Gente a levante!



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EPILOGO


Valle d’Autrigonia, una sera di fine Ottobre.
Nonna Amagoya s’avvicinò al grande focolare, sollevò alcuni ceppi di frassino che stavano accanto e li gettò tra le fiamme che ardevano vivide e scoppiettanti. Poi posò una grande padella di rame sul cumulo di bronze più basso e, tramite il lungo manico, le dette ripetute scosse per far assestare le castagne che vi abbondavano.

Quindi tornò a sedere ad un capo del lungo tavolo di quercia, sotto gli occhi di Toribio, Agasinda e Teodosinda, che stavano dirimpetto sulle panche laterali, e dello zio Momo, seduto all’altro capo.

Ermesinda era intenta a dondolare il piccolo Alfonso, ormai addormentato dentro la sua bella culla di pino nero piantata in mezzo all’ampio salone della rocca. Proprio là, solo sei mesi prima, si era presentato il futuro generale Gunderico, allora solo un messaggero per conto del duca Petro di Amaya.

Sembrava che fossero passati anni da quella sera, quando il giudice Hernando aveva raccolto tutti i decani del paese per sapere cosa stesse succedendo nel mondo di fuori, quello lontano dalle loro valli e dalle loro montagne. La sua voce brusca e le sue parole scontrose sembravano ancora echeggiare tra le alte volte e i grossi architravi del soffitto, rinsecchiti e anneriti da secoli di fumo e calore malconvogliati.

Adesso il burbero uomo che comandava quella rocca non c’era più. Ma sua madre e suo figlio erano ancora là, e certo la sua assenza era sentita da tutti, poiché, nonostante i modi, tutti avevano imparato a conoscerlo come un animo puro e leale. E poi la sua tempra non era così dissimile da quella di molti altri capi cresciuti tra le angustie quotidiane e le sfide incessanti di quei luoghi impervi. In fondo, era la stessa natura ad essere scorbutica con tutti lassù; maggior merito dunque a chi riusciva a far trapelare un cuore dolce sotto un’inevitabile scorzaccia. Per molti uomini e tantissime donne quello era ciò che ci si doveva aspettare da un uomo vero. Per il resto, bisognava farsi coraggio e continuare la vita, sperando nella benedizione del cielo ogni singolo giorno e ogni singola notte.
La gente di Valle aveva continuato a celebrare riti e sacrifici per il suo vecchio capo fino alla fine dell’estate. Tutti gli anziani si erano abbigliati con i fiori gialli del lutto per almeno quaranta giorni e molti capi famiglia si erano recati spesso da nonna Amagoya con cesti di pane, casse di carne essiccata, anfore di miele, vino e persino sale. Il villaggio di San Bartolomeo aveva mandato enormi carichi di legna, sì da rifornire la rocca per almeno due inverni. Le donne di San Petro avevano mandato a comprare al mercato di Flaviobriga una splendida collana di perle per Agasinda e i fabbri di San Rocco avevano forgiato una lunga daga d’oro per Toribio. I carpentieri di Valle, invece, sotto l’occhio vigile e accigliato del vecchio Taeda, avevano eretto un maestoso baldacchino per la camera da letto dei novelli sposi mentre Anna con le sue amiche si erano dedicate a cucire e a ricamare le tende e le lenzuola che lo avrebbero addobbato.
Momo di aveva voluto visitare i suoi parenti per qualche giorno ed aveva portato in dono un cofanetto colmo di gioielli e pietre preziose per la nuova coppia e una teca di cristallo dove stavano ordinati specchi, pettini e boccette di profumo per la nipote Amaya.

La visita del vecchio patriarca, che si era presentato solo e inaspettato sul suo destriero bianco, era stata accolta con grande calore da tutti. Amagoya aveva sempre voluto un gran bene allo zio, e per molti anni aveva pregato che si giungesse a quella riconciliazione. Toribio gli aveva spalancato le porte della rocca ed aveva convinto i decani ad ordinare l’allestimento di un banchetto in suo onore. Con sua sorpresa, nessuno si rifiutò di obbedire. Era ormai certo che dopo i fatti delle Cave Dominiche la voce si era sparsa tra tutte le famiglie autrigoni e non c’era più ragione di tenere rancore per il popolo vicino. Ora c’era solo voglia di festa e perdono.


