21. Caccia
Fabrizio Ciba da giovane era stato un discreto velista. Aveva attraversato l’Adriatico
su un catamarano e con un due alberi era arrivato fino a Ponza. Durante queste crociere
aveva affrontato buriane e tempeste e mai, nemmeno una volta, aveva sofferto il mare.
Ora invece, dentro quella cazzo di cesta in groppa all’elefante, aveva una nausea
furibonda. Si teneva ai bordi della portantina e sentiva nello stomaco le tartine alla
granseola e i rigatoni navigargli nel Jim Beam.
Non ci voleva. Proprio adesso che poteva stare un po’ con Larita si sentiva uno schifo.
La cantante lo scrutò. – Ti vedo un po’ pallido. Ti senti bene?
Lo scrittore ingoiò un rutto acido. – No, nulla, solo un po’ di mal di te… – Non riuscì
a finire la frase perché gli arrivò sulla nuca la canna del fucile del dottor Cinelli.
Ciba si girò verso il vecchio. – E basta! È la terza volta che me lo dà in testa. Stia un
po’ attento.
Il vecchio, nella sua perfetta sordità, non se lo filò di pezza e continuò a sventolare
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l’arma a destra e sinistra puntandola contro la boscaglia che premeva sulla carovana.
Che stronzata abbiamo fatto a dar retta a Chiatti.
Non solo erano stipati in quattro in quel metro quadrato basculante con un
rincoglionito, ma il loro elefante era anche in testa alla carovana e quindi bisognava
stare attenti pure ai rami bassi. Ma c’era un tormento più sottile che angustiava lo
scrittore. Aveva la sensazione di avere perso un po’ di smalto e di non essere brillante
come al solito. Forse la promessa di rivedersi, Larita l’aveva fatta per gentilezza, così
come aveva accettato di partecipare alla caccia per non essere scortese con Chiatti.
Incredibile, gli pareva di essere tornato l’adolescente imbranato del liceo. A quei tempi
non era il Ciba intraprendente e sfrontato di oggi, il vecchio pattinatore, il cecchino, ma
un ragazzetto maldestro con un cespo di capelli arruffati e gli occhiali da vista, che si
nascondeva dentro enormi maglioni slabbrati e pantaloni impataccati. Ogni volta che
cercava di rimorchiarsi una ragazza era una tragedia. Costruiva piani complicatissimi per
arrivare a conoscerla nel modo che sembrasse più naturale possibile. Odiava mostrare i
suoi sentimenti, apparire debole, quindi voleva che fossero sempre loro a fare la prima
mossa. Si appostava sotto il portone della preda e faceva finta di essere lì per caso. La
ignorava di proposito o la trattava male sperando di attirare la sua attenzione.
Immaginava dialoghi brillanti alla Woody Alien dove lui sarebbe risultato un adorabile
sfigato.
Adesso, di fronte a Larita, si sentiva impacciato e maldestro come ai tempi della sua
adolescenza.
– Abbassati! – urlò la cantante.
Ciba piegò la testa ed evitò per un pelo un ramo che tagliava in due il sentiero. Cinelli
lo prese in pieno volto, perse gli occhiali e roteò su se stesso infilando la punta del fucile
sotto l’ascella di Fabrizio.
– Ahia porca… La deve fare finita con ’sto coso! – Lo scrittore glielo strappò dalle
mani. – È pure carico. Se le parte un colpo mi ammazza!
Il ragazzo prese le difese del nonno. – Chi si crede di essere lei? Bel coraggio! Se la
prende con una persona anziana?
Larita offri un fazzoletto al nipote. Il ragazzo cominciò a tamponare i graffi sulla
faccia del vecchio che, stoico, non si lamentava.
Da dietro qualcuno urlò: – Ahò! E dateve ’na mossa! Pare di stare a un corteo
funebre.
Ciba si girò verso l’elefante che li seguiva. Sul cesto c’erano Paco Jiménez de la
Frontera e Milo Serinov con le loro donne.
