Gente a levante!


SANTA MARIA DEI MONTI SACRI



Download 0,67 Mb.
bet7/25
Sana20.05.2017
Hajmi0,67 Mb.
#9315
1   2   3   4   5   6   7   8   9   10   ...   25

SANTA MARIA DEI MONTI SACRI

I cavalieri del duca Petro e del figlio di Pelayo sciamarono lungo le anguste valli del Rio Onis, lacerando l’aria con lo stridore delle loro armature sferraglianti, mentre lo scalpitìo degli zoccoli dei cavalli rimbombava fino alle vette della Sierra Jana e della Sierra Nedrina.

Davanti a loro, la strada per San Martino correva dritta fino al bivio di Panes. Qui avrebbero trovato il Rio Deva e l’avrebbero risalito fino al monastero.

Petro vestiva all’antica: cotta lunga, tunica bianca e pelle di lupo, elmo a tesa circolare, coperto di squame fino all’apice, con paramascelle, ma senza paranaso. Invece gli altri Visigoti portavano il mantello rosso e il consueto elmo ad ogiva con paramascelle e paranaso dorati. Tutti portavano pesanti spadoni agganciati al cinturone e picche lunghe allacciate alla schiena, ma solo Petro era anche dotato di una picca corta. Gli Asturiani indossavano le loro tuniche celesti sotto la cotta a maglie piccole, però solo pochi portavano il mantello e molti erano coperti di folte pelliccie d’orso. Bartuelo li guidava a poca distanza dalle retrovie visigote, armato di spadone, di scudo tondo con l’effige dell’orso, di giavellotto legato alla schiena, di ascia e pugnale, allacciati alla cintola. Sull’elmo a cupola, rinforzato da spicchi d’acciaio inchiodati, spiccavano tre sparuti ciuffi di crine di cavallo. Aveva un mantello marrone e corto che per effetto del vento e della velocità si era avvolto attorno al collo come un’enorme sciarpa, e indossava brache di canapa avvolte da pelli di agnello fino alle coscie. Fafila era avvolto nella divisa visigota, ma portava anche una pelle di lupo a mo’ di stola. Per il resto era vestito come gli altri Visigoti, con tanto di spadone dall’elsa dorata. Stava appena dietro a Petro, a fianco di Toribio ed Hernando. Valerio li seguiva, non sempre comodo, sul dorso di Witisclo.

Ultima del gruppetto di testa era Froliuba, raggomitolata dentro una pelliccia di lince. Cavalcava un puledro bianco e portava, legato tra le scapole, solo il suo inseparabile arco lungo.
Gli ottocento guerrieri sprofondarono nel cuore dei monti asturiani per alcune ore, per rispuntare, ancora freschi e grintosi, al bivio di Panes, verso la quarta ora del mattino.

Qui cominciò a piovere e il freddo diventò pungente sotto le cotte fradicie.

Ma non si fermarono. Giunsero a quel villaggio di poche bicocche, alzate su tronchi di abete, dopo esser passati come una mandria di montoni inferociti tra i contadini e i montanari che li guardavano eccitati. Laggiù c’erano molte donne e bambini, ma anche giovani che avevano lasciato gli aratri sui pendii e i terrapieni dei loro campi, dopo aver sentito quel poderoso frastuono echeggiare dalle gole delle valli occidentali.
Il duca Petro fece segnale di fermarsi e subito Liuva e Teudiselo rallentarono i loro cavalli, si piazzarono ai margini di una piazzola che stava davanti alla capanna più grande e ordinarono al resto dei soldati di radunarsi. Il capo del villaggio, un uomo sui cinquant’anni, che portava un grande sombrero di paglia ed aveva la bocca sdentata ed il volto coperto di rughe, chiamò alcune donne che gli stavano vicino ed ordinò loro di servire presto tutto quello che avevano nei magazzini. In pochi attimi si formò una fila di ragazze e ragazzi che si passavano ceste piene di focacce, pani di segala e farro, uova, carni essiccate di montone e pecora, e otri di vino.

Così i guerrieri si rifocillarono e Toribio ebbe modo di scendere da cavallo e di scambiare quattro parole con Bartuelo, al riparo di una rimessa dal tetto di paglia che scendeva fino a terra. Sulla parete posteriore stavano ben allineati erpici, pale, sarchi e falcetti. Evidentemente il cattivo tempo aveva indotto i loro padroni a restare in casa.

