Associazione Amici Di Diego Are
Via San Giovanni Bosco 14, 09075 Santu Lussurgiu
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Incontro sul tema:
Diego Are e L’Istituto “Carta-Meloni” di Santu Lussurgiu
Santu Lussurgiu
Sala “Pietro Paolo Carta” dell’Istituto Carta Meloni, via San Giovanni Bosco
2 gennaio 2002, ore 16.30
Ins. Francesco Porcu
L’istruzione in Sardegna nell’Ottocento
Prof. Luciano Carta
I fratelli Carta di Santu Lussurgiu e l’utopia di una Sardegna migliore
Salvatore Are e Salvatore Tola
Diego Are storico e continuatore dell’istruzione superiore a Santu Lussurgiu
Con la collaborazione dell’Albergo Diffuso e Ristorante Sas Benas
Santu Lussurgiu, piazza San Giovanni, telefono 0783/550870
Luciano Carta
I fratelli Carta di Santu Lussurgiu e l’utopia di una Sardegna migliore1
1. Il tema che mi accingo a svolgere nell’incontro odierno, dedicato al ricordo di Diego Are e alle sue ricerche relative all’Istituto “Carta-Meloni” di Santu Lussurgiu, può a tutta prima apparire distante, se non addirittura fuori bersaglio, rispetto all’argomento specifico dell’incontro. Quale nesso può stabilirsi tra due personaggi nati nella seconda metà del secolo XVIII e i problemi della Sardegna di oggi e del paese di Santu Lussurgiu? Ha qualche senso, al di là della pura erudizione storica e del pur doveroso ricordo di un meritorio gesto filantropico quale è stato il lascito dei lussurgesi Pietro Paolo Carta e Giovanni Andrea Meloni per la fondazione di una scuola, indagare sulla vicenda biografica dei fratelli Carta, due personaggi minori nel quadro delle vicende storiche della Sardegna di fine Settecento e della prima metà dell’Ottocento?
A questi interrogativi legittimi io non esito a rispondere che non solo ha senso questa rivisitazione, ma essa costituisce il modo forse più idoneo per ricordare la figura di Diego Are, che nella sua attività di studioso di cose patrie, di docente di Storia e Filosofia nonché di preside dell’Istituto d’Istruzione Secondaria Superiore “Carta-Meloni”, ha sempre sostenuto la necessità di operare nel presente facendo tesoro della memoria storica del nostro passato, ponendosi in una linea di continuità con i valori che la memoria storica ci consegna; in una parola, recuperando e arricchendo nel nostro agire la nostra identità culturale.
Ho conosciuto Diego Are e ho conversato con lui in una sola circostanza della mia vita, in occasione di un evento culturale che mirava proprio al recupero della memoria storica di un grande maestro dell’identità sarda dell’Ottocento, Giovanni Battista Tuveri, l’inventore dell’espressione “questione sarda”. Diego Are mi fu presentato nel 1987 a Collinas dall’amico sassarese professor Antonio Delogu, docente di Filosofia Morale all’Università di Sassari, in occasione del convegno di studi sulla figura di Giovanni Battista Tuveri, organizzato per celebrare i cento anni dalla morte del filosofo di Collinas. Io facevo parte allora della Redazione della rivista storica “Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico”, diretta da Girolamo Sotgiu, rivista che era anche promotrice del convegno tuveriano. La presenza di Diego Are a quel convegno costituisce una delle tante dimostrazioni del profondo e convinto interesse con cui egli si occupava di tutti i problemi relativi alla “questione sarda”. Are era convinto del fatto che, per quanto l’espressione “questione sarda” sia stata coniata dal Tuveri nella seconda metà dell’Ottocento, i problemi della Sardegna affondano le radici nella storia a tutto campo della nostra isola, e, relativamente ai valori propri della Sardegna contemporanea, essi affondano le proprie radici e germogliano nell’ambito della Sardegna del Settecento, nel secolo dei Lumi. Ed è questo il motivo per cui egli ha voluto, or sono pochi anni, rivisitare e pubblicare un’importante relazione inedita sulla Felicità della Sardegna (tipica espressione della filosofia civile del Settecento) scritta da Antonio Giovanni Carta, l’intellettuale lussurgese formatosi nella temperie culturale del secolo dei Lumi di cui stasera parliamo.
