Gente a levante!


PREPARATIVI PER LA DIFESA



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Sana20.05.2017
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PREPARATIVI PER LA DIFESA

Hernando era già molto preoccupato dal ritardo del figlio. Due giorni avrebbero dovuto essere più che sufficienti per finire quella tratta di pace. Ne erano già passati tre. Valerio si era chiuso nella sua stanza e non faceva altro che pregare e digiunare. Gaudiosa aveva già spedito Agasinda dalla zia, a Santa Maria dei Monti Sacri; poi aveva radunato tutti gli abitanti della zona nella chiesetta arancione che stava sulla strada per Cangas, con l’invito a pregare per la pace. Il duca Petro aveva persino proposto una processione lungo la via dei capitelli degli Apostoli. Alla mattina del terzo giorno, Pelayo mandò i suoi spatari a richiamare tutti al vecchio Palazzo dei Legati per le prime ombre del vespero. Solo allora Gaudiosa convinse Valerio ad uscire dalla sua stanza e a presentarsi alla corte per benedire le loro decisioni. Tirava davvero un’aria mesta. “Ho fatto brutti sogni!”, disse la duchessa al monaco. “Ci sarà una battaglia infernale e temo che ci uccideranno tutti!”, svelò piangendo, mentre il monaco le stringeva le mani al suo petto.

Ma il destino non era così semplice e Valerio lo sapeva bene.

Alle prime ombre del tramonto, tutti i guerrieri asturiani, i capi cantabri, i soldati visigoti e i conti svevi si diressero verso il vecchio palazzo rosso.

La facciata anteriore era illuminata dal fuoco di decine di fiaccole, collocate sotto i capitelli di marmo che torreggiavano sull’atrio che precedeva la porta d’ingresso. Molta era la gente che si era radunata lassù; tutti sapevano ormai della missione di Toribio e volevano sapere subito del suo esito. Pelayo arrivò presto, scortato dal figlio, dai suoi dodici spatari e da parecchi servi, che cominciarono a distribuire cervogia e pani di segala, farro e orzo, mentre un altro servo, alto, grasso e calvo, coceva la pulmentaria dentro un grande pentolone presso un forno esterno. Molti contadini, però, si erano portati vino e cibo da casa, non volendo pesare sulle vettovaglie che dovevano servire alla resistenza dei loro soldati. La seduta s’aprì alla luce di lucerne ad olio che i servi avevano posato sulle panche dell’anfiteatro e di un braciere gigante allestito davanti al baldacchino del duca. Pelayo sedette, il figlio Fafila fece lo stesso alla sua destra e il duca Petro alla sua sinistra. L’assemblea guardava silenziosa il vecchio condottiero visigoto.
“Che ne è di mio figlio?”, chiese il giudice di Valle, rompendo il silenzio. Valerio stava rannicchiato in ginocchio davanti alla sua panca. Stava ancora pregando. Pelayo alzò gli occhi lentamente per incontrare quelli fiammeggianti del cognato del duca Petro. Questi non osava guardarlo. “Dunque?”, ripetè il giudice. “Che ne è di questo negozio che avete tanto voluto, duca Pelayo? Sono già passate tre notti, che facciamo?”, martellò ancora.

