1. la Martinelli lo voleva fare fuori; 2. aveva mandato a fare in culo la sua agente,
sua unica alleata; 3. aveva avuto un principio di infarto, un ictus, qualcosa del
genere.
L’ultimo punto era quello che lo preoccupava di meno. Essendo cronicamente
terrorizzato dai medici e dal dolore, Fabrizio Ciba minimizzava ogni problema di salute.
Era colpa di tutte quelle tequile bum bum.
Gli altri due punti, invece, lo angosciavano parecchio. Doveva organizzare un piano
velocemente. Aveva ragione Gianni, nessun’altra casa editrice l’avrebbe pagato quanto
la Martinelli.
Uscì in terrazzo e si appoggiò alla ringhiera cercando di schiarirsi le idee. Cielo e sole
erano impastati in una roba opalescente che pesava come un gas fetido sulla capitale e il
frastuono del traffico anche a quell’altezza era assordante. Sotto di sé vide il Colosseo, e
intorno il viavai di turisti, pullman, centurioni e venditori di cianfrusaglie. Pensò alle
loro vite squallide, alle serate in pizzeria, alle ferie. Le rate della macchina. Le file alla
posta. Problemi semplici e comuni.
Che fortunati! Non sapevano cos’era la sofferenza vera. Perché non lavoro in
un’agenzia immobiliare? Senza questo travaglio creativo, senza la responsabilità di
dover dire cose intelligenti all’umanità. E se mi fermassi? Se la piantassi per sempre?
L’immagine di Jerome David Salinger, il grande autore del Giovane Holden, gli
riaffiorò alla mente. Jerome… Tu si che sei un grande. Come me hai fatto tre libri in
croce. Come me hai fatto il capolavoro, poi sei sparito e sei diventato un mito. Dovrei
fare così pure io. Con i diritti della Fossa dei leoni teoricamente ce la potrei fare.
Dovrei però abbassare il mio tenore di vita.
Fabrizio Ciba spendeva tra una stronzata e l’altra quindicimila euro al mese. Anche se
il suo ultimo romanzo,Il sogno di Nestore, era uscito oramai da cinque anni e aveva
venduto meno di duecentomila copie, grazie alla Fossa dei leoni poteva permettersi quel
tenore di vita. Quel romanzetto di centoventi pagine era ancora in cima alle classifiche.
Era stato tradotto in mezzo mondo e i diritti cinematografici li aveva comprati la
Paramount.
Se Ciba fosse stato oculato avrebbe potuto campare tranquillamente fino a ottant’anni
senza dover fare un accidente dalla mattina alla sera. Certo l’attico a via Mecenate
toccava lasciarlo. E doveva vendersi anche il rifugio sulle montagne di Maiorca. E
soprattutto, per mantenere lo stesso alone di mistero che circondava Salinger, non
avrebbe dovuto rilasciare più interviste. Niente programmi, ospitate in televisione,
niente feste, niente scopate in giro, insomma trasformarsi in un monaco di clausura e
rompersi i coglioni in un eremo solitario per il resto della vita.
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In America forse si può fare. La natura, il deserto, i grandi spazi… ma in Italia dove
mi chiudo? In un monolocale a Boccea? E poi solo, in un eremo, senza figa… Mi
suicido in un paio di settimane.
La parola «figa» lo riportò fortunatamente a terra.
Doveva partire. Andarsene qualche giorno a Maiorca. Li, nella solitudine, avrebbe
ripreso in mano il romanzo che era fermo da…
Il cervello fece un impercettibile click, come se fosse scattato un salvavita. Il pensiero
così come era apparso si dissolse e la sua attenzione tornò su Maiorca.
Certo da solo… Chi si poteva portare? Ci voleva una che gli facesse risalire un po’ la
stima in se stesso. Ma soprattutto che non fracassasse le palle con figli, matrimoni e
seghe mentali.
Alice Tyler… La traduttrice.
No, troppo intellettuale. E poi con la figura di merda che aveva fatto.
Invece nel ricco paniere della Luiss aveva solo l’imbarazzo della scelta. Almeno sette
studentesse del suo corso di scrittura creativa avrebbero rinunciato ai diritti civili pur di
farsi un weekend con lui. Ce n’era una poi, tale Elisabetta Cabras, che doveva essere una
bella porca. Di scrittura non capiva un cazzo, però aveva un insolito talento per le scene
erotiche. Si intuiva che era roba vissuta. Ciba immaginò la Cabras aggirarsi nuda intorno
alla piscina, con quelle sue tettone e un Bloody Mary in mano, di fronte al sole che
affogava nel mare delle Baleari.
Rientrò in casa e si sedette alla scrivania. Sul piano erano affastellati in disordine pile
di fogli stampati, libri, fascicoli rilegati, barattoli di birra e portacenere ricolmi di cicche.
Cominciò a cercare la tesina della Cabras su cui lei aveva sicuramente segnato il
cellulare, urtò il mouse e lo schermo del portatile si illuminò. C’era l’inizio del secondo
capitolo del nuovo romanzo: Vittoria Cubeddu aveva quello che si definisce un accento
italiano pulito. Al contrario di tutta la famiglia Cubeddu che parlava il lento e strascinato
dialetto di Oristano. La casa poi
Aveva passato tre giorni a scrivere quelle due frasi continuando, ossessivamente, a
cambiare gli aggettivi, spostare i sostantivi, invertire i verbi. Contro la sua volontà lo
rilesse e gli tornò su un rigurgito acido. Con uno schiaffo chiuse il computer.
– Ma che cazzo è ’sta roba? Questo dovrebbe essere il nuovo romanzo nazionale!
Sono una pippa! – E si aggirò per l’appartamento prendendo a calci il divano e i puff
marocchini. Si sedette ansimante sul letto. Il dolore alle tempie era tornato a tormentarlo.
Doveva reagire. Dentro di lui, sepolto sotto un mare di inutili stronzate, c’era ancora lo
spirito dello scrittore che era stato un tempo. Doveva farlo riemergere. Fare tabula rasa,
smettere di bere, smettere di fumare e rimettersi sotto a scrivere, con la forza e la voglia
degli inizi.
Ma come? In quattro anni aveva abbandonato cinque romanzi. La grande saga sarda
gli sembrava l’unica opera che avesse un senso, e invece… niente, faceva cagare. Sì, era
necessario andarsene una decina di giorni a Maiorca a fare pulizia cerebrale.
Mentre ricominciava a cercare il numero della Cabras il telefono di casa squillò.
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Dall’altra parte c’era sicuramente uno scassacazzi. Ma decise di rispondere lo stesso.
Poteva essere quella stronza della sua agente che gli chiedeva scusa.
Tirò fuori un tono scocciato. – Pronto? Chi è ?
– A frocione!
Fabrizio chiuse gli occhi e si piegò indietro, come farebbe un calciatore che sbaglia un
rigore. Paolo Bocchi. Lo scassacazzi per antonomasia.
Per ragioni a lui incomprensibili quell’essere continuava a ronzargli intorno come una
zanzara assetata di sangue. In realtà, a dirla tutta, una ragione c’era. Il professor Paolo
Bocchi aveva sempre a disposizione qualsiasi sostanza psicotropa che la natura e
la chimica fornivano all’uomo.
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