Tutti sappiamo che il Settecento è un secolo fondamentale per comprendere i valori fondanti della civiltà occidentale contemporanea: nel Settecento si ritrovano i “germi della contemporaneità”. È difficile pensare a un uomo contemporaneo la cui “visione del mondo” non comprenda i “grandi veri” dell’Ottantanove, le grandi conquiste di civiltà della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese, i principi di libertà, eguaglianza, fratellanza, i principi della democrazia, della sovranità popolare, della Stato di diritto, del suffragio universale, della divisione dei poteri dello Stato; in poche parole dei valori contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale francese nell’agosto del 1789.
È in questa temperie culturale che dobbiamo idealmente proiettarci se vogliamo comprendere nella giusta dimensione personaggi, pur minori, come Antonio Giovanni e Pietro Paolo Carta, vissuti tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento. Anche la Sardegna di oggi – lo possiamo affermare senza paura di essere smentiti in sede di ricostruzione storica – è in certa misura figlia di quel secolo, nella misura in cui, come cercheremo di dire brevemente, è figlia del secolo dei Lumi. Come la più recente storiografia ha posto in evidenza, il Settecento sardo, in particolare il “triennio rivoluzionario sardo” del 1793-1796, o se si preferisce, allargando l’arco cronologico, il periodo compreso tra il 1793 (invasione francese) e il 1812 (congiura di Palabanda), ha costituito per la Sardegna un periodo cruciale della sua storia, uno di quei momenti di svolta che ha condizionato in modo determinante il suo futuro e ha rappresentato, di conseguenza, un punto di riferimento obbligato per l’azione politica e per l’ispirazione ideale delle generazioni successive che si sono battute per il riscatto dell’isola da una condizione di subalternità e di arretratezza. Secondo la storiografia più accreditata e secondo anche un sentimento comune molto diffuso, quegli anni drammatici rappresentano l’alba della Sardegna contemporanea: in quel periodo, infatti, i sardi hanno maturato una nuova e forte coscienza nazionale (si pensi alla vittoriosa resistenza contro l’invasione francese nel 1793), hanno affermato la volontà di edificare un più moderno assetto statale fondato sull’autogoverno (si pensi alle riforme invocate con la piattaforma delle “cinque domande” e al significato complessivo della cacciata dei Piemontesi e alle sue conseguenze negli anni 1794-95), hanno lottato per cancellare dalla società sarda l’anacronistico sistema feudale (si pensi al movimento antifeudale capeggiato dall’ alternos Angioy nel 1796). Sull’onda dei grandi avvenimenti che sconvolgevano l’Europa, molti sardi vissuti in questo periodo hanno vagheggiato l’instaurazione di una società nuova fondata sui valori della libertà e dell’eguaglianza, sugli immortali principi dell’Ottantanove. In breve in quel periodo la Sardegna ha compiuto uno sforzo grandioso, anche se nell’immediato poco fortunato, di camminare al passo con i nuovi valori che l’Europa era venuta elaborando durante il secolo dei Lumi e della Grande Rivoluzione.
Terminato, con la sconfitta che tutti conosciamo, il generoso tentativo dell’Angioy di abbattere l’anacronistico sistema feudale in Sardegna, non terminarono le agitazioni delle popolazioni sia rurali che urbane per ottenere condizioni di vita migliori e per mitigare, se non per cancellare, il governo “coloniale” della Sardegna da parte della Casa Savoia. Ne sono testimonianza le rivolte antifeudali di Thiesi e di Santu Lussurgiu dell’autunno 1800; il tentativo insurrezionale della Gallura nel 1802, guidato dal prete giacobino Francesco Sanna Corda, ex parroco di Torralba, e dal notaio Francesco Cilloco, due seguaci dell’Angioy esuli in Corsica; la congiura di Palabanda nel 1812, i cui promotori, come l’avvocato Salvatore Cadeddu e il conciatore cagliaritano Raimondo Sorgia pagarono col capestro il disegno d’instaurare un governo liberale nell’isola, l’utopia di una Sardegna migliore.