Pelayo sembrava paralizzato. Non era solo per la possibile offesa al cognato di Petro, ma anche, ovviamente, per il possibile fallimento del negoziato. Sarebbe significato la guerra, certo una cosa impari, contro forze per lo meno doppie, forse triple, delle loro. Il duca a stento percepiva le urla del giudice autrigone. La sua mente stava ripassando tutti i punti di difesa del territorio asturiano: la cinta di Villa Viziosa, di Nava, di Villa Flaviana, di Ponte della Rouna, i presídi della valle del Rio Pilonia, del Rio della Marea, quelli del Lago di Tanes, del Rio Alba, del Caleao e del Nalon e giù, dopo i Monti della Rouna, quelli del Passo della Maddalena, dei Tre Passi della Corona e del Passo della Regina. Immaginava che il grosso dei Saraceni avrebbe preso la via di Nava. Se questa cedeva, avrebbero poi puntato su Villa Maior e da qui sarebbero arrivati a Cangas in poche ore. Ma sarebbero stati così sciocchi da non aspettarsi il grosso delle sue truppe proprio là? Allora avrebbero potuto rompere a Villa Flaviana, e quindi, aggirato il lago di Tanes e attraversate le montagne, sarebbero potuti scendere dalle valli del Rio Pilonia e del Rio Tendi. O forse no, forse avrebbero potuto attaccare dal mare, direttamente dalla foce del Rio Asta, magari aiutati dalle avanguardie berbere di quel Munuza. E se invece avessero preso la via più a meridione, quella dei Tre Passi della Corona? Difficile. I forti di quei passi erano ben difesi e tutta quella zona era abitata dai Vadinensi di Doidero che avrebbero resistito di sicuro e potevano essere soccorsi dalle truppe visigote della vicina Amaya. E poi il vescovo lo aveva detto. Avrebbero attaccato da occidente e, magari anche dal mare, ma non da meridione. E se il vescovo si fosse sbagliato? E se i Vasconi avessero tradito? Pelayo si rese conto solo allora che in vero poteva predire ben poco delle mosse del nemico. Solo Dio poteva aiutarlo.


“E allora, Pelayo, che fine hanno fatto i propositi di quel chierico di Roma?”, domandò ancora Hernando, distraendo, ora sì, il duca dalle sue riflessioni.

Il duca questa volta lo guardò, ma con un sorriso.

“Siate benedetto voi, giudice di Valle, che avete un figlio così nobile da portare il fardello per tutti noi! Forse è proprio questo il segno che aspettavo dalla divina provvidenza”. Il giudice parve bloccato da quella risposta. Valerio cessò di pregare, e guardò il duca. “Che intendete?”, chiese allora Petro, anche lui molto preoccupato, indirizzando lo sguardo verso Pelayo.

Quest’ultimo s’alzò, si diresse verso il grande braciere, fissò il fuoco per un lungo attimo, poi si volse alla platea. “Sento che quel ragazzo tornerà!”, disse, “Ma non posso predire che nuove ci porterà! In ogni caso, non scoraggiatevi! Io l’ho detto al vescovo… se non saranno qui dopo la terza notte, sarà guerra!”. I presenti mormorarono fra di loro, molti lo sapevano ed erano pronti per quello scenario, ma alcuni avrebbero ancora voluto sperare in una pace.

Valerio tornò a pregare. Pelayo si rivolse allora a Petro, come per fargli capire che non aveva ignorato la domanda di prima. “ Domne Petro, duca d’Amaya, quanti uomini vi restano laggiù?”, chiese.

“Non più di mille,” aggiunse quello, “e certo non ce la faremmo da soli!”.

“Pensate che Astasio abbia riferito giusto?”, chiese ancora Pelayo. Petro ci pensò. “Sapeva molto di quei demoni, veniva da Toledo, conosce Tariq e anche Munuza… però… forse è meglio usar prudenza! Mi meraviglierei che Arabi e Berberi confidino tanto in un uomo della nostra chiesa”, rispose, sempre più convinto dei suoi dubbi, per poi aggiungere: “Io considererei anche il fronte meridionale; Amaya è una fortezza difficile per loro, ma potrebbero spezzare l’unità nostra proprio in mezzo, se riuscissero a vincerci!”.

“Giusto, duca Petro, è quello che ho pensato anch’io!”, rispose Pelayo.


Allora tornò a tuonare il giudice di Valle: “Io a quel vostro vescovo di paglia non darei neanche l’ultimo dei miei cani! Quella faccia non m’è mai andata giù, e per giunta non avete voluto ascoltarmi! Gli avete dato mio figlio, sciagurati!”.

Il cognato lo invitò a calmarsi. Valerio si alzò e tentò di poggiare la sua mano sulla sua spalla. “E statevene lontano anche voi, monaco di Bisanzio! Ecco cosa capita a fidarsi del vostro Dio!”, gridò il giudice. Era furioso. I compagni delle panche vicine cominciarono a borbottare dissenso. Per molti convertiti quelle erano bestemmie, ma i capi cantabri lo capivano. Molti di loro si chiedevano adesso se non fosse stato stupido fidarsi di un chierico per una trattativa tanto importante. D’un colpo, Virone scese dalla sua panca e andò a sedersi vicino a Hernando. Lo stesso fecero subito anche gli altri capi cantabri. La platea si divise. Cristiani contro pagani, chi contro, chi in favore di quel vescovo.