“Maledetto questo fango che ci frena i cavalli!”, disse l’Asturiano, sputando per terra, mentre dava istruzioni ai suoi luogotenenti. “Fatevi coraggio, Bartuelo, non sarà questo a fermarci!”, lo distrasse la voce del giovane di Valle.

“Ah, siete voi, dunque, il Cantabro che s’è salvato dai Mauritani!”, lo salutò il capo asturiano. I due si presentarono subito e si scambiarono i boccali di vino che due giovani contadinelle avevano appena consegnato loro. Bartuelo era un bel giovane: gli occhi azzurri sotto spesse sopraciglia, la faccia squadrata e dai muscoli nitidi e tozzi come il resto del corpo. Bartuelo non chiese nulla di quel che era accaduto a Xixon. Come tanti uomini asturiani non era curioso e gli interessava invece conoscere il valore dei suoi compagni. “Ma non siete poco saggio a combattere senza armatura?”, chiese. Toribio rispose che non ne aveva mai avuto bisogno e che, con la protezione di Dio e di quella borchia di leone d’oro, sentiva che ce l’avrebbe fatta lo stesso.

Bartuelo lo guardò perplesso… non arguì. Toribio era ormai divenuto un piccolo mito tra gli Asturiani, specie dopo la prova del fantoccio.

Bartuelo gli spiegò che sapeva già dell’ordine di dargli una scorta di dieci Asturiani per raggiungere l’abbazia dove stava la sorella e la figlia di Pelayo.

“Non offendetevi se non vi darò gli uomini più addestrati, credo che dieci al comando di Fruela siano più che buoni per badare a quattro monache”, disse, additando il soldato che si era appollaiato sull’aratro vicino. Questi era un ragazzino magro come un chiodo, dai capelli corti e neri, gli occhi grandi e marroni, un barbuzzo appena accennato su una faccia anemica, dai lineamenti triangolari e coperta di acne. Fruela balzò dall’aratro e protestò:

“Cosa? Che nuova è questa? Non ho mai comandato nessun drappello! Che devo fare ora? Son qui solo perché mio padre Froila mi ha sbalzato dal letto sta mattina! Ci sarà mica da farci uccidere, vero?”.

Bartuelo e gli altri luogotenenti scoppiarono a ridere. “Sei proprio un caccasotto, Fruela! Meno male che c’è tuo padre, quel buon pezzo di carpentiere, sennò tu saresti ancora attaccato alla gonna della mamma!”.

Gli altri Asturiani cominciarono a motteggiarlo. Fruela divenne paonazzo. “Deve imparare a fare l’Asturiano!”, disse allora Bartuelo, rivolto a Toribio, “Prendetelo con voi, gli altri sono abbastanza capaci, almeno di giavellotto e di mazza… questo deve imparare, ma con voi crescerà!”.

Toribio guardò quel patetico mingherlino e provò compassione. Sarà stato poco più vecchio di Fafila, ma si vedeva subito che stava a malapena dentro la corazza di cuoio. L’altro non osava neanche guardarlo negli occhi. In mezzo al pantano e sotto la pioggia sembrava un bambino punito alla gogna per aver rubato del miele dalla dispensa dei vicini. Toribio lo guardò ancora dall’alto in basso, e sentì d’improvviso, sul petto, il tepore della croce. Sentì che c’era qualcosa di valido in quella scamorza di uomo. “E allora sia! Benvenuto con me, baldo Fruela! Sarai il mio decurione e comanderai i dieci uomini che ti darà il tuo capo!”. Bartuelo rimase sopreso. Pensava che Toribio avesse capito che stava scherzando. Gli altri ammutolirono. Ma Toribio assunse un volto duro. “In verità vi dico, commilitoni asturiani, che farò di questo giovane il guerriero che un giorno celebrerete!”. Fruela allora alzò gli occhi con timidezza verso quell’uomo dalla casacca verde e la cinta d’argento fra i capelli biondi. E un sorriso enorme gli riempì la faccia. Gli altri si guardarono fra di loro, ma non fecero in tempo ad obiettare.