È nell’ambito di questi grandi avvenimenti che coinvolsero l’Europa intera, l’Italia e la Sardegna di fine Settecento e di inizio Ottocento che vivono i fratelli Carta di Santu Lussurgiu: sarebbe vano sforzarsi di comprendere la loro vicenda biografica, gli ideali e i propositi che ne animarono l’azione, qualora non venissero calati nel complesso contesto di questo particolarissimo momento storico vissuto dai Sardi, qualora le loro figure non venissero studiate nell’ambito del grande turbine politico e sociale, nella bufera rivoluzionaria di fine Settecento, unitamente ai personaggi più noti del movimento patriottico sardo di fine Settecento.
2. Occorre innanzitutto, soprattutto i relazione al sacerdote Antonio Giovanni Carta – che nacque a Santu Lussurgiu nel 1764, frequentò l’Università a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta del Settecento, conseguendo la laurea in Teologia e in leggi, in utroque iure come si diceva allora – delineare l’ambiente culturale nel quale si forma la sua personalità. Orbene, è fondamentale ricordare che egli si è formato in una delle due Università sarde riformate dal ministro Lorenzo Bogino nel 1764-1765; nelle due Università sarde riformate circolava una cultura rinnovata, aperta alle istanze nuove della cultura del secolo; in quelle Università l’intellettualità isolana del secondo Settecento aveva ricevuto quella formazione e quell’apertura di idee che costituisce, come è stato giustamente osservato, l’incubazione della rivoluzione sarda di fine Settecento.
Antonio Giovanni Carta appartiene, dunque, a quella generazione di intellettuali, tra cui sono da annoverare Giommaria Angioy (n. 1751), Domenico Alberto Azuni (n. 1749), Gerolamo Pitzolo (n. 1748), i fratelli Domenico, Matteo Luigi e Gianfrancesco Simon di Alghero (nati rispettivamente nel 1758, nel 1761 e nel 1762), Ignazio Musso (n. 1756), Nicolò Guiso, Efisio Luigi Pintor (n. 1765) - tutti protagonisti, se si eccettua l’Azuni, della rivoluzione sarda - formatisi nelle Università sarde riformate dal ministro Bogino nel 1764-65, forniti di una cultura umanistica e politico-giuridica solida e, soprattutto, partecipi delle problematiche e delle aspirazioni proprie dell’intellettualità europea del secolo dei lumi.
Nelle due Università riformate questa generazione di intellettuali era stata allieva di valenti insegnanti come Giambattista Vasco, Francesco Cetti e Francesco Gemelli, che avevano profuso nell’insegnamento universitario sardo una ventata di cultura rinnovata, improntata allo spirito del secolo, l’esprit systématique, per riprendere l’espressione di Condillac, ossia il metodo sperimentale che predilige l’osservazione diretta della natura, della realtà sociale, dei fenomeni economici. Così Giambattista Vasco, uno tra i più rappresentativi illuministi italiani, docente di Teologia dogmatica nell’Università di Cagliari negli anni 1764-67, nelle sue lezioni utilizzava alcune voci dell’Encyclopédie, come ha documentato FrancoVenturi in un suo importante saggio; rientrato in Piemonte Vasco pubblicherà nel 1769 l’opera ispirata alle teorie fisiocratiche del Quesnay, La felicità pubblica considerata nei coltivatori delle terre proprie. Nel 1776, un docente dell’Università di Sassari, l’ex gesuita novarese Francesco Gemelli, offriva una trattazione del problema della riforma fondiaria in Sardegna secondo coordinate ispirate alle teorie fisiocratiche, sinonimo di liberismo economico, nell’opera Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura; l’opera sull’assetto fondiario in Sardegna era stata espressamente commissionata al Gemelli dal governo piemontese in vista di una riforma del sistema feudale e della creazione della proprietà perfetta onde incoraggiare l’intraprendenza di una nascente e timida borghesia terriera. Tra il 1774 e il 1777 l’abate Francesco Cetti, anch’egli docente dell’Università di Sassari e seguace del celebre naturalista francese Buffon, autore dell’Histoire naturelle, pubblicava in tre volumi la splendida Storia naturale della Sardegna, impreziosita da pregevoli tavole a colori (quest’opera è stata recentemente ristampata dall’editrice ILISSO di Nuoro a cura di A. Mattone e P. Sanna).
