Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
24. 
Sollievo e dolore si fondevano nell’anima tormentata di Mantos mentre si faceva 
largo tra le canne che crescevano ai bordi della palude. Zombie lo seguiva in silenzio. 
Da quando avevano abbandonato Murder e Silvietta nessuno dei due aveva più aperto 
bocca. 
Il leader delle Belve continuava a vederli lì, abbracciati, che li guardavano mentre 
loro andavano via. 
Gli tornarono in mente le parole profetiche di Kurtz Minetti. «Le Belve di Abaddon 
sono una realtà insignificante nel mondo del satanismo. Siete finiti». Non si era 
sbagliato, la situazione era disperata. Erano senza due elementi fondamentali del team e 
il piano per assassinare Larita faceva acqua da tutte le parti. E c’era un’altra cosa che 
non gli tornava. Perché Zombie si voleva suicidare? Perché non era andato con i suoi 
amici? Non stavano sempre insieme quei tre? Gli si era avvicinato come un serpente a 
sussurrargli di mollare i due. 
Non è che il simpatico Zombie, zitto zitto, è passato nelle file di Kurtz Minetti? 
Il sacerdote dei Figli dell’Apocalisse poteva averlo corrotto e incaricato di boicottare 
l’assassinio di Larita, per fargli fare una figura di merda con la comunità dei satanisti. E 
vendicarsi del suo no. Pure quella scenata che aveva fatto prima alla villa era strana. 
Mantos si fermò facendo finta di riprendere fiato. 
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– Tutto bene? 
Zombie, spossato dalla fatica, poggiò le mani sui fianchi e annui. Il volto era più 
olivastro del solito. 
Il leader delle Belve lo guardò dritto negli occhi. 
– Senti, vogliamo lasciar perdere? – Era una domanda trabocchetto per cercare di 
capire se il suo adepto era un infame traditore. – Forse dovremmo mollare pure noi… 
Stiamo facendo una stronzata. In due non ce la possiamo fare. E se poi, alla fine, non 
abbiamo il coraggio di suicidarci? Rischiamo solo di finire in galera. Se ce ne torniamo a 
casa ora, siamo salvi. 
Zombie riprese a camminare a testa bassa. – Io non mollo. Se vuoi fallo tu. 
– Ma perché? Non capisco perché improvvisamente ci tieni tanto a ’sta cosa. Di solito 
non te ne va bene una. Mi spieghi perché ora ti vuoi suicidare a tutti i costi? 
– Non mi va di parlarne. 
Mantos gli prese un braccio e lo fissò minaccioso. 
– No, invece ora me ne parli. 
– Lasciami – . L’adepto cercò di divincolarsi dalla stretta. 
– Dimmelo. Sono il tuo capo. Te lo ordino. 
Zombie deglutì e poi parlò con una voce distante. 
– Qualche notte fa mi sono svegliato di soprassalto, come se qualcuno mi avesse 
scosso un braccio. Pensavo fosse mio padre che mi diceva che mamma stava male. E 
invece tutti dormivano. Come al solito mi ero addormentato con la televisione accesa. E 
c’era una cosa di teatro, in bianco e nero. Roba vecchia. Quelle cose che mandano su 
Rai Tre alle quattro di notte. Ho preso il telecomando e stavo per spegnere quando 
l’attore, un vecchio con degli occhi in fuori e la frangetta, ha detto una cosa. Non avevo 
mai sentito niente del genere in vita mia e da quella notte tutto è cambiato, niente ha 
avuto più senso per me. 
Mantos era spiazzato. – E che ha detto? 
Zombie sembrava indeciso se rispondere, ma poi: – Lo vuoi sentire? 
– Sì. Certo. 
– L’ho imparato a memoria. Ho comprato il libro. Ma non l’ho mai recitato a nessuno. 
– Dài fammi sentire. 
– D’accordo – . Zombie allargò le gambe, come se ondate di dolore si stessero 
frangendo contro il suo corpo. Chiuse gli occhi, li riapri, guardò verso il cielo e 
cominciò a recitare con la voce rotta e zoppicante. – Da qualche tempo, non so perché, 
ho perso tutto il mio buonumore e ho abbandonato ogni esercizio. E in realtà son così 
giù d’umore che questo bell’edificio, la terra, mi sembra un promontorio sterile, questa 
volta d’aria stupenda, quello straordinario firmamento lassù, quel tetto maestoso 
trapuntato di fuochi d’oro, ebbene a me non pare che una massa lurida e pestifera di 
vapori. Che opera d’arte è l’uomo, com’è nobile nella sua ragione, infinito nelle sue 
capacità, nella forma e nel muoversi esatto e ammirevole, come somiglia a un angelo 
nell’agire, a un Dio nell’intendere: la beltà del mondo, la perfezione tra gli animali, 
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eppure, per me, cos’è questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi piace e nemmeno 
la donna. 
Mantos rimase in silenzio e poi gli domandò: – Ma chi lo ha scritto? 
Zombie tirò su con il naso. – William Shakespeare. È Amleto. Io sto peggio di lui. E 
per come sto potrei pure fare qualcosa di buono… Ci ho pensato… Ma è mille volte più 
difficile che fare qualcosa di malvagio. E francamente non me ne frega un cazzo di 
aiutare che ne so… i bambini africani. Mi stanno sulle palle come il resto dell’umanità e 
quindi preferisco farla finita ed essere ricordato come quel bastardo psicopatico che ha 
ammazzato Larita. E non ti dimenticare che questa cosa l’hai detta te per primo. È tutto 
molto semplice e… – Fece un respirone. – Triste. Comunque, se anche tu vuoi mollare 
non c’è problema, l’ammazzo io la cantante. Però, per favore, decidilo in fretta, le 
zanzare mi stanno dissanguando. 