Gaudiosa aveva mandato la piccola Ermesinda a stare un po’ con la sorella, mentre con il marito si apprestava a riordinare la villa di Cangas, messa a soqquadro dai Saraceni pochi mesi prima, e a dar man forte per erigere delle mura attorno a quel villaggio, ormai divenuto capitale della resistenza cristiana.

Il duca Petro era invece ospite del conte Sancho e sarebbe venuto a riprendersi il piccolo Alfonso e la moglie in novembre. Dopo il matrimonio, Toribio aveva insistito che la zia e il piccolo Alfonso rimanessero con loro per un po’, sì da consentire al duca di Amaya di reclutare e addestrare un nuovo esercito e, con l’aiuto di Dio, ottenere l’appoggio della corte dei Franchi, i cui ambasciatori, correva voce, sarebbero arrivati presto al porto di San Emeterio.


Una lunga pausa di silenzio seguì il ritorno dell’anziana vascona al tavolo ricoperto dei resti della cena. C’erano scodelle sporche, vassoi insozzati di olio, piatti di costine di maiale mangiucchiate e terrine di frittelle d’avena ormai fredde. La grande pentola che conteneva la pulmentaria era stata portata via completamente vuota. Tutte le tazze di lardo erano state ripulite e gli spiedi che avevano inforcato i polli, i capretti e le cosce di cinghiale erano ammucchiati in disordine sui bracieri vicini.

Amagoya guardò con soddisfazione quei resti. Il banchetto aveva avuto successo.

I decani avevano già lasciato la rocca al tramonto del sole, per tornare alle loro case accompagnati dai figli maggiori. Tutti si erano accomiatati con molta riverenza ed avevano augurato felicità e prosperità ai loro nuovi signori.

Ed ora questi erano rimasti soli, raccolti al tepore del grande falò, come una qualsiasi famiglia contadina.

Toribio guardava con dolcezza gli occhi innamorati della giovane visigota. Teodosinda sembrava invidiarli dall’altra parte del tavolo, mentre sorbiva in silenzio il liquido rubigno contenuto nel suo calice di cristallo. Il vecchio patriarca aveva invece gli occhi puntati sul fuoco, e sembrava immerso in ricordi lontani.

Ed ecco la voce della piccola Ermesinda rompere l’incanto di quella famiglia.


“Zio Momo – così aveva imparato a chiamare il vecchio dall lunga barba bianca – raccontaci una favola!”, esortò la bimba dagli occhi blu cobalto.

I grandi sorrisero a quella domanda e puntarono l’attenzione sulla faccia sorpresa del vecchio parente.

Questi sembrò esitare per un attimo. “Sì zio, suvvia, raccontaci una delle belle favole di Fedro che ci davi ad ascoltare davanti a questo focolare quando eravamo piccoli come questa bimba!”, disse nonna Amagoya, mentre gli astanti sentivano i loro cuori palpitare per l’emozione.

Allora il vecchio patriarca distolse lo sguardo dai ceppi fiammeggianti, allargò le rughe della fronte e fissò gli occhi sulla piccola bambina dalle fattezze celtiche.


“Bene, sia come vuoi tu, giovincella dagli occhi azzurri!”, proruppe sorridendo, e, dopo essersi slacciato le fibule che gli chiudevano il collo della bella casacca verde, incrociò le robuste braccia sul margine del tavolo e cominciò:

Una lepre che aveva addosso un’aquila piangeva forte. Un passero la scherniva e le strillava: “Dov’è quella tua celebre rapidità? Che succede? I piedi ora ti mancano?”. Mentre il passero diceva così, gli piomba dalle nuvole un falco. Ha voglia di gridare e piangere! E mentre il falco se lo sbrana, la lepre gli dice esanime: “Ah! La tua fine allevia la mia fine. Poc’anzi non facevi altro che ridere sulle mie disgrazie. E rimanevi intrepido e sicuro di te stesso. Ora sui tuoi casi spandi uguali gemiti “.

Finita la storiella, Momo fissò gli astanti. “Dunque, giovinotti, avete capito bene il senso di quel che intendeva il maestro?”, domandò.

Seguì un lungo silenzio. Toribio e Agasinda si guardarono, Teodosinda sorseggiò dell’altro vino. Nonna Amagoya taceva, sorridendo. Allora la piccola Ermesinda ci provò: “Il passero non avrebbe dovuto distrarsi per prendere in giro la lepre. È stato sciocco e se l’è meritata!”.