La nuova cultura universitaria era inoltre permeata da una rinnovata sensibilità per la storia patria e da una particolare attenzione in ambito giuridico ai fondamenti e ai fini della società, che traevano ispirazione, oltre che dalla tradizione giusnaturalistica e contrattualistica, dalla grande lezione di Ludovico Antonio Muratori sia sul versante della ricerca storica che su quello della filosofia civile, espressa questa nell’ultima opera del grande intellettuale modenese, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni prìncipi, pubblicata un anno prima della morte del grande modenese, nel 1749. Rifacendosi espressamente all’opera Rerum italicarum scriptores del Muratori, Domenico Simon aveva iniziato, tra il 1785 e il 1788, la pubblicazione della collana intitolata Rerum sardoarum scriptores, di cui uscirono due volumi, tra cui, significativamente, il breve compendio di Sigismondo Arquer, vittima dell’Inquisizione, Sardiniae brevis historia et descriptio. Esempio significativo del rinnovato impegno civile dell’intellettualità isolana è la letteratura didascalica del secondo Settecento sardo, redatta sia in lingua sarda che italiana, tra cui ricorderemo: il poema giovanile dello stesso Domenico Simon intitolato Le piante (1779); i catechismi agrari di monsignor Giuseppe Maria Pilo vescovo di Ales (Discorso sopra l’utilità delle piante e della loro coltivazione per uso della diocesi di Ales e Terralba, 1779) e del censore generale Giuseppe Cossu (tra i catechismi agrari del Cossu ricordo solo il bilingue Moriografia sarda, ossia catechismo gelsario proposto alli possessori di terre ed agricoltori del Regno sardo, 1788-1789, nonché in lingua sarda le due Istruzioni po coltivai su cotoni, 1806 e Istruzioni po sa cultura e po s’usu de is patatas in Sardigna, 1805); il poema bilingue del parroco di Senorbì Antonio Purqueddu, Del tesoro di Sardegna nel coltivo de’ bachi e gelsi canti tre / De su tesoru de sa Sardigna, 1779 (di quest’opera è stata recentemente curata da Peppino Marci l’edizione critica per i tipi della CUEC); il trattato del sassarese Antonio Manca dell’Arca, Agricoltura di Sardegna, 1780 (di quest’ultima opera sono state fatte recentemente due ristampe, una a cura di Gian Giacomo Ortu per l’editrice ILISSO di Nuoro e l’altra a cura ancora di Peppino Marci per la CUEC).
Questa nuove temperie culturale interagiva, com’è ovvio, con il contesto locale e con le condizioni politiche ed economiche della Sardegna del Settecento: i principi della fisiocrazia e del liberismo economico, applicati alla situazione sarda, comportavano uno scontro decisivo col sistema feudale che costituiva il principale ostacolo per la loro concreta affermazione; l’impegno civile per il riconoscimento della specificità della costituzione del Regno sardo era ostacolato dal sistema coloniale di governo del Piemonte sabaudo, che oltre a vanificare le prerogative costituzionali della nazione sarda, impediva alla nuova intellettualità la concreta partecipazione al governo dello Stato interamente affidato ad una burocrazia esterna famelica e incapace; il rinnovato interesse per la storia consentiva di individuare in un passato lontano una sorta di età dell’oro o di stato di natura in cui la Sardegna viveva arbitra del proprio destino e libera dalle catene del giogo feudale.