Liuva era giunto sotto la rimessa per dare a Bartuelo l’ordine di far ripartire tutti immediatamente.

Passata Panes, i cavalieri raggiunsero la Deva, passarono lo stesso ponte che Toribio, Hernando e Valerio avevano attraversato più di una settimana prima, poi ne ripassarono un’altro e qui presero una strada tortuosa che saliva verso meridione, tra le montagne della Sierra Corta e della Sierra delle Cuerres, costeggiando la riva destra della Deva. La pioggia non cessava, ma nessuno si scoraggiò. Il duca Petro, zitto e solitario, cavalcava dritto, senza fermarsi, davanti a quell’enorme massa di ferro e cuoio che moveva ora come un mostro affannato tra boschi di abete, frassino e larice e ripidissime pareti di roccia rosata, bucata di tanto in tanto da spaventose e misteriose caverne nere che sembravano occhi di giganti morti da migliaia di anni.

Toribio sbirciava di tanto in tanto, alla sua destra, le acque della Deva che si facevano sempre più chiare e ruggenti, man mano che i cavalli salivano per la carrareccia, ora più stretta e fangosa. Non aveva dimenticato il pericolo che si celava laggiù e cominciò a pregare la Vergine in silenzio. Valerio e Hernando stavano subito dietro, anche loro concentrati e silenziosi. D’un tratto a Fafila, che stava poche braccia prima di Petro, parve che qualcosa si muovesse furtivo alla periferia del suo campo visivo. Voltò la testa a destra e a sinistra e infine alzò gli occhi verso i picchi rosati. Nulla. Tutto fermo. Solo il rumore della pioggia che si confondeva con quello delle acque spumeggianti della Deva. Riprese le redini che aveva appena allentato, ma, ancora, gli parve che ci fosse qualcosa di strano. Ora, eccola, proprio là: un enorme sagoma marrone si era spostata da una caverna all’altra poco sotto le vette che stavano dall’altra parte del fiume. Fafila imbracciò l’arco e stava per caricare un dardo, quando fu fermato dal braccio di Bartuelo.

“No, non ti sognare, giovane Fafila! Ci massacrerebbero in pochi istanti!”, sussurrò il capo asturiano, invitandolo a parlare a bassa voce.

“Chi sono?”, bisbigliò il Visigoto. “Sono le anime dei giganti di Ezla che un tempo erano i servi della dea Astyr, ma che lei punì quando scoprì che si erano persi per le Xane della Deva. Così li pietrificò per sempre fra queste rocce e concesse solo ai loro spiriti di muoversi lungo le pareti per tenersi compagnia. Da lontano non possono fare nulla ma, se uno si avvicina troppo, possono travolgerlo staccando macigni enormi”, spiegò Bartuelo.

“Ma via, Bartuelo! Sono solo credenze pagane, no?”, replicò Fafila, sorridendo. Bartuelo lo guardò serio. “Sappiate che anch’io sono cristiano e lo è mio padre Cerilo, che ebbe la fede da mia nonna Millana, ma nessun Asturiano oserebbe mai ardire contro le leggende della sua terra; si dice che la dea Astyr, che i Romani chiamavano Aurora, abitasse qui e fosse la madre e la padrona di tutte queste creature, e che le Asturie prendano il nome da lei. Io non sono pagano, e non voglio nemmeno impicciarmi di quei misteri. So solo che quelle ombre le ho viste anch’io ed è meglio che preghiamo la Vergine in silenzio, e ci togliamo da questo fango al più presto possibile!”.

Così detto, Bartuelo lasciò Fafila e fece accelerare il suo cavallo per raggiungere quello di Petro. I due scambiarono alcune parole. Petro scrutò le vette sovrastanti una parte e l’altra della valle, poì gettò l’occhio verso il resto della coorte, e quindi fece segno a Liuva e Teudiselo di avvicinarsi. “Date ordine di accelerare!”, disse, “Ma non gridate e che nessuno volti gli occhi dalla strada! Alla fine di questa valle, troveremo il bivio per l’abbazia di Santa Maria!”.

I due luogotenenti obbedirono e ben presto il serpentone di ferro uscì da quella valle stregata.