Momo l’ascoltò con un’espressione divertita. “Piccola mia, tu hai colto il senso più ovvio. Ma qual’è quello più profondo?”, chiese, accarezzandosi la barba e tornando a guardare gli adulti.

I giovani seduti vicino si scambiarono un’occhiata. Forse avevano capito tutti cosa Momo intendesse dire dietro le righe di quella favoletta. Ma nessuno voleva sbilanciarsi sotto gli occhi severi di quell’ uomo di rinomata saggezza. Allora il patriarca indirizzò un tenero sguardo verso Teodosinda. La nobildonna di Amaya lo ricambiò con un’espressione dolce e compita, poi rispose: “Significa che davanti ai pericoli di questo mondo siamo tutti nella stessa barca, ed è stupido ridere delle disgrazie altrui quando queste possono capitare anche a noi!”.

Momo di non aprì bocca, continuò a lisciarsi la barba e ad osservare intensamente quella splendida donna velata di rosso. Poi annuì con il capo. “L’hai detto, giovane duchessa di Amaya! Ed è per questo che infine io decisi di aiutare tuo marito e i vostri popoli”, disse il vecchio, rallentando le parole e tornando a guardare le fiamme che danzavano vicino. Teodosinda lo guardò quasi commossa. Davanti a lei stava proprio il capo di un popolo noto a tutto il mondo per la sua iniquità. Un popolo che tanti grattacapi aveva dato ai Goti come lei e suo marito. Ma ora, in quella magica serata, sembrava davvero che fossero diventati tutti una grande e sola famiglia. E senza nemmeno accorgersene, la fiera nobildonna si lasciò sfuggire un leggero ‘grazie’ fra le labbra.

A Toribio non sfuggì il tono malinconico di quella scena e si ricordò del discorso che la zia gli aveva fatto sul davanzale del palazzo ducale la sera dell’inizio dell’assedio di Amaya.

Così anche il ragazzo volle aggiungere la sua: “ E inoltre il passero avrebbe potuto aiutare la lepre… invece di perder tempo a schernirla!”.

Momo non si voltò e rimase con gli occhi fissi sul fuoco. “Certo, Toribio. Tu hai in mente l’esempio di un cristiano. Ma quello era solo un passero, non un leone!”, disse, quasi mormorando. E dopo un’altra pausa di silenzio, concluse: “Per la sua natura di passero, gli avrebbe fatto sufficiente onore di tacere”. Gli altri sorrisero subito, tranne Ermesinda che non sembrava capire.

Anche nonna Amagoya sorrise a quella sottile ironia. Poi questa s’alzò e si diresse verso il focolare, dove l’aspettava ancora la padella di rame piena di castagne. “Ecco, sono pronte! Fate attenzione che scottano!”, disse e con l’aiuto di un largo cucchiaio s’apprestò a riempire le sei tazze di terracotta che stavano sul pavimento.

Servito lo zio per primo, passò le fumanti ciotole agli altri, e infine, dopo averle raffreddate con un panno bagnato, porse una manciata di castagne anche ad Ermesinda.

La piccola prese a sbucciare e sgranocchiare voracemente quei buoni frutti di primo autunno. Poi, con la bocca ancora piena, si rivolse ancora al vecchio patriarca: “ Zio Momo, dai, raccontacene un’altra!”.

“Lascia stare lo zio, ora, sorella! Ti ha già soddisfatto ed è tempo di andare a dormire per quelli della tua età. Le campane del vespero hanno suonato da parecchio, forza, a letto!”, disse Agasinda, corrucciata.

Ma Momo l’invitò ad aver pazienza e quindi riprese: “Bene, ora tocca alla seconda: nelle selve le lepri un dí si levano a protestare con enorme strepito di non poter rassegnarsi a vivere in continuo spavento. Si riversano ad uno stagno, col fermo proposito di buttarcisi dentro. Al loro accorrere danno un balzo le rane, e in fuga squallida sotto il tetto di verdi acque s’acquattano. Ed allora una delle lepri: “Caspita! C’è pure al mondo chi lo piglia il panico di chi sta in alto più di lui! Fermiamoci. Altri soffre la vita, e noi soffriamola!”.

Raccontata anche questa, Momo tornò a guardare gli altri. Ma ancora una volta nessuno si sbilanciò.

