2.
A una cinquantina di chilometri dalla pizzeria Jerry2, a Roma, la capitale d’Italia, una
vespetta tre marce arrancava sulla salita di Monte Mario. In sella c’era il noto scrittore
Fabrizio Ciba. Lo scooter si fermò al semaforo e al verde imboccò via della Camilluccia.
Dopo due chilometri frenò di fronte a un cancello di ferro spalancato. Accanto era
appesa una targa in ottone con su scritto: «Villa Malaparte».
Ciba mise la prima e stava per affrontare la lunga salita ricoperta di ghiaia che portava
alla dimora quando gli si parò davanti un primate strizzato dentro un completo di
flanella grigia. – Scusi! Scusi lei! Dove va? Ha l’invito?
Lo scrittore si tolse il casco a forma di scodella e cominciò a cercare nelle tasche della
giacca stropicciata. – No… non credo di averlo… Devo essermelo dimenticato.
L’uomo si piazzò a gambe larghe. – E allora non può entrare.
– Sono stato invitato a…
Il buttafuori cacciò un foglio e inforcò dei piccoli occhiali da vista con la montatura
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rossa. – Come ha detto che si chiama?
– Non l’ho detto. Ciba. Fabrizio Ciba.
Il tipo cominciò a scorrere con l’indice l’elenco degli invitati facendo segno di no con
la testa.
Non mi ha riconosciuto. Fabrizio non si seccò più di tanto. Era ovvio che il primate
non praticava la letteratura ma, porca la puttana, la televisione non la guardava? Ciba
conduceva una trasmissione chiamata Delitto & Castigo tutti i mercoledì sera su Rai Tre
proprio per casi come questo.
– Mi dispiace. Il suo nome non risulta nella lista.
Lo scrittore era li per presentare il nuovo romanzo, Una vita nel mondo, del premio
Nobel per la letteratura Sarwar Sawhney pubblicato dalla Martinelli, la sua stessa casa
editrice. All’età di settantatre anni e con due libri alti come il manuale di Diritto privato
alle spalle, Sawhney aveva ricevuto il premio dell’accademia svedese. Ciba avrebbe
diviso gli onori di casa con Gino Tremagli, titolare della cattedra di Letteratura anglo–
americana alla Sapienza di Roma, ma il vecchio trombone era stato chiamato solo per
dare un’impronta di ufficialità all’evento. Toccava a Fabrizio sviscerare gli arcani
segreti racchiusi in quel romanzone e darli in pasto al pubblico romano, notoriamente
assetato di cultura.
Ciba cominciava a scocciarsi sul serio. – Ascoltami. Se lasci perdere quella lista e
guardi l’invito, il cartoncino bianco di forma rettangolare che sfortunatamente io non ho,
troverai il mio nome, essendo io il presentatore della serata. Se vuoi me ne vado. Ma
quando mi chiederanno perché non sono venuto, dirò che… Com’è che ti chiami?
Fortunatamente si materializzò una hostess con un caschetto biondo e un tailleur blu.
Appena vide sulla vespa d’epoca, con quel ciuffo ribelle e quegli occhioni verdi, il suo
autore preferito, per poco non finì a terra. – Fallo passare! Fallo passare! – strillò con
una vocina acuta. – Non vedi chi è? È Fabrizio Ciba! – Poi sulle gambe irrigidite
dall’emozione raggiunse lo scrittore. – Mi dispiace tantissimo. Oddio che figuraccia
terribile! Sono mortificatissima! Mi ero assentata un attimo e lei è arrivato così… Mi
dispiace, come mi dispiace… Sono…
Fabrizio elargì un sorrisetto soddisfatto alla ragazza.
La hostess guardò l’orologio. – È tardissimo. La staranno aspettando tutti. Vada, vada,
la prego – . Diede uno spintone al buttafuori e mentre Fabrizio passava urlò: – Dopo, mi
firmerebbe il libro?
Ciba lasciò la vespa nel parcheggio e si incamminò verso la villa con il passo leggero
del mezzofondista.