Mantos si vergognò di aver pensato che Zombie potesse essere un traditore. Certo 
stava ridotto uno schifo, doveva aver smesso gli antidepressivi. – Zombie, ascoltami 
bene. Tra noi due non ci saranno più gradi. Non c’è più un capo e non c’è più un adepto. 
Uguali. Le Belve siamo io e te. Un duo. Tipo Simon & Garfunkel, per intenderci. 
Gli occhi di Zombie divennero lucidi. – Io e te. Uguali e insieme. Fino alla fine. 
– Uguali e insieme. Fino alla fine, – ripeté Mantos. 
Zombie guardò il cielo. – Ormai è notte. Io vado a sabotare la centrale elettrica. 
– Va bene. Io rapisco Larita e ci becchiamo al tempio di Forte Antenne. Stanotte c’è 
la luna giusta per farla finita.
25. 
Con un boato assordante un enorme pino secolare si abbatté sul bosco. Sotto il peso 
dell’albero si schiantarono lecci, querce, arbusti di alloro, e da terra si sollevò una 
nuvola di polvere e foglie da cui emerse, come un incubo primordiale, il grande elefante. 
Sotto le zampe della bestia lanciata al galoppo la terra tremava. Niente poteva fermarlo. 
Il suo cervello era ridotto a un semplice e primitivo impulso, correre. La sua famosa 
memoria era azzerata, e nella scala evolutiva era sprofondato negli abissi dove le sardine 
fuggono inseguite dai tonni. 
Non ricordava più la sua infanzia passata in una gabbia ambulante. Non ricordava più 
gli esercizi sulla pista del circo. Non ricordava più gli inchini, gli spruzzi ai pagliacci, 
non ricordava nemmeno le frustate e le patate. Non ricordava più nulla, il terrore lo 
aveva sopraffatto. Cos’era quel posto buio e inospitale? Cos’erano quei pali che 
sbucavano da terra? Quegli odori? Doveva solo fuggire, e rovi, tronchi caduti, cespugli, 
erbacce, nulla poteva fermare la sua corsa. Ogni tanto ripiegava la lunga proboscide e 
lanciando uno straziante barrito strappava un tronco da terra e lo gettava lontano. La 
gualdrappa colorata che lo copriva era ridotta a brandelli e da un lungo squarcio su un 
fianco colava sangue sugli arti posteriori. Un ramo gli si era conficcato come un arpione 
nella spalla destra. Sbatteva la testa, un occhio pesto e l’altro spalancato che roteava la 
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pupilla pazza, si faceva largo nel muro della vegetazione. 
La cesta, semidistrutta, era ancora legata alla groppa ma pendeva sbilenca su un 
fianco. Dentro, Fabrizio e Larita, aggrappati alle cinghie dell’imbracatura, urlavano 
altrettanto spaventati. 
La bestia scartò una quercia e per poco non inciampò su una radice spessa quanto un 
anaconda, ma si riprese e ricominciò a galoppare gettandosi dentro un roveto. Saltò un 
fosso, fece un passo, un altro ancora e improvvisamente sentì la terra mancarle sotto i 
piedi. L’occhio folle smise di roteare, spalancò la bocca per la sorpresa e agitando le 
zampe e la proboscide cadde in silenzio per un precipizio coperto di vegetazione. Volò 
verso il fondo del burrone per una ventina di metri, sbatté con la testa su una guglia di 
roccia, rimbalzò, si ribaltò e s’incastrò fra due alberi che spuntavano come una forchetta 
sopra il baratro. 
L’animale, con la colonna vertebrale spezzata, a pancia all’aria, si dibatteva cacciando 
terribili strilli di dolore, sempre più deboli. 
Fabrizio fu sbattuto fuori dalla cesta e si ritrovò anche lui a cadere nel buio tutto 
scomposto, rimbalzando tra rami, liane e cordoni d’edera e si schiantò tra le radici ritorte 
di una quercia appesa al muro di roccia. 
Un istante dopo Larita gli finì addosso e scivolò verso il precipizio. 
Lo scrittore allungò un braccio e la afferrò per il bavero della giacca un istante prima che 
finisse di sotto. Il peso lo tirò giù e una fitta di dolore al tricipite gli strappò il fiato dai 
polmoni. 
Larita, sospesa in aria, si agitava e guardava in basso urlando: – Aiuto! Aiuto! 
– Stai ferma! Stai ferma! – implorava Ciba. – Se ti muovi non ti reggo. 
– Aiutami! Ti prego, aiutami. Non mi mollare. Ciba chiuse gli occhi cercando di 
riprendere fiato. I bicipiti vibravano per la tensione. – Non ce la faccio. Aggrappati a 
qualcosa. 
Larita allungò una mano verso un fascio di edera che serpeggiava fra le rocce. – Non 
ci arrivo! Non ci arrivo, cazzo! 
– Ti devi allungare, non ce la faccio più… – Ciba aveva la faccia paonazza e il cuore 
gli rimbombava nei timpani. Non doveva guardare giù, c’erano almeno trenta metri di 
caduta libera. 

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