Allora il vecchio si rivolse ad Ermesinda. “Hai capito il principio di questa storiella, piccola linguetta?”, domandò. La bambina guardò a lungo le travi del soffitto, poi cercò d’indovinare: “Che le rane si spaventino se delle lepri dieci volte più grandi di loro si avvicinano, lo sanno tutti. Perché ce lo racconti, zio Momo?”.

Il vecchio rise a quelle parole. “E voi sapete risponder meglio di questa insolentina?”, chiese agli altri. “Avete ragione, zio. Ermesinda è troppo piccola per capire ciò che vuol dire quella bella favola. Chi dei suoi mali non sopporta il carico guardi a quello degli altri e impari a reggerlo! Era questo il senso, vero?”, replicò finalmente la sorella.

“Brava Agasinda. Sei proprio una ragazza saggia… come ho sentito dire da molti”, affermò allora il vecchio.

“ Volete che vi racconti l’ultima prima di andare a letto?”, domandò quindi.

“Sììì, Sììì!”, strillò Ermesinda, meritandosi un’occhiataccia dalla sorella.

Il patriarca si rinfrescò allora la gola, sorseggiando del vino dal suo boccale, e quindi fece per iniziare la terza favola, quando fu interrotto dall’improvvisa comparsa di Decio sulla soglia del salone.
“Che vuoi dirci, Decio, a questa ora tarda?”, chiese nonna Amagoya all’omaccione dalla consueta espressione cerimoniosa.

“Mi dispiace disturbare lor signori ma… abbiamo una visita!”, rispose quello con un poco d’imbarazzo.

“Una visita adesso? E chi può essere così bravo da azzardarsi a soprenderci fin quassù?”, domandò Toribio, perplesso.

Decio scomparve e subito si udirono degli altri passi rimbombare nel corridoio vicino. Toribio ricordò i passi che avevano preceduto l’apparizione di Gunderico sei mesi prima. Ma questa volta non c’erano rumori di ferro. Solo il fruscìo di un paio di stivaletti bizantini. E così, come per incanto, sulla soglia spuntò Valerio, avvolto in un bel saio bianco e coperto da un mantello nero con il cappuccio alzato.

Tutti i presenti si alzarono sulle panche, i volti stupefatti, tra la gioia e la sorpresa. Ermesinda corse ad abbracciare il monaco che l’alzò con le braccia e la baciò sulla fronte. “Piccola mia! Sei già più alta di quando ti vidi solo poche settimane fa!”, disse il nuovo vescovo. “Benvenuto, fratello Valerio! Presto siedi con noi e mangia un po’ delle castagne che ci sono rimaste!”, lo esortò Toribio, emozionato. “Ho già cenato per strada, amici miei!”, si scusò l’altro, per poi apprestarsi a stringere le mani e ad abbracciare ciascuno di loro. E salutato anche il patriarca Momo, disse: “ Che bella occasione, di trovarvi qui, domne Momo. Proprio ora che vengo da San Emeterio e son diretto alla vostra dal vescovo Astolfo. Non potevo fare a meno di fermarmi a Valle. Volevo rivedere il mio vecchio amico Toribio e invece, guarda un po’, qui vi trovo quasi tutta la famiglia!”.

Il patriarca rise di gusto e invitò Valerio a sedere al suo fianco e a raccontargli le nuove da San Emeterio.

Ma Teodosinda quasi lo interuppe. La duchessa di Amaya voleva sapere prima del marito.

“Sta benissimo! Ve l’assicuro, domna Teodosinda. E vi dico che sono arrivati anche gli ambasciatori franchi!”.

“Quelli che s’aspettavano per la nuova luna?”, chiese allora Momo, incuriosito.

“Sono arrivati in anticipo! Li hanno accolti al porto il duca Petro e il conte Sancho in persona. Avreste dovuto vedere che belle imbarcazioni avevano. E per non dire delle vesti sontuose e delle corone scintillanti che portavano sui loro capi… “, raccontò Valerio. “ Si sono presentati anche a me… e mi chiamavano vescovo… non so come abbiano potuto saperlo prima! Ma, per la gloria del cielo, che razza di guardie avevano con loro… giovani biondi e alti come alberi che impugnavano picche enormi come fossero pungoletti e reggevano scudi possenti come fossero fatti di papiro!”, continuò, muovendo le braccia per descrivere la portata di quelle apparizioni.