Un fotografo, mimetizzato nelle siepi di alloro, sbucò sul viale alberato e gli corse
incontro. – Fabrizio! Fabrizio, ti ricordi di me? – Cominciò a seguirlo. – Abbiamo
mangiato insieme a Milano in quell’osteria… La compagnia dei naviganti… Ti ho
invitato nel mio dammuso a Pantelleria e tu hai detto che forse saresti venuto…
Lo scrittore sollevò un sopracciglio e squadrò quella specie di fricchettone
spelacchiato coperto di macchine fotografiche. – Certo mi ricordo… – Non aveva idea di
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chi diavolo fosse. – Solo che è tardi, scusami. Un’altra volta. Mi aspettano…
Il fotografo insisteva: – Senti Fabrizio, mentre mi lavavo i denti ho avuto un’idea
molto forte: vorrei farti un paio di scatti in una discarica abusiva…
Sul portone di Villa Malaparte l’editor Leopoldo Malagò e la responsabile delle
relazioni pubbliche della Martinelli, Maria Letizia Calligari, gli facevano segno di
affrettarsi.
Il fotografo arrancava con quei quindici chili di attrezzatura appesa al collo, ma non
mollava. – È una cosa insolita… forte… la monnezza, i topi, i gabbiani… Capisci? Il
«Venerdì di Repubblica»…
– Un’altra volta, scusami – . E si gettò tra i due.
Il fotografo, esausto, si piegò premendosi la milza. – Ti posso chiamare nei prossimi
giorni?
Lo scrittore non si diede pena di rispondergli.
– Fabrizio, sei il solito… L’indiano è arrivato un’ora fa. Quel rompiballe di Tremagli
voleva cominciare senza di te – . Malagò lo spingeva verso il salone mentre la Calligari
gli infilava la camicia nei pantaloni borbottando: – Guarda come sei vestito! Sembri uno
straccione. La sala è piena. C’è pure il sindaco. Tirati su la zip.
Fabrizio Ciba aveva quarantun anni, ma era per tutti il giovane scrittore.
Quell’aggettivo, regolarmente ripetuto dalla stampa e dagli altri mezzi di
comunicazione, aveva un effetto taumaturgico sul suo fisico. Fabrizio non dimostrava
più di trentacinque anni. Era magro e tonico senza fare palestra. Si ubriacava ogni sera,
ma la pancia gli era rimasta piatta come una tavola.
Tutto il contrario del suo editor, Leopoldo Malagò detto Leo. Malagò aveva
trentacinque anni e ne dimostrava, a essere gentili, dieci di più. Aveva perso i capelli in
tenera età ma una lanugine sottile gli era rimasta attaccata al cranio. La colonna
vertebrale gli si era torta seguendo la conformazione di una sedia di Philippe Stark, su
cui passava dieci ore al giorno. Le guance gli si erano afflosciate e coprivano come un
pietoso sipario il triplo mento. La barba che si era astutamente fatto crescere non era così
folta da nascondere quella regione montuosa. Aveva il ventre dilatato come se glielo
avessero gonfiato con un compressore. La Martinelli non badava a spese per quanto
riguardava il nutrimento dei suoi editor. Grazie a una speciale carta di credito, potevano
sfondarsi nei migliori e più costosi ristoranti, invitando scrittori, imbrattacarte, poeti e
giornalisti ad abboffate di lavoro. Il risultato di questa politica era che gli editor della
Martinelli erano una banda di buongustai obesi, con costellazioni di molecole di
colesterolo che gli navigavano indisturbate nelle vene. Insomma Leo, nonostante gli
occhialetti di tartaruga e la barba, che lo facevano assomigliare a un sefardita
newyorchese, e i morbidi completi color verde palude, per le sue conquiste amorose
doveva contare sul suo potere, sulla sua spregiudicatezza e sulla sua ottusa insistenza.
Questo non valeva per le donne della Martinelli. Arrivavano alla casa editrice come
scialbe segretarie e negli anni della militanza miglioravano costantemente grazie a
enormi investimenti sulla loro persona. A cinquant’anni, soprattutto se avevano ruoli di
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rappresentanza, erano diventate delle algide strafighe senza età. Maria Letizia Calligari
ne era un esempio emblematico. Nessuno sapeva quanti anni avesse. Chi diceva che ne
avesse sessanta portati bene, chi trentotto portati male. Non aveva mai documenti
d’identità con sé. Le malelingue bisbigliavano che non guidava per non avere la patente
nella borsa. Prima del trattato di Schengen andava alla fiera di Francoforte da sola, per
non mostrare il passaporto. Ma un errore, una volta, lo aveva commesso. Una sera, al
Salone di Torino, si era lasciata sfuggire di aver conosciuto Cesare Pavese.