La linfa nuova immessa nella cultura, compenetratasi con le condizioni oggettive della realtà politica e sociale dell’isola, costituì la precondizione della nostra rivoluzione e il terreno su cui poggiava la formazione culturale e la “visione del mondo” di intellettuali riformisti come Antonio Giovanni Carta, di conduttori d’azienda come Pietro Paolo Carta, tipico rappresentante della borghesia rurale che si affaccia timidamente alla ribalta storica proprio a cavallo tra Settecento ed Ottocento. Furono questi intellettuali e questi “borghesi” ante litteram del contesto sociale ed economico della Sardegna di allora gli ispiratori e gli artefici di quel decennio portentoso e fondamentale della Sardegna contemporanea, i cui momenti cruciali sono rappresentati dalla vittoriosa lotta dei sardi contro l’invasione francese (1793); dalla cacciata dei Piemontesi (1794); dalla prima esperienza di governo autonomo dei sardi durante l’estate 1794; dalla lotta intestina tra l’anima riformista e l’anima conservatrice del partito patriottico che avrà il suo epilogo nell’estate 1795 negli assassinii politici dei capi del gruppo legato all’oltranzismo reazionario del ceto feudale (l’intendente generale Pitzolo e il generale delle armi marchese della Planargia); dalla ribellione delle popolazioni rurali del Logudoro contro l’iniquo sistema feudale, che esprimerà la propria volontà di riscatto dal feudalesimo attraverso l’originalissimo istituto degli “strumenti di unione e di concordia”, che si proponeva di giungere all’abolizione della giurisdizione feudale attraverso lo strumento legale del riscatto dei feudi tramite indennizzo; dal fatto portentoso rappresentato dalla conquista di Sassari, cittadella dell’oltranzismo feudale, da parte di un esercito contadino alla fine di dicembre 1795; dallo sfortunato tentativo dell’alternos Giovanni Maria Angioy, mandato a governare il Logudoro in rivolta tra febbraio e giugno 1796, di abolire il sistema feudale; infine dal persistere dell’agitazione feudale negli anni successivi all’esilio dell’Angioy, agitazioni promosse dai suoi seguaci, che avranno il loro epilogo proprio con la rivolta antifeudale dei villaggi di Thiesi e di Santu Lussurgiu nell’anno 1800.
3. A questi eventi i due fratelli Carta di Santu Lussurgiu hanno preso parte in prima persona: il sacerdote Antonio Giovanni lungo tutto l’arco del periodo cui ho rapidamente accennato, in una posizone che se non fu di primo piano, fu però di tutto rilievo; Pietro Paolo soprattutto nel quadro della lotta antifeudale e in una posizione di assoluta rilevanza nella sua qualità di sindaco di Santu Lussurgiu, subito dopo la ribellione antifeudale del paese nell’ottobre 1800.
Le recenti acquisizioni documentarie sull’attività degli Stamenti nel periodo 1793-1799, appena pubblicate da chi scrive, hanno consentito di illuminare a giorno l’insostituibile ruolo assunto dai tre bracci dell’antico Parlamento sardo nelle vicende politiche della Sardegna di fine Settecento. Questa stessa documentazione consente di chiarire meglio il ruolo di Antonio Giovanni Carta nel periodo compreso tra il 1793 e il 1800, nonché, indirettamente, di offrire un’ipotesi di interpretazione plausibile per il periodo successivo in cui egli divenne rettore coraggioso e contrastato del paese di Guspini tra il 1806 e il 1823, anno della morte avvenuta a Santu Lussurgiu.
Nella primavera del 1793 gli Stamenti decisero di mandare a Torino presso il sovrano Vittorio Amedeo III una propria delegazione, costituita da sei autorevoli membri dei tre bracci del Parlamento sardo (due per ciascun braccio: Domenico Simon e Girolamo Pitzolo per il Militare, gli avvocati Sircana e Ramasso per il Reale, il vescovo di Ales Michele Antonio Aymerich e il canonico Pietro Maria Sisternes per l’Ecclesiastico) per chiedere al sovrano l’approvazione delle “cinque domande”, ossia di una piattaforma politica unitaria di carattere autonomistico presentata a nome di tutta la “Nazione” sarda.