Valerio sembrava capire che qualcosa di più profondo stava succedendo, il segno di un male molto più potente della minaccia saracena, una cosa di cui quei guerrieri non potevano essere consapevoli. Ma non volle intervenire e si limitò a pregare in silenzio, mentre i Cantabri levavano proteste in direzione dei duchi visigoti.

Questi erano tornati a sedersi, sconsolati, e non avevano più voglia di replicare.

Le proteste salirono ed Hernando cominciò a gettar occhiate nella direzione di Sancho, che frattanto si era allontanato verso gli spalti degli Svevi.

Anche gli Asturiani sembravano nervosi ed avevano cominciato ad insultare i Cantabri. La rissa era ormai vicina quando, improvvisamente, suonarono le trombe degli annunciatori e tutti voltarono lo sguardo sulla soglia della sala.

Laggiù, davanti ad una folla di contadini, coloni, vecchi, donne e ragazzi, si vedeva bene la figura di un ragazzo sorretto da un soldato visigoto e da un guerriero asturiano, dall’espressione stanca e gli occhi crepati da una lunga insonnia. Aveva i capelli biondi sporchi di terra e frammenti di foglie e ramaglia incastrati sotto una bella fascia d’argento; la barba era incolta e la giubba verde era infangata; ma non sembrava affatto impaurito.

Con la mano sinistra premuta sulla borchia del leone e la destra sull’impugnatura della daga, barcollò in direzione del padre. “Li hanno uccisi tutti!”, disse, e subito perse i sensi.

La platea era scioccata. Il duca Petro si alzò subito e ordinò ai guerrieri che avevano sorretto Toribio di portarlo dalla duchessa Gaudiosa. Hernando e Valerio li seguirono in fretta. Pelayo era già in piedi, sbalordito dalla sorpresa, come il figlio Fafila ed il resto dell’assemblea, che vociferava ogni sorta di sentimenti. Il condottiero allora alzò la mano destra e tutti tacquero.

“Ascoltate, uomini d’Hispania, che il destino vi vuole qui riuniti in queste tristi ore della nostra storia. È chiaro che la pace è fallita e dobbiamo difenderci fino all’ultimo sangue”, esordì con un’espressione mesta, ma non priva di grinta.

“Siamo quasi seimila uomini, giusto? Bene, è tempo di mandare messaggeri ai presidi d’occidente, alle cinte di Villa Viziosa, di Nava, di Villa Flaviana e di Ponte della Rouna, e anche ai forti del Passo della Maddalena, dei Tre Passi della Corona e di quello della Regina. Manderemo anche messaggi alle torri sulla costa di Colunga, di Riva del Sella e di Lanes. Voi, Sancho di San Emeterio… “, guardò il conte che stava seduto con gli Svevi, “ vi occuperete delle guarnigioni di Cantabria, mentre a voi, capi cantabri, chiedo di raccogliere i vostri migliori giovani – come già avete promesso – e metterli a nostro servizio”. I Cantabri ascoltarono ed assentirono con un cenno di capo. Il duca si rivolse allora a Xilo, il capo degli Asturiani: “A te, valoroso Xilo, chiedo di dare cinquecento uomini al duca Petro. Fafila! Tu ne comanderai altri trecento dei nostri, ti farai carico dei presidi meridionali e m’aspetterete a San Martino fino al tuo matrimonio, fra sette giorni. Puoi portare Froliuba con te fin da subito. Io, intanto visiterò i presidi d’occidente. Poi, dopo il matrimonio, io vi accompagnerò tutti al Passo della Regina… quello è il punto più alto e lo voglio vedere con i miei occhi… quindi i cinquecento Asturiani seguiranno il duca Petro ad Amaya e laggiù si aggiungeranno alla sua guardia di mille uomini. Alla fine, avremo duemila e cinquecento Asturiani, duecento Svevi e milleduecento cavalieri dei miei per difendere le cinte d’occidente e della costa, mille Cantabri, almeno spero, per coprirci le spalle, trecento uomini al servizio di mio figlio per i passi di meridione e milllecinquecento con il duca Petro, per difendere la sua città. Sono stato chiaro?”.
Fafila sembrò raggiante. Finalmente l’occasione per provare il suo valore. I Cantabri erano pure contenti e così lo era il conte Sancho che in pratica non doveva esporsi di prima persona e gli bastava mantenere le sue guardie dove erano già. Solo gli Asturiani sembravano perplessi. Parlò allora il vecchio Xilo. “Buon duca, io son pronto a seguire i vostri ordini, ma non sarà pericoloso allentare i presidi d’occidente, dopo le parole del vescovo di Toledo?”. Pelayo guardò Petro. Questi capì e rispose per lui:

