L’idea gli venne una notte vedendo La mia Africa, con Robert Redford e Meryl
Streep.
Un safari! Doveva organizzare per gli invitati un safari a sorpresa. Nella sua
megalomania decise che uno non era sufficiente. Ce ne volevano tre. La classica caccia
inglese alla volpe, la caccia africana al leone coi battitori di colore e quella indiana
alla tigre, sugli elefanti.
Ma perché tutto funzionasse a dovere era necessario che all’esterno non trapelasse
nulla dei preparativi della festa. A tutte le guardie, agli operai e al personale fece
firmare un contratto di segretezza.
Convocò il famoso cacciatore bianco Corman Sullivan, che si fregiava di avere
accompagnato lo scrittore Ernest Hemingway alla caccia grossa nel 1934. Sullivan
aveva un’età indefinita che andava dagli ottanta ai cento anni, era affetto da cirrosi
epatica cronica e da venti anni viveva in una casa di cura delle suore missionarie a
Manzini Town nello Swaziland, il piccolo stato confinante col Sudafrica. Arrivato
all’aeroporto di Fiumicino, il cacciatore, debilitato da svariate infezioni polmonari,
dovette restare tre giorni in una camera iperbarica approntata a Civitavecchia. Voi
finalmente fu trasportato a Villa Ada in ambulanza. Passò altri due giorni steso su un
letto a espellere sangue e catarro e a far calare la terzana maligna che ciclicamente lo
colpiva. Quando ebbe la forza di camminare, il vecchio etilista sì diede da fare per
organizzare le tre cacce.
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Per quella alla volpe non c’erano grossi problemi. Sasà Chiatti aveva restaurato la
scuderia dei Savoia e vi custodiva venticinque lipizzani purosangue. E nel canile teneva
una muta di beagle che aveva acquistato da una casa farmaceutica in fallimento. Anche
per la caccia indiana Sullivan non trovò difficoltà. L’immobiliarista aveva comprato
quattro elefanti affetti da dermatosi a chiazze da un circo di Cracovia. I problemi
sorsero con quella al leone. Dovettero assoldare una trentina di battitori fra le comunità
del Burkina Faso e del Senegal che stanziavano davanti alla stazione Termini. Non
ricordavano perfettamente l’arte venatoria al gran felino, ma assicurarono di fare un
buon lavoro o comunque di uscirne vivi. Giacché si trovava alla stazione, Sasà ingaggiò
anche dei filippini per condurre gli elefanti.
Ma il suo colpo di genio imprenditoriale fu farsi sponsorizzare i safari dallo stilista
Ralph Lauren, che scelse il cachi e il fucsia come colori dominanti per le uniformi da
caccia.
Anche il catering andava pianificato nei minimi dettagli. La maggior parte dei party
cadono proprio sul cibo e a quel punto tutto il resto è da buttare. Chiatti non badò a
spese e chiamò Zóltan Patrovi
č
, l’imprevedibile chef bulgaro proprietario del
pluripremiato ristorante Le regioni. Ogni safari avrebbe avuto il proprio
accampamento dove gli ospiti si sarebbero rifocillati con cibi in tono con la caccia.
L’accampamento della battuta alla volpe aveva dei grandi plaid in cachemire con
disegni tartan adagiati su un prato di erica. Lì si sarebbe pasteggiato a salmone,
selvaggina, pudding, tutto ovviamente reinterpretato dal tocco di Zóltan Patrovi
č
. Per la
caccia alla tigre gli invitati sarebbero stati accolti in tre case galleggianti ormeggiate
sul lago artificiale. Chiatti le aveva fatte arrivare dal lago Dal nel Kashmir. Li degli
sherpa avrebbero servito riso basmati, pollo al curry e altre leccornie indostane. Per il
safari africano Corman Sullivan insistette per cinque tende da campo e fuochi su cui
grigliare carne di struzzo e abbacchio.
La festa sarebbe cominciata all’ora di pranzo e sarebbe finita all’alba del giorno
dopo. Sparse per tutta la Villa sarebbero state montate tende per riposare, punti
d’informazione e chioschi gratuiti per le bibite.
Questo è il programma della festa che Salvatore Chiatti insieme a Ingrid Bocutte, la
grande organizzatrice di eventi viennese, e a Corman Sullivan partorirono dopo un
briefing durato sei giorni.
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