Le “cinque domande” costituirono, nell’ambito del “triennio rivoluzionario sardo”, un atto di fondamentale importanza sia per il contenuto sia per le conseguenze che l’esito negativo della missione ebbe nel prosieguo delle vicende del triennio. Relativamente al contenuto, diremo in estrema sintesi che le “cinque domande” rappresentavano essenzialmente una solenne e decisa rivendicazione da parte dei Sardi della specificità politica del Regno sardo. In aperta contestazione della pratica assolutistica di governo operata dai sovrani sabaudi, che lungo i settant’anni dacché la Sardegna era passata sotto il loro dominio, l’avevano governata come una colonia, le “cinque domande” ribadivano che la costituzione del Regno non era una monarchia assoluta ma una “monarchia mista”; in virtù di tale specificità costituzionale del Regno sardo, la sovranità dello Stato non apparteneva solo al sovrano, ma apparteneva a pari titolo alla “nazione” sarda legittimamente rappresentata dagli Stamenti, e per essi, dal Parlamento sardo. Il rapporto tra il sovrano e la “nazione” sarda, era un rapporto, come si diceva allora, di carattere pattizio; la legittimità dell’esercizio dei poteri di governo da parte del sovrano discendeva cioè da un patto tra i due contraenti, Sovrano e Parlamento del Regno, titolari a pari titolo della sovranità. Il sovrano in tanto esercitava le prerogative di governo in quanto aveva stretto un patto con la “nazione”; patto che, secondo i principi costituzionali di allora, si concretava, da parte degli Stamenti, nell’impegno a votare triennalmente il pagamento del cosiddetto donativo, ossia le risorse finanziarie necessarie al sovrano per il governo dello Stato, e, da parte del sovrano, nel concedere in cambio, secondo il principio del do ut des (ecco appunto il contratto), i privilegi, ossia le leggi che dovevano regolare la vita dello Stato e della società. Una costituzione e una prassi di governo, non molto dissimile da quella in vigore nell’Inghilterra del Seicento e nella Francia pre-rivoluzionaria. Nel chiedere come prima e principale domanda, da cui discendevano logicamente le altre, la convocazione decennale del Parlamento sardo, le cinque domande denunciavano l’arbitrarietà del governo assolutistico dei sovrani sabaudi, colpevoli di vulnerazione del dettato costituzionale in quanto in settant’anni di dominio non avevano mai convocato l’organo rappresentativo della “nazione”, il Parlamento appunto, che solo in quella sede poteva esercitare quello che con linguaggio moderno possiamo chiamare il diritto di legiferare. Le “cinque domande” erano dunque una inequivocabile rivendicazione di autonomia del Regno sardo nell’ambito degli Stati che costituivano la Corona sabauda. Dirò per inciso che questa tematica viene ampiamente sviluppata nel più noto pamphlet politico del “triennio rivoluzionario sardo”, L’Achille della sarda rivoluzione, redatto e diffuso durante le agitazioni antifeudali del 1796, probabilmente opera di un noto intellettuale di primo piano, il lussurgese don Michele Obino, professore di Decretali all’Università di Sassari, convinto sostenitore dell’Angioy nel periodo di governo del Capo settentrionale, animatore con i fratelli Carta della rivolta lussurgese del 1800, sodale dell’ex- Alternos durante gli anni dell’esilio parigino. Quell’opuscolo si apre appunto con i seguenti assiomi:”Il Reame di Sardegna non è un’assoluta Monarchia. / Il Governo di Sardegna è un Governo misto. / Il Re di Sardegna, oltre al patto implicito che contraggono i Sovrani con le Nazioni, ne ha contratto solennemente ed espressamente uno con la Sarda Nazione”, ecc. In termini meno dottrinari e più divulgativi, il tema del governo “coloniale” della Sardegna da parte dei Piemontesi, è ripreso nell’inno antifeudale di Francesco Ignazio Mannu Procurade ’e moderare barones sa tirannia, soprattutto nella strofa 32: “Fit pro sos Piemontesos / sa Sardigna una cuccagna; / che in sas Indias de Ispagna / issos s’agattan inoghe”, ecc.