“Anch’io ho sentito quelle parole, ma se perdiamo Amaya, sarete voi stessi vulnerabili alle spalle. Non possiamo giurare sulla fedeltà dei Vasconi, come abbiamo visto, e occorre saggezza. Però io prendo sempre per buone le parole del vescovo; se ha detto giusto e nessuno attaccherà a meridione, faremo sempre in tempo a ritornare i vostri uomini nelle Asturie; da là a quassù ci si arriva in circa tre giorni, a galoppo veloce e, in attesa, potrete sempre contare sulle forze cantabre.”.

Xilo guardò i Cantabri con i quali stava venendo alle mani solo pochi momenti prima. Virone parlò per loro: “Xilo dei Luggoni, vi giuro che copriremo le spalle dei vostri uomini, e non temete… perdonate i risentimenti… non possiamo esitare per via delle nostre fedi… se gli Dei lo vorranno, ci difenderemo per bene e ci lasceranno in pace per molto tempo. Vi giurò che se questo accadrà sarò pronto a chiedere ad Erudino di proteggere anche il vostro Dio e m’impegno per un banchetto di sette giorni in onore suo!”.

Xilo non lasciò correre un istante. Scese dalla sua panca e strinse la mano di Virone. I due si scambiarono i pugnali, mentre i compagni esultavano. L’alleanza era fatta. Era dai tempi delle guerre dell’Imperatore Ottaviano che Asturiani e Cantabri non si ritrovavano assieme contro un nemico comune. Poi Xilo scambiò alcune parole in dialetto luggone con un giovane di circa vent’anni, dai capelli scuri e la barba corta. Questi ascoltò con riverenza il vecchio capo e quindi si coprì il petto con la mano destra. Allora Xilo si voltò verso il duca Petro: “Bene vi manderò cinquecento uomini al comando di Bartuelo degli Arcadeuni, che vedete qui al mio fianco!”. Petro lo ringraziò, e ritornò lo sguardo a Pelayo. Questi allora si rivolse agli Svevi: “E voi per ultimi, onorabili conti di Svevia, sarete con noi?”.

“Lo saremo sempre, e bando alle vecchie discordie, saremo tutti uniti per la difesa della nostra cara Hispania!”, rispose il cavaliere Ricimiro, affiancato dai conti Gildimiro e Filimiro, anche loro convinti di voler vendicare il massacro delle loro genti. Era dai tempi della guerra fra il re visigoto Leovigildo e il re svevo Malarico, centotrent’ anni prima, che quei popoli non si amavano. Ma ora, con il fiato del nemico sul collo, tutti sembravano capire che solo l’unità poteva salvarli da una fine devastante. Starsene per conto proprio non sarebbe stato solo codardo; sarebbe stato anche stupido.

Toribio si risvegliò nel grande letto dove lo aveva fatto posare Gaudiosa. Lei stava piegata accanto, tenendogli la mano sinistra, e pregando. Valerio gli porse una tazza di tisana di miele e rosmarino. Toribio la bevve e i sensi tornarono meravigliosamente freschi. Fu allora che scorse anche il padre, seduto su un seggiolone davanti al bordo anteriore del letto.

“Li hanno uccisi tutti”, emise con un alito di respiro.

“Dici le guardie?”, chiese il padre. “Sì, le tre guardie nostre, le hanno sgozzate! Il vescovo, forse no, forse sì, ora che ci penso, non lo ricordo morto… ma è rimasto là, pover’uomo!”, rispose il giovane.