Fabrizio fece segno di stare calmi. – E che è colpa nostra? È l’indiano che guida.
– Ma quale indiano, è filippino. E comunque digli di darsi una mossa, – disse
Mariapia Morozzi, l’ex velina fidanzata del portiere russo.
Larita si girò. – Non lo vedete che è un elefante? Se volevi correre dovevi fare la
caccia alla volpe.
– ¡Yo te quiero, señorita! ¡Por la virgen de Guadalupe! Movete quel culone! – urlò il
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calciatore argentino. Aveva lo sguardo fisso e il sorriso stirato di chi fa abuso di cocaina.
Ciba intervenne a difendere l’onore della ragazza: – Ahò bello! Stai buono. Non essere
maleducato!
– Desculpe es un gioco… – Paco Jiménez si fece una risata nervosa baciando la sua
fidanzata Taja Testari.
Dal terzo elefante una voce gridò: – Scusate? Qualcuno ha una Travelgum? – Era
Fabiano Pisu, il famoso attore di fiction. Verde come un fagiolino, teneva gli occhi
sgranati. Con lui c’erano il fidanzato, lo stilista magrebino Khaled Hassan, il capo della
fiction Rai Ugo Maria Rispoli e l’agente cinematografico Elena Paleologo Rossi Strozzi.
– Allora? Qualcuno ha una Travelgum?
– No… Ho un Mars, – fece Milo.
Nella cesta del quarto pachiderma dovevano esserci Cachemire e i suoi Animal Death,
il gruppo rock metal di Ancona rivelazione del festival di Castrocaro. Ma la cesta
sembrava vuota. Sbucava solo un anfibio. I quattro erano sottocoperta, cotti dall’alcol e
da una miscela di psicofarmaci.
Vi odio tutti, si disse Fabrizio Ciba.
Si sentiva vulnerabile e confuso come un extracomunitario nell’ufficio permessi della
questura. Era in una gabbia, in groppa a quell’elefante. Il suo segreto era starsene
abbastanza vicino alla vita, in modo da poter osservare l’orrore dell’umanità con
sarcasmo, ma mai dentro. Ora invece era in mezzo a quel circo e non si sentiva diverso
da quei pagliacci. Stava pure facendo una pessima figura con Larita. Era meglio
rimanere zitto, in un atteggiamento riflessivo da scrittore.
Si mise a osservare con aria pensosa la nuca del filippino che continuava a scudisciare
il collo della bestia. Il viottolo era sempre più stretto e buio, tracce della tigre non se ne
vedevano. Gli ultimi raggi di sole tagliavano il sottobosco e si sentivano strani richiami,
non si capiva nemmeno se fossero uccelli o scimmie.
Un lamento flebile arrivò dal terzo elefante. Il volto di Pisu aveva assunto un colore
terra di Siena.
– Dài, vi prego, datemi una… Travelgum… un cerotto… una banana… sto morendo.
– Aridanghete! – gli rispose spazientita la fidanzata del russo. – Sei duro eh? Non ce
l’abbiamo.
– Voi scherzate ma io… – Il disgraziato non riuscì a finire la frase perché dalla bocca
gli uscì un fiotto di vomito giallo che si rovesciò sul collo del conducente dell’elefante.
Il filippino si girò. – Mortacci tua! – disse e scrollò dal turbante l’insalata di totanelli e
fasolari. – Che schifo! – E con uno scatto di polso mollò una scudisciata in faccia
all’attore di fiction.
– Ahhhh! – urlò Fabiano mentre caracollava fuori dalla cesta andandosi a schiantare
in un’enorme pozzanghera ai piedi dell’elefante.
– Hombre in mare! – urlò Paco Jiménez de la Frontera.
A parte Khaled Hassan, che si sbracciava verso il compagno atterrato, a nessuno
fregava più di tanto del destino del povero Pisu. Gli elefanti intanto, nella loro antica
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saggezza, continuarono la lenta marcia abbandonando alla mercé delle bestie del parco
l’interprete della Marchesa di Cassino.
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