– Mi raccomando, Fabrizio, non aggredire subito il povero Tremagli, – lo pregò Maria
Letizia.
– Vai, forza. Spacca il culo ai passeri – . Malagò spinse Fabrizio verso il salone delle
conferenze.
Quando entrava nell’arena, Ciba aveva un trucco per caricarsi. Pensava a Muhammad
Ali, il grande pugile, a quando urlava e avanzava verso il ring incitandosi: «Lo
distruggo! A quello li non gli do neanche il tempo di vedermi che è già steso al tappeto».
Fece due saltelli sul posto. Si sgranchì il collo. Si scompigliò i capelli. E carico come
una pila entrò nella grande sala affrescata.
3.
Il leader delle Belve di Abaddon era al volante della sua Ford Mondeo nel traffico che
avanzava verso Capranica. Su quel tratto di strada i centri commerciali rimanevano
aperti fino a tardi e c’erano sempre rallentamenti. In genere stare in fila a Saverio non
dava fastidio, era l’unico momento della giornata in cui poteva pensare ai fatti suoi in
santa pace. Solo che adesso era in ritardissimo. Serena lo aspettava per cena. E doveva
pure passare in farmacia a prendere gli antipiretici per i gemelli.
Ripensava al raduno. Peggio di così non sarebbe potuto andare e, come sempre, si era
messo nei casini da solo. Perché aveva detto alle Belve che se non portava un progetto
entro una settimana scioglieva la setta? Non aveva uno straccio di idea e per pianificare
un’azione satanica, si sa, ci vuole tempo. Nell’ultimo periodo aveva cercato di farsi
venire in testa una missione, ma nulla. Al mobilificio, il mese degli affaroni era stato un
massacro. Dalla mattina alla sera chiuso là dentro con il vecchio che ti stava sopra
appena cercavi di respirare un po’.
Un’ideuzza in realtà gli era venuta: profanare il cimitero di Oriolo Romano. Sulla
carta era una bella azione. Se fatta nel modo giusto, poteva uscire fuori una cosa
veramente carina. Ma riflettendoci meglio aveva deciso di abbandonarla. Intanto di
fronte al cimitero era un viavai di macchine che non finiva più, quindi si doveva entrare
a tarda notte. Il muro di cinta era alto più di tre metri e cosparso di cocci di bottiglia.
Fuori dai cancelli si davano appuntamento bande di adolescenti e qualche volta si
aggiungeva pure un camioncino che vendeva la porchetta. All’interno del camposanto ci
viveva il custode, un ex carabiniere fuori di testa. Bisognava essere silenziosi ma a
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scoperchiare lapidi, tirare fuori le casse, prendere le ossa e impilarle un po’ di rumore,
inevitabilmente, si fa. Saverio aveva anche pensato di crocifiggere l’ex carabiniere a
testa in giù sul mausoleo dei Mastrodomenico, la famiglia di sua moglie. Troppi casini.
Il cellulare cominciò a squillare. Sul display apparve: SERENA.
Saverio Moneta aveva sparato la solita balla: la partita del torneo di Dungeons &
Dragons. Era oramai da tempo che per nascondere le sue attività sataniste le raccontava
di essere un campione di giochi di ruolo. La storia non avrebbe retto ancora a lungo.
Serena era sospettosa, continuava a fargli un mucchio di domande, voleva sapere con chi
giocava, se aveva vinto… Per farla stare più tranquilla, una volta, aveva organizzato a
casa una finta partita con le Belve. Ma quando sua moglie aveva visto Zombie, Murder e
Silvietta, invece di tranquillizzarsi era diventata ancora più sospettosa.
Fece un respiro e rispose al telefonino. – Amore, lo so, sono in ritardo, ma sto
arrivando. C’è un traffico tremendo. Ci deve essere stato un incidente.
Serena gli rispose con la solita delicatezza. – Ahò, ma che ti sei bevuto il cervello?
Saverio sprofondò nel sedile della Mondeo. – Perché? Che ho fatto?
– Qua c’è uno della
DHL
con un pacco enorme. Vuole trecentocinquanta euro. Dice che
è per te. Ma che, devo pagare?
Do'stlaringiz bilan baham: |