“E tu come hai fatto a salvarti, bambino mio?”, domandò Gaudiosa, mentre le accarezzava le gote rigate di lacrime. “Degli angeli mi hanno portato via! Erano altissimi e bellissimi, forse una dozzina, nessuno di quei Berberi poté fermarli!”, rispose Toribio. Gaudiosa e Hernando si guardarono in faccia. Ma Valerio tenne il capo chinato. Lui sapeva.

“Sta delirando, il figlio mio è ancora sotto prova della sforzo fatto! Ha le visioni!”, sentenziò Hernando. “No, buon giudice, forse no! Però adesso ha bisogno di riposo… è meglio che resti io solo a vegliare… fidatevi!”, cercò di rassicurarlo il monaco. Gaudiosa guardò ancora Hernando, che accettò il suo silenzioso invito a lasciare la stanza con lei.

Valerio rimase solo con il giovane Del Valle.
“È stata la croce!”, rivelò Toribio, non appena i passi degli altri si erano affievoliti nel corridoio. “Una luce bellissima, prima rossa, poi verde, poi d’argento. Mi hanno portato in un posto indimenticabile dove ho rivisto San Giacomo, ma anche San Giovanni, San Matteo e San Marco; mi hanno detto chi erano e mi hanno fatto bere acqua purissima e mangiare del pane così buono che mai dimenticherò nella mia vita; poi San Giacomo ha baciato la mia croce che d’incanto s’è mutata nel volto di Gesù, coperto di spine e sangue, che mi guardava sorridendo; poi Gesù lasciò il posto ad una grande aquila e San Giovanni, accarezzandone le ali, mi ha predetto che ci sarà una grande battaglia, ma che quello è solo l’inizio di una storia che finirà tra tredici secoli; infine San Marco mi ha raccontato che un leone, il suo leone, sarà sempre al nostro fianco e veglierà la nostra stirpe anche nel futuro quando le gemme saranno ritrovate per tutto il continente… dai ghiacci sopra la Britannia alle sponde della Gallia… dall’Alemannia giù fino alle Alpi più remote dell’Italia, dove i Del Valle fonderanno un castello, tra due secoli; da qui le gemme continueranno la loro storia attraverso Roma e Bisanzio… e poi in Persia, in India e fino all’estremo dell’oriente, dove esistono genti con gli occhi a mandorla che mai abbiamo visto… e infine in una terra d’oltre oceano, che si chiamerà America, raccontò Toribio. Poi, con una nota di tristezza mista a nostalgia, rivelò: “Ho visto anche lei, la mia mamma!”. Cominciò a singhiozzare. “Era bellissima, vestita di azzurro e oro, la pelle fresca e gli occhi luminosi, mi stringeva a sé… e mi diceva di non aver mai paura di nulla… che un giorno saremmo stati tutti assieme e nessun male ci avrebbe mai più divisi; mi disse che mio padre sarebbe stato con noi e sarebbe stato diverso… finalmente quello che davvero è per sua natura e non l’uomo che è diventato in questo mondo per tutte le croci che ha dovuto portare… “, disse il giovane prima d’interrompersi. Valerio lo ascoltava senza fare una piega. “A volte sono stato troppo superbo con lui”, riprese Toribio, come preso da una nuova preoccupazione, “… devo sforzarmi di capirlo… ha subito cose che pochi altri avrebbero accettato… non importa se ancora parla di Dei pagani, un giorno capirà!”.

Valerio lo guardò in silenzio, estasiato da quel racconto, che certo gli era famigliare. “San Giovanni… t’ha detto chi vincerà alla fine?”, chiese il monaco. Toribio ricambiò lo sguardo, sereno. “Sì, e mi ha chiesto di non parlarne con nessuno!”.

Valerio tacque, ma sorrise con dolcezza a quelle parole.

“Te l’avevo detto, Toribio, basta aver fede e aspettare!”, disse alla fine. Toribio annuì.

A quel punto arrivò Fafila.
“Toribio, amico mio, che vi è successo? State bene?”, chiese il giovane visigoto, affrettandosi verso il suo letto. “Adesso proprio sì, il decotto di Valerio mi ha resuscitato!”, rispose il giovane di Valle, volgendo un’occhiata al monaco.