Era circa la settima ora quando i monti della valle cominciarono ad allargarsi per lasciar spazio ad un vasto altopiano gibboso, macchieggiato, quà e là, da boschi di castagno, corbezzolo e ciliegio canino. Era tornato il sole e il cielo s’apriva celeste come un turchese su quei pascoli verdi pastello. Non c’erano né capanne né pievi a vista d’occhio, ma solo qualche sparuto gregge di pecore, sorvegliato da due o tre cani. Non pareva nemmeno vedere l’ombra di un pastorello. Il duca Petro ordinò agli uomini di fermarsi presso una fila di quattro cipressi. Era strano trovare quegli alberi a quell’altezza. Mentre i guerrieri scendevano dai cavalli per consumare i viveri che stavano nelle bisacce, Toribio notò che da quel filare di cipressi, si dipartiva un piccolo sentiero che scendeva lungo un pendio. Questo era dapprima deserto, poi sempre più tappezzato da arbusti di orniello con le loro gemme rossicce appena nate; infine cedeva il posto ad una folta macchia di tamerici che precedeva i profili lontani di isolati agrifogli. Oltre si vedevano le scure sagome dei Monti Sacri. Era ai piedi di quella Sierra che stava l’abbazia di Santa Maria, ma Toribio non lo sapeva.

Mentre osservava con ammirazione quel paesaggio ameno, udì una voce alle sue spalle.

“Che cosa dobbiamo fare all’abbazia, Toribio?”. Toribio si voltò; il ragazzo mingherlino con la faccia triangolare stava ritto presso il suo cavallo.

Toribio sorrise. “Nulla, Fruela!”. L’altro non capiva. “Nulla, solo badare a quattro monache… .”, disse, “… e forse una principessa”. Fruela sorrise per farlo contento ma, ovviamente, ci aveva capito ancora meno. Toribio invece sapeva bene a chi pensava. E il suo sguardo sembrava cadere continuamente oltre quel boschetto di tamarici.
Petro ed Hernando parlarono a lungo tra di loro. Poi chiamarono Toribio e lo zio gli spiegò che si sarebbero lasciati lì. “Quella è la strada per l’abbazia, Toribio! Ci stai proprio davanti!”, disse Petro con la consueta voce baritonale. Il padre lo esortò a fare attenzione e, come sempre, a non fidarsi di nessuno. Poi passò in rassegna tutti gli Asturiani che Bartuelo gli aveva mandato. Erano, tutto sommato, ragazzi ben piantati, di statura bassa, ma abbastanza prestanti ed armati fino ai denti. Finché non s’accorse di Fruela.

“E questo da dove salta fuori? Non sa nemmeno portare una mazza!”, sbraitò il giudice, irritato, dopo aver notato che Fruela aveva legato l’arma alla cintola con il manico capovolto. “ Sei stolto come una gallina, ragazzino? Non vedi che così perderai i pezzi prima ancora di arrivare?”. Fruela guardò basso, rosso di vergogna e terrorizzato dai rimproveri di quel cavaliere così importante. “Non parlate così al mio decurione, padre! Sennò morirà dallo spavento prima ancora di vedere un Arabo per davvero!”. Hernando squadrò il figlio con la solita espressione di ruvidezza. “Un’altra delle tue idee, vero? Sarà meglio che taccia, poiché tanto vuoi perdere solo del tempo a far da sentinella a quattro suore, ma sarà bene che non sprechi troppo tempo per quella fanciulla e lo spenda invece per addestrare questi grattascreccole!”, sentenziò. Toribio accennò con il capo e non replicò.


Valerio, intanto, si era avvicinato. “Ho un cattivo presentimento, amico mio”, proruppe il monaco. “T’ho sognato prigioniero dei Saraceni, ti torturavano per sapere del numero dei nostri uomini e delle loro postazioni. C’era anche un uomo grasso, dalla faccia sporgente come il muso di un cinghiale e dai capelli bianchi, che vestiva come un Giudeo e voleva sapere della Croce del Rubino. Stai in guardia, amico mio, gli amici del demonio sono dappertutto!”. Toribio lo ascoltò attento, ma non parve impaurito da quelle premonizioni. “ Qualunque cosa mi capiti, tu non cessare di pregare la Vergine e San Giacomo. Proprio per questo è meglio che vegli adesso sulle persone più indifese; quando saremo a San Martino di Turieno, tutti insieme, ti sentirai più tranquillo!”. Il monaco non rispose. Toribio sembrava sapere il fatto suo. Anzi meglio, sembrava che fosse guidato da qualcuno più potente di loro. I due si guardarono ancora a lungo. Erano stati compagni di viaggio per quasi dieci giorni e compagni di fede per sette anni. Forse quello era l’ultimo giorno che Valerio l’avrebbe visto in questa vita. Ma volle rimanere ottimista. “Pregherò per te, ma guardati dalle tentazioni!”, gli disse alla fine. Toribio gli posò una mano sulla spalla e lo salutò: “Ci vediamo a San Martino!”.