“E il loro capo, Carlo… Martello… così s’introdusse! Avreste dovuto vedere che pezzo di giovane. Mai visto uomo più bello fra tutti i patrizi di questo mondo!”.

“Hai detto… Martello?”, lo interruppe Momo.

“Proprio così! Aveva le fattezze di un Apollo, il volto radioso come quello di un cherubino, gli occhi blu come il mare Egeo e i capelli biondi come l’oro della Sarmazia! E… la voce! Parlava come un uomo di cinquanta primavere, eppure, vi giuro, non poteva averne più di venti o venticinque al massimo!”.

Ora tutti erano eccitati. Tutti avrebbero voluto esser là per vedere questo ambasciatore del temutissimo popolo dei Franchi.

“È il figlio più giovane di Pipino di Heristal,” interloquì allora Momo, “io l’ho conosciuto che era ancora un fanciullo quando mi incontrai a Narbona con il padre, dopo l’ultima guerra in Septimania. Ora ricordo… quel ragazzo è un bastardo, nessuno sa molto della madre!”.

“Questo non potevo saperlo!”, disse Valerio, “ Ma certo se c’è un condottiero straniero che può aiutare il nostro re e tutti noi a difenderci dai Saraceni, quello… lo sento… non può che essere lui!”.

“E che ti ha detto dunque?”, s’apprestò a domandare Toribio, ansioso di conoscere l’esito dell’incontro.

“Che ci aiuteranno! Evvia! È ovvio che siamo tutti nella stessa barca, no?”, rispose il nuovo vescovo.

Toribio guardò con un sorriso Momo. Non poteva esserci migliore epilogo per le favole che il vecchio patriarca vascone aveva appena finito di narrare.

Momo gli lesse il pensiero. “Bene, giovani miei!”, disse il vecchio, “ Sono proprio felice che la luce faccia finalmente capolino dopo che tante ombre erano calate sui nostri popoli! E allora esultiamo per questo segno di Dio e alziamo a lui l’ultimo brindisi!”, propose, commosso come mai lo era stato da decenni.

Gli altri lo seguirono e infine Valerio concluse: “ Vi racconterò il resto domani per la colazione. Ora immagino che vogliate ritirarvi ai vostri giacigli e poi… sono stanco anch’io!”.

A quelle parole nonna Amagoya fece un cenno a Decio che era rimasto ad ascoltare silenzioso e sorridente vicino al focolare. Il servo si allontanò e comparse poco dopo con Anna. La giovane s’inginocchiò davanti al vescovo che le benedì il capo; quindi s’affrettò a portare subito a letto Ermesinda mentre il marito spostava la culla con Alfonso nella camera di Teodosinda. Dopo che anche Teodosinda, nonna Amagoya e lo zio avevano salutato tutti per ritirarsi nelle loro stanze, Agasinda si accinse a istruire i servi Lario e Lucio per le pulizie del giorno dopo. E mentre la giovane figlia di Pelayo già mostrava di saper esser una buona castellana, Valerio ne approfittò per sussurrare il suo segreto a Toribio.

“Non mi sono solo fermato per salutarti, Toribio!”, disse. “Domani dobbiamo finire quel compito, ricordi?”.

Toribio non capiva. Ma Valerio non lo lasciò parlare. “Vai a letto, capirai più tardi. E poi non è giusto che tu lasci sola una bella ragazza come quella. Sarebbe davvero un peccato serio, adesso che siete sposati!”.

Toribio guardò il monaco stralunato. Stava per insistere a chiedergli di quale compito parlasse, ma subito sentì il tepore della mano della moglie sul dorso della sua. “Andiamo a dormire, dai!”, disse la fanciulla dagli occhi di lince. Così Valerio seguì Decio che era tornato per accompagnarlo a coricarsi, e i due giovani si diressero, mano nella mano, verso il loro splendido talamo.

Quella notte Toribio sognò di un esercito di cristiani dalle proporzioni immani che affrontava un altro esercito smisurato tra le colline basse e verdeggianti di una campagna a lui sconosciuta. In mezzo ai cristiani spiccava un uomo a cavallo di un bianco destriero, stretto da un’armatura di brunie d’acciaio. Sull’elmo portava due alette di ferro e un lungo ciuffo, rosso come il mantello che gli svolazzava dietro le spalle.