Nella sua qualità di cappellano, ossia di segretario, del vescovo di Ales monsignor Michele Antonio Aymerich, che fu uno dei due ambasciatori dello Stamento ecclesiastico, Antonio Giovanni Carta ebbe un ruolo di rilievo nella missione delle “cinque domande” a Torino. Non solo perché come segretario del vescovo Aymerich ebbe modo di partecipare attivamente a Torino alla redazione dei documenti che accompagnarono la presentazione delle “cinque domande” al sovrano (la redazione di tali documenti, tra cui il più importante è il Manifesto giustificativo delle cinque domande del Regno di Sardegna dalle quali unicamente dipende il necessario risorgimento coll’estirpazione degli abusi, fu effettuata a Torino dai membri riuniti dell’ambasceria tra i primi settembre e i primi di dicembre 1793), ma anche per l’assiduo lavorìo di propaganda che contraddistinse la sua lunga permanenza a Torino (dall’estate 1793 fino alla fine del 1794) in difesa delle rivendicazioni nazionali dei Sardi e per le frequentazioni che egli ebbe nella capitale subalpina con ambienti che guardavano con simpatia alla Francia rivoluzionaria. Inoltre le fonti ci attestano una stretta corrispondenza da lui intrattenuta, in questo periodo della sua temporanea residenza a Torino, con gli amici rimasti in Sardegna, in cui narrava le vicissitudini e le umiliazioni che dovette subire la delegazione stamentaria. I sei ambasciatori, infatti, non solo non furono ammessi a discutere le istanze della “nazione” sarda in seno alla speciale commissione incaricata di esaminare le “cinque domande”, ma, quando ai primi di aprile del 1794 quella commissione concluse i lavori con un sostanziale diniego su tutta la linea, le decisioni negative non solo non vennero comunicate direttamente ai sei ambasciatori in attesa a Torino, ma il ministro Pietro Graneri a loro insaputa affidò il responso al dispaccio ordinario diretto al viceré. Al danno s’aggiungeva la beffa! I legittimi rappresentanti del Regno non solo non erano stati ascoltati nella fase della discussione del progetto di riforma delle “cinque domande”, ma erano stati ignorati perfino in qualità di latori delle richieste della “nazione”. “Ambasciatori senza parola – ha sentenziato laconicamente il Manno – [i sei deputati] erano anche riusciti messaggeri senza risposta!”.
I resoconti epistolari della delegazione stamentaria a Torino, che raccontavano con tinte forti l’epilogo beffardo e offensivo della dignità della “nazione” della missione, come è attestato dalle fonti, ebbero un ruolo importante nell’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, che portò alla cacciata dei Piemontesi da Cagliari e dall’isola. Tra questi corrispondenti era anche prete Carta.
Il vescovo Aymerich, e quindi anche il Carta, unitamente al canonico Sisternes, non rientrarono in Sardegna subito dopo la conclusione dell’ambasceria, ma vi rimasero ancora per diversi mesi. È in questo periodo che egli, insieme al Sisternes e ad altri patrioti sardi residenti a Torino, assunse un ruolo attivo nel perorare la causa della nomina di funzionari sardi alle più alte cariche dello Stato; ciò avveniva, racconta la Storia de’ torbidi, nel corso delle “sessioni che [tenevano] nella casa di lui [cioè del Sisternes] don Maurizio Sanna, don Salvatore Murgia, Carta, e loro fautori” (Storia de’ torbidi, Cagliari, 1994, p. 53). Fu anche in conseguenza di questo lavorìo presso gli uomini influenti della capitale subalpina che il governo decise di nominare alle più alte cariche dello Stato, subito dopo la cacciata dei Piemontesi, quattro sardi: Gavino Cocco reggente la Reale Cancelleria, Girolamo Pitzolo intendente generale, il marchese della Planargia generale della armi e Antioco Santuccio governatore di Sassari. Il menato vanto da parte soprattutto del Sisternes di aver contribuito alla nomina dei quattro alti funzionari sardi non piacque al generale della Planargia, che nell’estate del 1794 era ancora a Torino (egli giungerà in Sardegna ai primi di settembre 1794): per questo il generale iniziò a veder male questa pattuglia di sardi, a suo modo di vedere, intriganti, a Torino e fece di tutto per farli espellere dalla capitale e rimpatriarli, come prova la corrispondenza intercorsa col figlio conte di Sindia tra l’autunno 1794 e la metà del 1795. Durante l’estate del 1794, prima che il Planargia partisse per la Sardegna, la Soria de’ torbidi indica il teologo Carta tra coloro che scrivevano ai patrioti cagliaritani lettere illuminanti per segnalare le vere intenzioni con cui il Planargia veniva in Sardegna: vendicare l’onta della cacciata dei funzionari piemontesi e restaurare l’autorità sovrana. I fatti si sarebbero incaricati di provare quanto il teologo Carta e i suoi amici torinesi avessero ragione!