Valerio lo aiutò a caricare le bisacce e gli sorresse il piede destro mentre l’altro montava su Asfredo. Toribio salutò il padre e lo zio, fece un cenno con il braccio a Fafila e Froliuba che lo osservavano dall’altra parte della strada, salutò ancora Valerio e si diresse verso Fruela, che lo attendeva con gli altri presso i quattro cipressi.


Il gruppetto mosse giù, lungo il dolce pendio. Attraversarono in un battibaleno i boschi di tamarici e si trovarono in un grande prato punteggiato di alti agrifogli. Seguirono la strada che portava verso le montagne scure che si vedevano ad oriente e verso l’ora del vespero giunsero presso un ponte su un ruscello. Attraversato questo, Toribio notò l’apice del tetto di una chiesetta, spuntare poco sotto degli alberi di faggio che s’arrampicavano ai margini del sentiero con le loro tortuose radici. “Siamo sulla strada giusta? È quella l’abbazia?”, chiese a Fruela. L’Asturiano lo spronò a continuare. “No, quella è la pieve degli Angeli dell’Amore. Non ci va più nessuno da quando è stato costruita l’abbazia. Andate avanti domne Toribio, il sentiero è quello giusto!”. Fruela conosceva bene quei posti; la mamma Liutela ce l’aveva portato un paio di volte. Ricordava ancora quanto era stato difficile imparare il Credo, ma alla fine, con l’aiuto della mamma c’era riuscito. Ma ora lei non c’era e nemmeno le sorelle Xuana e Xepa, che aveva lasciato a casa, quella mattina, indaffarate a pulire il forno e la stalla.

Ora era laggiù, solo, al comando di un forestiero che sembrava buono, ma lo voleva al suo fianco per combattere contro i Saraceni. Fruela aveva paura. Avrebbe voluto risvegliarsi da un cattivo sogno. Ma invece no. Era tutto vero. Doveva diventare un guerriero. Così gli aveva detto il padre, e se fosse scappato, tutti, al villaggio, l’avrebbero trattato male per sempre. Poi, naturalmente, una volta morto, sarebbe andato all’inferno. Meglio non pensarci nemmeno.


Il sentiero finì su uno spiazzo circolare. Davanti a loro si ergeva una grande costruzione in pietra. Era bellissima. Il frontale aveva forma trapezoidale ed era diviso in tre facciate, scostate da altissime lesene.

In mezzo stava una porta ad arco acuto che sprofondava dentro una serie di archi concentrici sorretti da colonnine con capitelli di marmo e incisi da decorazioni floreali. Sopra, sempre sulla facciata centrale stava una piccola trifora cieca, occupata in centro da una statua della Vergine con il bambin Gesù e sulle finestrine laterali dalle statue di San Giovanni e San Matteo. Ancora sopra, al centro della sommità a forma di timpano stretto, stava una finestrella ad arco tondo, dentro la quale si scorgeva una piccola campana, uno di quegli strani strumenti per richiamare i fedeli che si andavano notando sempre più spesso, negli ultimi anni, dentro le facciate o i torrioni delle chiese. Le pareti laterali della costruzione erano stabilizzate da ali di laterizio chiaro che si alternavano a lunghi finestroni come i denti di un pettine. Il tetto era in coppi lisci di color rosso carminio. A circa quindici piedi dal terreno correva una lunga fila orizzontale di rosette celtiche, alternate a figure di uccelli, cani, agnelli e pesci. Il gruppetto era estasiato da quell’opera fantasiosa.