“Ma ditemi, allora, com’è andata?”.

“L’ho già detto, hanno ucciso la nostra scorta e credo anche il vescovo; io mi sono salvato per volere della divina provvidenza, che altro posso dirvi?”.

“È un miracolo, allora!”, esclamò Fafila, “Avevo visto giusto che il Signore nostro vi vuole tanto bene!”.

Toribio guardò ancora Valerio, che continuava a tenere gli occhi bassi. “E allora, che farà vostro padre? Rimanderà il vostro matrimonio?”, chiese Toribio, ansioso.

“No, quello si farà, non temete, partiremo tutti insieme per San Martino, e voi e Valerio sarete con noi, me l’avete promesso, no?”.

“Se Dio mi ha salvato solo per quello, gliene sono grato a sufficienza, amico mio!”, rispose il giovane di Valle. “Valerio, tu lo officerai come ci hai detto?”, domandò al monaco. “Quello sempre!”, rispose l’altro. Fafila sembrò sollevato.

“E hanno deciso cosa fare per difenderci? Io l’ho visto e udito bene quel Berbero… è arrogante, un uomo capace di tutto… sapete che voleva vostra zia e anche vostra sorella?”.

Fafila trasalì. “Maledetto maiale! Dovrà passare il filo della mia lama ben due volte, se solo oserà toccare Agasinda!”.

Toribio fu contento di udire quelle parole. “È più o meno quello che gli ho detto io, non ci riuscirà mai!”.

“E che ha risposto quella canaglia?”.

“C’è rimasto di cera e ciò non mi soprende; quel che fu strano è stato il comportamento del vescovo. Non volle opporsi con veemenza, era come se… non so, non posso crederlo… ma sembrava che in qualche modo lo incoraggiasse!”, rivelò Toribio.

“Questi vescovi di città! A volte usano parole doppie, ma non posso credere che avrebbe accettato una simile porcheria!”, replicò il Visigoto, pensieroso.

Anche Toribio sembrava ora perso nei dubbi.

Poi ebbe un cattivo presentimento: “Vostra sorella è già partita, vero?”.

“Sì, mia madre l’ha già mandata a Santa Maria dei Monti Sacri, perché? Lo sapevate, no?”.

“Sarebbe meglio che mandaste una scorta dei vostri uomini, ho come un senso di timore… ne avevo parlato con il vescovo… mi faceva domande anche su di lei… non ho mai capito bene perché… “, disse Toribio, imbarazzato.

“E certamente suona strano anche a me, ma forse l’emozione di quel ché è capitato laggiù vi sta alterando il ricordo di ciò che avevate sentito prima!”, riflettè Fafila, ancora incredulo che vi fosse una qualsiasi connessione fra quegli eventi.

“Forse sono solo paure mie…”, continuò Toribio, che non voleva dichiarare i suoi sentimenti per Agasinda, “… ma sono pronto a proteggere vostra sorella e vostra zia da solo, se ce ne fosse bisogno. Perché non mi raccomandate a vostro padre? Con una decina di uomini, possiamo vegliare sulla loro incolumità fino al giorno del vostro matrimonio, che ne dite?”.

Fafila lo guardò perplesso. Poi accennò un sorriso. Aveva capito che gli era sfuggito qualcosa e sapeva che la sorella aveva passato del tempo da sola con Toribio. “Ne sarò onorato!”, rispose, spalancando le palpebre del suo musetto di cerbiatto.

Aveva mangiato la foglia. I due scoppiarono a ridere e così anche Valerio. “Sarà meglio che vada a chiamare la servitù per farvi avere un bagno decente!”, concluse Fafila e lasciò la stanza, mal celando l’allegria sotto un finto contegno.
Poco dopo echeggiarono nuovi passi per il corridoio.

“E meno male che stava per morire! Mai visto uno più allegro dopo esser scappato dalle grinfie di un Saraceno!”, proruppe una voce baritonale.

Era la volta di Petro, che entrò nella stanza, accompagnato da Hernando.

Lo zio gli porse di persona un vassoio con una tazza di pulmentaria e una focaccia di ghiande; il padre gli passò un boccale d’argento, colmo di vino.

