1. controllare chi erano le autorità presenti; 2. capire chi era la dea che gli sedeva
accanto; 3. riflettere su cosa dire.
La prima operazione la svolse rapidamente. In seconda fila c’era la Martinelli al gran
completo: Federico Gianni, l’amministratore delegato, Achille Pennacchini, il direttore
generale, Giacomo Modica, il direttore delle vendite, e una schiera di editor tra cui Leo
Malagò. Poi tutto il gineceo dell’ufficio stampa. Se aveva schiodato il culo da Genova
pure Gianni, voleva dire che al libro dell’indiano ci tenevano. Chissà, forse speravano di
venderne qualche copia.
In prima fila riconobbe l’assessore alla cultura, un regista televisivo, un paio di attori,
una sfilza di giornalisti e altre facce viste mille volte ma non sapeva dove e quando.
Sul tavolo c’erano i cartellini con i nomi dei partecipanti. La dea si chiamava Alice
Tyler. Mormorava nell’orecchio di Sarwar Sawhney la traduzione del discorso di
Tremagli. Il vecchio, ad occhi chiusi, faceva si con la testa con la regolarità di una
pendola. Fabrizio aprì il romanzo dell’indiano e scopri che la traduzione era di Alice
Tyler. Quindi non era solo la traduttrice della serata. Incominciò seriamente a pensare di
aver trovato la donna della sua vita. Bella come Naomi Campbell e intelligente come
Margherita Hack.
15
Da qualche tempo Fabrizio Ciba aveva preso in considerazione la possibilità di
costruire una relazione stabile con una donna. Questo, forse, poteva aiutarlo a
concentrarsi sul nuovo romanzo, fermo al secondo capitolo da tre anni.
Alice Tyler Alice Tyler? Dove aveva sentito quel nome?
Per poco non cadde dalla sedia. Era la stessa Alice Tyler che aveva tradotto Roddy
Elton, Irvin Parker, John Quinn e tutta la genia degli scrittori scozzesi.
Lì avrà conosciuti tutti! Sarà andata a cena con Parker che poi se la sarà scopata in
uno squat londinese, tra cicche spente sulla moquette, siringhe usate e lattine di birra
vuote.
Un dubbio atroce. Ma avrà letto i miei libri? Doveva saperlo ora, subito,
immediatamente. Era un bisogno fisiologico. Se non ha letto i miei libri e non mi ha
visto in televisione, potrebbe pensare che io sia uno qualsiasi, scambiarmi per uno di
quei mediocri scrittori che campano di presentazioni ed eventi culturali. Tutto ciò era
insostenibile per il suo ego. Qualsiasi rapporto paritario, dove lui non era la star, gli
provocava sgradevoli effetti secondari: secchezza delle fauci, vertigini, vomito e diarrea.
Per corteggiarla avrebbe dovuto contare solo sulla sua avvenenza, sulla sua tagliente
ironia, sulla sua imprevedibile intelligenza e non sulle sue opere. E meno male che non
prendeva in considerazione l’ipotesi che Alice Tyler le avesse lette e le avesse trovate
brutte.
E arrivò all’ultimo punto, quello più spinoso: di cosa avrebbe parlato dopo lo
sproloquio del vecchio trombone? Nelle settimane passate, un paio di volte, Ciba aveva
provato a leggere il tomone indiano ma dopo una decina di pagine aveva acceso la
televisione e si era guardato i campionati di atletica. La buona volontà ce l’aveva messa,
ma era un libro di una noia mortale, da lessare le palle. Aveva chiamato un suo amico…
un suo fan, uno scrittore di Catanzaro, uno di quegli esseri insulsi e servili che gli
ronzavano intorno cercando, come scarafaggi, di nutrirsi delle briciole della sua
amicizia. Questo qui però, al contrario di altri, era dotato di un certo spirito analitico, di
una, per certi versi, frizzante capacità creativa. Uno che forse, in un futuro indefinito,
avrebbe fatto pubblicare dalla Martinelli. Ma per ora a questo amico di Catanzaro
affidava compiti secondari, quali scrivergli l’articolo per il settimanale femminile,
tradurre un testo dall’inglese, fare ricerche in biblioteca e, come in questo caso, leggersi
il bestione e comporgli un bel riassuntino critico che lui poi, in un quarto d’ora, avrebbe
fatto suo.
Ciba tirò fuori dalla giacca, cercando di non dare troppo nell’occhio, le tre paginette
scritte dall’amico.
Fabrizio, in pubblico, non leggeva mai. Parlava a braccio, si faceva ispirare dal
momento. Era famoso per questo talento, per la magica sensazione di spontaneità che
regalava ai suoi ascoltatori. La sua mente era una fucina aperta ventiquattro ore su
ventiquattro. Non c’era filtro, non c’era deposito, e quando partiva con i suoi monologhi
affascinava tutti: dal pescatore di Mazara del Vallo al maestro di sci di Cortina
d’Ampezzo.
16
Ma quella sera l’attendeva un’amara sorpresa. Lesse le prime tre righe del riassunto e
impallidì. Parlava di una saga familiare di musicisti. Tutti costretti, per un
imperscrutabile destino, a suonare il sitar per generazioni e generazioni.
Agguantò il libro dell’indiano. Il titolo era La congiura delle vergini. E allora perché
nel riassunto si parlava di Una vita nel mondo?
Un terribile sospetto. L’amico di Catanzaro si era sbagliato! Quel testa di cazzo aveva
toppato libro.
Divorò disperato la quarta di copertina. Non si parlava per niente di suonatori di sitar,
ma di una famiglia di donne nelle isole Andamane.
In quel momento Tremagli terminò il monologo.
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