E quella era solo la parte anteriore, quella della chiesa vera e propria. Il monastero si estendeva di dietro con una pianta quadrangolare, fornita agli angoli di quattro torri tra cui stavano, per ciascun lato, delle lunghe braccia a due piani, sedi dello scrittorio, delle cucine, del refettorio e, sopra, delle celle per le monache.

Queste erano circa cento, un gran numero per un’abbazia persa tra le montagne e così distante da Roma.


I ragazzi girarono attorno alla chiesa e si fermarono davanti a quello che sembrava il portoncino d’ingresso del monastero. Allora scesero dai cavalli e Toribio bussò al portone d’entrata, ma subito non rispose nessuno.

Passarono lunghi attimi, poi la porta si aprì ed uscì una monaca, vestita di nero, con uno scialle viola attorno al collo.

“Chi siete, fratelli?”, chiese l’anziana donna. “Io sono Toribio Del Valle e questa è la mia scorta. Siamo qui per ordine di Pelayo, duca dei Visigoti e di Petro, mio zio, duca di Amaya. I Saraceni sono vicini e mi sono offerto di proteggervi. Vorrei incontrarmi con la vostra badessa Verosinda”, rispose il giovane cantabro.

La monaca non rispose; chiuse la porta e passarono altri momenti interminabili. Poi la porta si riaprì. Ora stava là, al centro della soglia, abbacinata dai raggi del sole, una donna di circa trent’anni, con una lunga stola bianca, coperta da un mantello turchese. Era alta e magra, portava i capelli neri e lunghi sciolti sulle spalle; sul petto, bello e sporgente, le scendeva una collana di perle con un pendaglio a forma di aquila, composto da gemme di zaffiro. Gli occhi neri emanavano una luce sensuale. Era lei, Verosinda, la sorella del duca dei Visigoti. Toribio si presentò e presentò i suoi uomini; le parlò di Pelayo, Gaudiosa e Agasinda e della loro missione. Allora gli occhi della donna si spalancarono. “Sei tu, dunque, il figlio di Goswinta?”. Toribio fu sorpreso da quella domanda. Verosinda se ne accorse. “La conobbi al monastero di Santa Maria di Cosgaya; era bellissima e bravissima. Sapeva tessere delle maglie favolose, e ricamare stole di felpa e di raso, con fiori e animali che non avevo mai visto. La sua era un’anima nobile, una ragazza devota e buona come il miele”. Poi venne il ricordo amaro. “Quando Gaudiosa mi disse che tuo zio era venuto a riprenderla per portarla ad Amaya, piansi per tre giorni; speravo che l’avrei rivista un giorno, ma poi anch’io dovetti tornare a Toledo con mio fratello, quando sembrava che dovessi andare sposa ad un nobile della corte di Egica. Accadde prima che il principe Witiza uccidesse nostro padre. Da allora siamo scappati dappertutto…”, disse, rivangando memorie ormai sepolte da vent’anni. Toribio la guardò con tristezza. Però era contento di ritrovare, in qualche modo, un pezzo della mamma. La croce era ora caldissima sul suo petto. Stava davanti ad una persona benedetta.

“Vostro nipote si sposerà domenica a San Martino. Ho il compito di proteggervi dalle insidie in questi giorni. Spero che dieci uomini bastino!”, spiegò il giovane di Valle d’Autrigonia. Verosinda guardò quella banda di ragazzi, armati di tutto punto, ma dalla faccia di bambini. Fruela si presentò, dimenticando l’etichetta che lo avrebbe voluto introdotto da Toribio. Verosinda lo guardò con un’espressione materna. “Così giovani e già vi vogliono mandare verso pericoli più grandi della vostra vita!”, disse.

Fruela si mostrò imbarazzato, ma replicò: “Io sono il decurione di questi soldati, e Toribio è il mio comandante!”. Gli altri Asturiani mugugnarono tra di loro.Verosinda rise e guardò Toribio che anche non poteva celare il suo scetticismo. “Certo, mio fratello non sembra credere che ci voglia una guardia spatara, quaggiù!”, disse la donna.

Toribio sorrise. “È stata un’idea mia; l’ho voluto per voi e per Agasinda… a proposito… è con voi?”.

“Certo che lo è e mi ha già parlato di te!”, rispose la bella badessa e aggiunse: “Seguitemi!”.


Così attraversarono l’androne dell’abbazia, dove stavano raccolte una decina di suore, che non mancarono di bisbigliare commenti su quei ragazzotti giunti dal mondo di fuori. Una di queste, avrà avuto sì e no dodici anni, corse ad informare le altre, infilandosi in una porticina che dava su un ampio cortile. Si udirono subito le sue grida di entusiasmo. Verosinda guardò Toribio. “Non capita tutti i giorni di vedere degli uomini quassù, tanto meno dei bei ragazzi!”, disse. Fruela e gli Asturiani si impettirono e passarono tra quella fila di suore come galletti in rassegna ad una fiera. Qualcuno non mancò di mormorare dei commenti sconci, ma Fruela li invitò a comportarsi bene con un’occhiataccia.

I dodici guerrieri attraversarono il porticato della corte in direzione del refettorio. Verosinda illustrò a Toribio la disposizione del monastero e gli spiegò la funzione delle stanze a piano terra. Lo scrittorio, che si apriva a metà del porticato, era la perla dell’abbazia. L’aveva voluto lei stessa, una vera e propria innovazione, in un’epoca in cui erano i monaci a detenere il monopolio delle biblioteche e della ricopiatura dei testi antichi. “Vedi, Toribio, più di cento anni fa, il vescovo Leandro di Siviglia scrisse le regole monastiche per la sorella Fiorentina, che pure era badessa di un convento, come me. Poi il fratello Isidoro scrisse una regola più grande per tutti i monasteri e quella includeva anche le ore di lettura nello scrittorio. Io ho solo fatto quello che quei santi desideravano”, disse l’aristocratica badessa, con i bellissimi occhi accesi da una scintilla d’orgoglio.

Toribio ascoltò ammirato, ma quelle parole non mossero altrettanto gli animi dei suoi compagni, tutti rigorosamente analfabeti. La fila di Asturiani seguiva in silenzio Toribio e Verosinda, come dovessero noiosamente scortarli, marciando, ora, attraverso il centro della corte. Gli echi dei passi pesanti attirarono l’attenzione delle monache che si stavano dedicando ai loro mestieri. Altre giovani donne, vestite di bianco, con la stola blu, s’affacciarono dalla porta della cucina e da quella del maglificio. Alcune bambine si sporsero da un grande davanzale che sosteneva le volte della finestra della stanza dello scrittorio. Distratte da quel frastuono insolito, avevano subito lasciato i loro breviari sugli alti banchi di legno. “Guardate quello in mezzo, con il cimiero verde! Come vorrei un uomo così!”, disse una di loro, con gli occhi aperti come stesse sognando. Le altre commentavano l’aspetto degli altri soldati ma nessuna si curava di perdere troppe parole su quello di Fruela. “Non ditemi che quello è il loro capo, non starebbe a cavallo nemmeno inchiodato con il pimpolino!”, affermò un giovincella dai ricciolini biondi e le trecce legate da nastri di seta. Le compagne sghignazzarono alla vista del povero Fruela che, invece, pensava lo guardassero con ammirazione e immaginava di spogliarle e toccarle sul giovane pube. Già gli si rizzava, a quella vista di ragazzine pulite e ben vestite, così diverse dalle facce puzzolenti e sdentate delle sue sorelle e delle loro amiche.