“Lascia perdere le pozioni del tuo amico!”, disse quest’ultimo, rude, al cospetto del monaco.

“Questo ha sempre operato meglio di qualsiasi erba, anche per gli scavezzacollo come te, figlio mio! Ora t’è bastata la lezione? Hai capito perché ero contrario?”, continuò.

Valerio ignorò la sgarbatezza, e ricambiò lo sguardo supplichevole di Toribio, alzando gli occhi verso il soffitto.

Mentre il giovane mangiava e beveva, lo zio volle sapere tutto ciò che ricordava. Purtroppo Toribio poteva solo riferire dei soldati che aveva visto e delle loro armi, ma non poteva stimarne la quantità vera.

“Armi dalle lame ricurve, dunque! Ed archi a doppia esse? Certo, Pelayo me ne ha parlato, sono le stesse armi degli Arabi; è chiaro che le prendono sempre dalla stessa fonte; come quando hanno combattuto sul Rio di Gades!”, riflettè il duca di Amaya. “È vero, ricordo le stesse armi descritte da Gunderico!”, aggiunse Hernando.

“C’è di più! Al porto ho visto anche dei dromoni di Bisanzio, con i loro vessilli viola!”, rivelò Toribio. Poi descrisse il resto dell’incontro, omettendo tuttavia i particolari del miracolo.

“Bene!”, concluse lo zio, “Il tradimento è ora palese! Bisanzio li foraggia da lontano, che altro possiamo dedurre?”. Hernando digrignò i denti e guardò male Valerio, ma non lo insultò come al solito.

Petro si era completamente dimenticato delle origini del monaco e continuò ad interrogare Toribio. Poi disse al ragazzo brevemente dei preparativi per la loro difesa e lo esortò a farsi coraggio. Sarebbero partiti tutti il giorno dopo, il tempo di preparare gli uomini e di mandare messaggeri a San Martino e ad Amaya.

“No, zio, vorrei non venire subito a San Martino!”, lo interruppe Toribio. Il padre lo guardò sorpreso. “Che altro t’è saltato in mente, ora? Non sei ancora rinsavito dopo questa bella colazione?”, chiese con il consueto tono burbero, proprio nel momento in cui stava tornando Fafila.

Toribio allora spiegò il suo proposito di prendersi una scorta e raggiungere il monastero di Santa Maria dei Monti Sacri. “E per fare cosa, perdere tempo con le monache?”, chiese l’altro. Fafila allora appoggiò il proposito e il duca Petro e il cognato si guardarono tentennanti. “Non mi piace molto la cosa, sarebbe meglio che restassimo uniti… che è? Un’altra idea delle tue, Valerio?”, il giudice interrogò il monaco. Valerio sembrò cadere dalle nuvole. “No. È un’idea di vostro figlio, buon giudice!”, udirono una voce gioiosa alle loro spalle. Era Gaudiosa, entrata assieme ad Ermesinda e quattro servi. Questi portavano una grande mastella di legno e secchi d’acqua calda, spazzole e sapone. Evidentemente Fafila glielo aveva già detto.

“È un’idea meravigliosa e sono orgogliosa che il figlio della mia amica voglia tanto bene a mia figlia da voler offrirsi per la sua protezione. Duca Petro, pensate che dieci uomini bastino?”.

Hernando restò muto per quella girandola di parole. Il duca s’affrettò a rispondere alla moglie di Pelayo: “ Gli daremo la scorta più formidabile delle Asturie e se volete anche Liuva o Teudiselo!”, rispose.

“Gli Asturiani basteranno!”, disse Gaudiosa. “Ed ora, Toribio, i miei servi ti faranno un bel bagno e poi ti porteranno alla sala del triclinium per il pranzo. Noi saremo tutti laggiù”, disse la nobildonna, porgendo il braccio a Petro. Questi l’accompagnò fuori dalla stanza, seguito da Fafila, Ermesinda e Valerio. Hernando s’attardò dietro di loro.

“Un giorno mi spiegherai!”, disse, fulminando il figlio con un’occhiataccia. Toribio rise. Ora voleva bene a quel padre orribile.

CAPITOLO XII


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