascinò indietro urlando: –
Via, via da là!
Fabrizio, angosciato e confuso, lo segui senza riuscire a staccare gli occhi dall’uomo
insanguinato che da terra continuava a urlare: – Ciba maledetto! Sei uguale agli altriiii!
Ipocrita venduto! Fai schifo – . Mentre i celerini continuavano a pestare,
sul tappeto
rosso si fermavano le ammiraglie e gli invitati facevano la loro passerella fra i flash dei
fan e dei fotografi. Fabrizio Ciba si rifugiò tra le macchine con il cuore che gli
74
martellava lo sterno. – Ma che cazzo… – ansimò asciugandosi il sudore dalla fronte, –
… so’ matti!
– Si sente bene? – gli chiese il poliziotto.
Ciba gli fece cenno di sì con la testa.
– Che aspetta? Vada, vada che qui è pericoloso.
Fabrizio si sentì morire.
No, no, io tomo a casa.
Non poteva. Si immaginò i titoli dei giornali: Lo
scrittore Fabrizio Ciba contestato
Do'stlaringiz bilan baham: