Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

Internazionale di Fiano Romano ne avevano pochi tipi ed erano pure secchi. E facevano 
il grave errore di scaldarli nel fornetto elettrico e non dentro la piastra. Anche se, va 
detto per inciso, solo in presenza di prosciutto o prodotti caseari quali mozzarella e 
formaggio dolce si richiede l’utilizzo della piastra rovente.
Tutti gli raccontavano che a Roma i tramezzini erano un’altra cosa. Ti si scioglievano 
in bocca ed erano sempre freschi. Li tenevano nascosti sotto fazzoletti bagnati che ne 
mantenevano il giusto grado di umidità. Saverio immaginava la capitale come una città 
dove le case erano a forma triangolare e dovunque per la strada c’erano dei lunghi 
espositori di tramezzini. 
Per il suo compleanno aveva chiesto a suo padre di portarlo a Roma a mangiare quelle 
delizie. E suo padre, per una volta, lo aveva accontentato. Anzi aveva esagerato. Sotto 
consiglio dello zio Aldo, che lavorava al ministero della Pubblica istruzione, lo aveva 
portato alla Casa del Tramezzino su viale Trastevere, angolo piazza Mastai.
Quando il piccolo Saverio Moneta aveva fatto il suo ingresso in quel tempio culinario 
si era commosso. Davanti a lui si paravano muraglie di tramezzini custoditi dietro teche 
di cristallo. Si andava dal semplice prosciutto e mozzarella a quello con salsiccia, 
maionese e indivia belga. Pesce persico, rucola e stracchino. Carpaccio di agnello, salsa 
rosa e capesante. A uno, a due, a tre strati. Fino al Club Sandwich Ambassador Gran 
Royal. Una belva a dodici piani in cui venivano stipati sessantacinque ingredienti. 
«Hai tremila lire a disposizione. Non le sprecare. Scegli bene», gli aveva detto suo 
padre. 
Il ragazzino correva impazzito da un capo all’altro del locale senza riuscire a prendere 
una decisione. Le mani gli sudavano e lo stomaco gli si chiudeva. Alla fine era uscito 
fuori con le banconote intatte. 
E così anche adesso, in mezzo a quegli stacchi di coscia vertiginosi, quelle labbra 
tumide come totani in umido, quei seni tondi come cupole del Brunelleschi, Mantos 
arretrò nauseato e si accorse di una brunetta che si aggirava un po’ sperduta tra quei 
supereroi. 
Larita… 
Sembrava una studentessa universitaria, con quella gonna scozzese, la giacca nera e la 
camicetta bianca. 
Mantos iniziò una manovra di avvicinamento mentre Sasà Chiatti continuava a parlare 
dal palco. 
– … Abbiamo voluto strafare per farvi divertire… Ci sono tre cacce diverse. Alla 
volpe, alla tigre e al leone. La caccia alla volpe però è riservata a chi sa montare bene a 
cavallo. E sarà eseguita secondo le antiche regole del duca di Beaufort. Una muta di 
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trenta beagle è pronta nei canili. Per questa caccia la divisa è di rigore: giacca rossa, 
nera, in tweed o in pied-de-poule, cravatta bianca, guanti bianchi, pantaloni chiari e 
ovviamente stivali e cap. 
Dal pubblico si levò un brusio. Gli invitati si osservavano a vicenda scuotendo la 
testa. – Ma come facciamo? – È una follia. – Non abbiamo i vestiti. 
L’immobiliarista li rassicurò. – Tranquilli, guaglio’! È tutto a posto, non vi agitate. Lo 
stilista Ralph Lauren ha generosamente offerto l’abbigliamento per le cacce. Dietro la 
villa c’è un accampamento dove le gentili signore e i gentili signori potranno trovare 
tutto l’occorrente per prepararsi. Le tende rosse sono quelle per la caccia alla volpe, 
quelle arancioni per la caccia alla tigre e quelle beige per la caccia al leone. Dopo, se 
desiderate, i vestiti potete portarveli a casa. 
– Chiatti, sei un signore! – urlò qualcuno. – Ralph sei un grande! – fece un altro. 
Mantos era arrivato a pochi metri dalla cantante. A braccia incrociate Larita guardava 
il palco un po’ annoiata. Era piccoletta, ma era ben proporzionata. E sembrava che non 
c’entrasse nulla là in mezzo. 
Uno spilungone con una barba nera e gli occhiali da sole, vestito con un giubbotto di 
pelle consunto, gli stivali da cowboy di pitone, i jeans logori e una camicia a quadri di 
flanella, le si era appiccicato e continuava a ridere e mollarle gomitate, come se si 
conoscessero da una vita. Lei però non sembrava divertirsi altrettanto. 
Mantos era certo che il cowboy fosse uno famoso. Li dentro non c’erano molte 
possibilità: o eri vip o eri cameriere. Aveva tutta l’aria del musicista rock. 
I gusti del leader delle Belve di Abaddon spaziavano tra generi musicali diversi: dai 
Carmina Burana di Orff a Wagner, dai Popol Vuh ai Dead Can Dance e non ultimo 
Billy Joel. La musica italiana non la tollerava. 
Quando il cowboy si tolse il cappelletto per sventolarlo verso Chiatti, Mantos vide la 
bandana con la bandiera della pace. 
Era il distintivo di Cachemire, il cantante del gruppo anconetano di rock metal 
Animai Death. Gli idoli di Murder e Zombie. 
Cachemire fece un segno a Mantos. – Ohi! Cameriere, vieni qui. 
Mantos fu costretto a girarsi. – A me? 
– Sì, a te. Vieni qui. 
Il leader delle Belve si avvicinò a testa bassa. Porse il vassoio con l’ultimo bicchiere 
di Champagne. 
– Ce l’hai una birretta? 
– No, mi dispiace. 
– E non è che me ne vai a prendere una? Anzi fai una bella cosa, portami direttamente 
una cassa. 
Mantos fece segno di si. 
Larita diede una pacca sulla spalla al cantante. – Io vado a fare un giretto. Ci vediamo 
dopo. 
Il leader delle Belve si sorprese della voce di Larita. Era rauca e profonda. Sulla nuca, 
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sotto i capelli corti, aveva tatuate due piccole ali d’angelo. 
È li che cadrà la Durlindana. 
– Va bene, – fece il cowboy. – A che caccia vai tu? Io sono indeciso. 
– Non ci vado. Odio queste cose – . Larita si allontanò, seguita a qualche metro da 
Saverio che bestemmiava in silenzio. 
La stronza non partecipava alle cacce. Questa proprio non ci voleva. La sfiga 
continuava ad accanirsi su di lui. 
La cantante, di colpo, gli si avvicinò: – Scusi, non ha visto Ciba… Fabrizio Ciba? Chi 
cazzo è Ciba? 
Mantos aveva la lingua paralizzata e l’unica cosa che riuscì a fare fu sollevare le 
spalle. 
Larita sembrava stupita della sua ignoranza. – Lo scrittore! Non lo conosce? Quello 
che prima ha letto la poesia sul palco. 
– No, mi spiace. 
– Non importa. Grazie lo stesso – . Larita si allontanò tra gli invitati. 
Silvietta aveva ragione, quella troia era un’animalista. E ora come la rapivano? 
Mantos buttò giù l’ultima coppa di Champagne.

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