Davanti a lui stava un generale saraceno, dalla pelle scura e il volto barbuto, nell’atto di calare la scimitarra su una donna che proteggeva un bimbo con il corpo nudo. Il cavaliere dal manto rosso intercettò la scimitarra del saraceno con la sua poderosa ascia e quindi gli mozzò la testa d’un colpo. Allora la donna con il bimbo scomparve e al suo posto si materializzò un giovane dal volto serio e concentrato che studiava su un leggìo i passi indicati dal suo monaco tutore. E poi questo giovane guardò fuori dalla bifora che dava sul paesaggio circostante. Ed ecco comparire castelli e rocche in costruzione ovunque arrivava il suo occhio. E schiere di funzionari leggere a voce alta i capitoli del nuovo Impero davanti a folle impaurite e concitate. E quegli scabini parlavano tutte le lingue e i dialetti dell’Europa, ed erano seguiti da eserciti di soldati con la stessa identica uniforme. Ed ora quel giovane diventava vecchio e sedeva su un alto trono in mezzo a nobili dalle vesti lussuose e ammantati di pelliccia d’ermellino. E infine veniva incoronato fra canti eccelsi dal Pontefice in persona durante la messa in onore della nascita di Gesù.

E tutti gridavano: “Carolus, Carolus Magnus! Deus benedicat Imperatorem nostrum!”.


Poi la scena cambiò di nuovo e ora si vedevano dei guerrieri alti e dai capelli rossi, piantati sulla prua di lunghe navi dalla testa di drago, che fendevano acque buie e profonde tra montagne di ghiaccio. E in mezzo a loro stava un uomo vestito di bianco, grasso e dal volto porcino, che fissava l’orizzonte. Toribio riconobbe subito Oppa e cominciò a tremare. Ma il demone non sembrava rendersi conto di lui. La sua attenzione era volta verso gli astri che guidavano i suoi guerrieri. E in mezzo a quelli si scorgeva un bagliore verde. Era quello di una croce con una gemma di smeraldo che brillava nell’universo in mezzo ad altre undici. E Toribio stava quasi per raggiungerla, quando la sua mano fu fermata da quella di una donna dalla pelle bianca e i biondi capelli stretti da una fascia d’argento. Toribio riconobbe la mamma e anche l’uomo dalla casacca rossa che le stava accanto. “Mamma, papà!”, disse il giovane, emozionato. “Mamma, papà!”, ripeté. E allora l’uomo dalla casacca rossa, che ora appariva bellissimo e giovanissimo, gli prese la mano e con dolcezza gli disse: “Non temere più nulla, figlio mio. La tua missione è compiuta. Ora lascia che i figli dei tuoi figli facciano il resto!”. Quindi entrambi i genitori lo baciarono sulla fronte e scomparvero. “Mamma, papà!”, continuò il ragazzo, che ora sentiva la carezza di una mano calda sulle sue guance coperte di lacrime.

Così i suoi occhi finalmente si aprirono e vide il volto di Agasinda sopra il suo. La fanciulla continuava ad accarezzarlo e a baciarlo sulle labbra.

I gemiti l’avevano svegliata e si era accorta che Toribio stava sognando. Allora anche il marito capì e lasciò che il corpo della giovane coprisse il suo. E i due si lasciarono all’amore con una gioia mai provata in vita loro.

Alle prime ore dell’alba, il conte Del Valle fu scosso dalla manona del servo Decio.

“Padrone, presto, destatevi e preparatevi. Il vescovo vi sta già aspettando nell’atrio!”.

Toribio sgusciò fuori dalle coperte, si vestì in fretta e furia con le solite brache di lana bianca e la solita giubba verde. Tirò le stringhe del corpetto con la borchia del leone d’oro e si allacciò la fusciacca rossa in vita. Poi si cinse la fronte con la fascia d’argento, diede un bacio ad Agasinda che ancora dormiva e si precipitò giù per le scale.

Ed eccolo là, in mezzo all’atrio, il monaco bizantino, vestito ora con il vecchio saio marrone.

“Forza, amico mio, dobbiamo ritornare lassù. Avevi capito ieri sera, no?”, domandò l’uomo dai dolci occhi color ambra e la bella fronte aperta sotto le frange di capelli castani.

“Certo… o meglio… quasi! Vuoi dunque che torniamo sul Picco Bianco?”.