Ben presto giunsero in fondo allo spiazzo ed entrarono, attraverso una porta a forma di ferro di cavallo, in una sala enorme, dove stavano molte file di tavoli, affiancate da grandi bracieri accesi. Verosinda li fece accomodare al tavolo che stava vicino alla parete orientale, che ancora riceveva i raggi del sole attraverso le bifore e le trifore che stavano sotto il soffitto del primo piano di quel torrione. Gli Asturiani si sedettero. Verosinda istruì due monache sulle portate per gli ospiti e cominciò a pregare. Era quasi l’ora di compieta e subito dopo entrarono in fila tutte le monache, fermandosi sulla soglia, ad una ad una, davanti ad una sorella che portava un piccolo frustino e controllava che le loro mani fossero pulite e le unghie non nascondessero impudicizie. Fra le ragazze, Toribio ne notò una dal volto familiare, dagli occhi castani e radiosi come quelli di una lince. Era lei, finalmente. La ragazza cercò il suo volto tra le facce rudi e sporche degli ospiti, e, identificatolo, gli lanciò un sorriso. A Toribio si aperse il cuore. Verosinda notò la cosa, ma non commentò. La badessa invitò gli ospiti a sedere al suo tavolo, dall’altra parte del refettorio e tutte le monache tacquero in attesa della preghiera. Allora Verosinda s’alzò, recitò il ringraziamento e annuì verso le suore che stavano in piedi vicino ai tavoli e reggevano enormi vassoi ovali, su cui stavano pani, scodelle di minestra, cesti di fragole e olle piene di olive. Queste servirono il cibo e alcune di loro versarono acqua nei bicchieri di vetro che stavano davanti ai convitati. Toribio mangiò in silenzio e così fecero i suoi compagni, un po’ imbarazzati dalle continue sbirciate furtive di così tante donne messe assieme. Agasinda finse di ignorarlo, per non insospettire la sorella, e Toribio apprezzò il suo riserbo. Mentre tuttavia non poteva mancare di cercarla con la coda dell’occhio, notò una vecchissima monaca, avrà avuto settant’anni, sgranocchiare olive e ghiande all’angolo di un tavolo vicino. Verosinda s’accorse che il giovane l’aveva vista. “Quella è Liuvigoto!”, gli spiegò. “È la vedova del vecchio re Ervigio, quello greco!”.

Toribio ricordò subito la storia dell’insubordinazione contro re Egica.

“La rivolta di Sunifredo e del vescovo Sisberto?”, domandò ingenuamente. Verosinda assunse un’espressione cupa. “Ssssh!”, lo fermò, “Non si debbono nemmeno pronunciare quei nomi! Piuttosto dì una preghierina per quella povera anima. Non l’ho mai vista ridere una volta”.

Così Toribio conobbe il volto di quell’antica regina, che un tempo aveva comandato il regno dei Visigoti; la faccia era increspata di grinze, i capelli grigi e sparuti erano coperti, per metà, da un cappuccio di felpa nera, stropicciata dall’usura. Vestiva una lunga tunica viola e sopra portava una stola grigia, sgualcita e sfilacciata alle maniche. Era magra come un chiodo e a stento riusciva a introdurre le olive nella bocca lercia e sdentata.

Gli occhi, persi dentro gote penzolanti, erano spenti come la cenere. Nemmeno gli ultimi raggi di sole che entravano dalle finestre si degnavano di sfiorarla. Che tristezza.

Quella era una fine che lui non avrebbe mai voluto nemmeno per una donna odiata dal mondo intero.

CAPITOLO XIII


Download 0,67 Mb.

Do'stlaringiz bilan baham:
1   2   3   4   5   6   7   8   9   10   ...   25




Ma'lumotlar bazasi mualliflik huquqi bilan himoyalangan ©hozir.org 2024
ma'muriyatiga murojaat qiling

kiriting | ro'yxatdan o'tish
    Bosh sahifa
юртда тантана
Боғда битган
Бугун юртда
Эшитганлар жилманглар
Эшитмадим деманглар
битган бодомлар
Yangiariq tumani
qitish marakazi
Raqamli texnologiyalar
ilishida muhokamadan
tasdiqqa tavsiya
tavsiya etilgan
iqtisodiyot kafedrasi
steiermarkischen landesregierung
asarlaringizni yuboring
o'zingizning asarlaringizni
Iltimos faqat
faqat o'zingizning
steierm rkischen
landesregierung fachabteilung
rkischen landesregierung
hamshira loyihasi
loyihasi mavsum
faolyatining oqibatlari
asosiy adabiyotlar
fakulteti ahborot
ahborot havfsizligi
havfsizligi kafedrasi
fanidan bo’yicha
fakulteti iqtisodiyot
boshqaruv fakulteti
chiqarishda boshqaruv
ishlab chiqarishda
iqtisodiyot fakultet
multiservis tarmoqlari
fanidan asosiy
Uzbek fanidan
mavzulari potok
asosidagi multiservis
'aliyyil a'ziym
billahil 'aliyyil
illaa billahil
quvvata illaa
falah' deganida
Kompyuter savodxonligi
bo’yicha mustaqil
'alal falah'
Hayya 'alal
'alas soloh
Hayya 'alas
mavsum boyicha


yuklab olish