“Esattamente là! Ricordi la pieve che volevi fondare? Bene, ora è tempo di terminare il lavoro. Forza, mangia la tua cialda cosparsa di miele e bevi il latte dall’orcio che ti sta portando Anna!”.

Toribio notò che la giovane serva si era già avvicinata con un vassoio pieno di pani caldi e un’anforetta. Proprio come sei mesi prima. “Anna, fedelissima ancella! Oggi mi ricordi quella mattina in cui io e mio padre partimmo per la guerra. Però, ahimè, oggi ci sono solo io… “, disse il giovane conte con tristezza. “Solo non lo sarete mai, signor Toribio. Su di me e la vostra gente potrete sempre contare. Vi abbiamo sempre amato tutti, fin da quando eravate un bambino. Vostro padre e vostra madre vi aiuteranno dal cielo. Non temete!”, rispose lei. Toribio allora le accarezzò le guance. “Sei sempre stata dolce con me, Anna. Ti devo gratitudine. Darò ordine che tu e Decio abbiate in dono il lodo di terra che sta davanti al bosco nuovo. Così potrete costruirvi una casa e crescere la vostra famiglia!”.

Valerio sembrò approvare contento quell’atto di generosità. Anna allora posò il vassoio e l’anfora per terra, si gettò in ginocchio e baciò le punte degli stivali del suo signore. “Grazie, padrone! E voi sarete sempre ospite gradito al nostro modesto tavolo!”. Toribio l’aiutò a rialzarsi e lei tornò ad offrirgli la colazione. “Se la nostra Chiesa vincerà il suo corso, un giorno ti dico che non vi saranno più servi né padroni, Anna mia, ma solo amore e rispetto per tutte le creature del mondo!”, aggiunse il giovane, mentre masticava una soffice cialda spalmata di miele.

Anna non sembrò capire quelle parole, ma Valerio sì. “Toribio, a volte mi soprendi! Se vuoi anche parlare come un vescovo, adesso, dimmelo! Di certo avrò bisogno d’aiuto per la prossima omelia!”, disse, cercando di scherzare su una profezia ancora inconcepibile per quei tempi. Gli altri due risero. “Bene, andiamo, sento già il gallo cantare!”, concluse il vecchio amico e, quasi bisbigliando, si lasciò scappare: “Però… che bel mondo sarebbe quello, eh?”.

Subito dopo, i due partirono al galoppo sui dorsi di Asfredo e Witisclo. E con un’insolita gaiezza di spirito quasi volarono tra le valli e i dirupi che li circondavano.

Tutt’intorno esplodevano i colori dell’autunno. Giallo, arancione, rosso, marrone, verde, viola. Le fronde dei pini e dei larici schiaffeggiavano insolenti le loro facce, ma i due non sembravano rendersene conto. Erano presi dalla voglia di tornare lassù. Proprio lassù, dov’era iniziata la loro storia tanti mesi prima. Giunti sulla balza che ben conoscevano, si lanciarono verso l’orlo per ammirare il panorama sottostante. Era ancora là, certo, il grande serpente verde: il Rio Ebro. Ed erano ancora là, le vette rosate dei monti cantabri e quelle azzurre, più lontane, dei monti delle Asturie.

I due si voltarono e spronarono i destrieri verso la radura che si stava aprendo sotto le fronde del bosco di larici. Ancora una volta un paio di falchi presero il volo, spaventati dal loro rumore.

Mai poi la sopresa tolse loro il fiato.

Lassù, in mezzo alla piana dove molti mesi prima avevano lasciato solo un vago perimetro, ora si ergeva una radiosa pieve bianca, con la pianta a forma di croce e una loggia con due campane sopra il tetto. I due strabuzzarono gli occhi. Ma l’ultimo miracolo della loro storia si era già compiuto. Le campane suonarono improvvisamente e in cima alla loggia si scorse un casco di cuoio con un ciuffo di penne di corvo e una fascia d’argento.

Toribio e Valerio si guardarono negli occhi. A quel punto udirono il ruggito di un leone. D’istinto volsero lo sguardo verso il cielo. Ma non videro nessun leone questa volta. Solo papà Hernando e mamma Goswinta salutarli con un gran sorriso, circondati da dodici angeli, tra i quali… il vecchio Giacomo dalla lunga barba bianca.

FINE -




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