“Si radunò perciò nuovamente – scrive l’anonimo autore della Storia nella rievocazione delle vicende che seguirono alla nomina dei quattro alti funzionari Cocco, Pitzolo, Planargia e Santuccio – la mattina successiva delli 6 [giugno 1794] il Magistrato, affine di ristabilire o la registrazione, oppure la sospensione delle regie patenti, e il modo altresì di giustificare qualunque loro rappresentanza, ove le cabale avessero ottenuta la vittoria, dovendosi prendere per fondamento il difetto della terna, siccome il teologo Cabras insisteva. Prima che comparissero nel Magistrato gli anzidetti rivoluzionari, si tennero dei particolari congressi dal visconte di Flumini coll’intervento di Sulis, Xiacca, Pintor, e successivamente dal giudice Angioi, ove si lessero e le lettere istruttive del Simon, Cisternes e Bayle, e le altre delli loro subalterni canonico Meloni, e teologo Carta scritte da Torino e dirette ai loro corrispondenti, nelle quali raccomandavano particolarmente d’impegnare ogni ceto di persone, perché di comun accordo venisse il generale Planargia dalli stessi suoi compatrioti ricusato, e si credette molto opportuno di far sentire al marchese di Laconi, che sarebbe egli stesso stato decorato della Gran Croce col titolo di Gran Maestro d’Artiglieria se esso marchese della Planargia non avesse riunito in sé tutti gli onori” (Storia de’ torbidi, cit. p. 57).
Rientrato a Cagliari con il vescovo Aymerich attorno alla fine del 1794, prete Carta dovette partecipare attivamente alla vita politica nella capitale se, subito dopo la concitata fase della marcia di Angioy verso Cagliari per chiedere l’abolizione del sistema feudale, egli compare in una lista di soggetti pericolosi, seguaci e fautori dell’Angioy, da togliere immediatamente dalla circolazione e porre agli arresti. Tale lista, che s’intitola Nota delle persone, che questo pubblico ha per sospette nelle attuali circostanze o per essere nota a tutti la loro intelligenza con don Giommaria Angioi, o per essere scandalose le loro sparlate prima e dopo il presente fatto [il fatto è evidentemente la ribellione di Angioy al potere costituito], reca la data del 13 giugno 1796, lo stesso giorno in cui, ormai disperse le schiere del suo improvvisato esercito, Angioy, sul cui capo pende una taglia per reato di ribellione e fellonia, inseguito dalle cavallerie del Marghine, è in fuga verso Sassari attraverso i paesi amici di Santu Lussurgiu, Semestene e Thiesi. Com’è noto, egli s’imbarcherà da Porto Torres sulla via dell’esilio la sera del 17 giugno 1796. Fra i 33 soggetti pericolosi presenti nella Nota citata, che era stata redatta da una sorta di commissione per l’epurazione e avallata dalla Reale Udienza, figurano: quattro componenti della famiglia Simon di Alghero, per i quali si propone il domicilio coatto a Castelsardo poi commutato coll’immediato rimpatrio ad Alghero; don Francesco Ignazio Mannu, l’autore dell’inno antifeudale Procurade ’e moderare, che viene proposto per l’esilio nell’isola di San Pietro; inoltre, si legge nella Nota, “il canonico Giambattista Meloni [questi è l’altro cappellano del vescovo Aymerich] e l’avvocato sacerdote Carta capellano di monsignor d’Ales” con “ordine a monsignore di rinchiuderli senza dilazione” (cfr. L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, vol. 24° della collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae”, a cura di Luciano Carta, Cagliari, 2000, tomo IV, p. 2346, doc. 618/2). In effetti Antonio Giovanni Carta si costituì nel convento dei padri Mercedari di Villacidro, “per essere io – scrive in una comunicazione al viceré del 27 giugno successivo – dipinto come un nemico del Trono, fautore dei rivoluzionari” (V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari, 1996, p. 133).
È legittimo chiedersi: era o non era il Carta un rivoluzionario? In questa missiva egli nega sdegnosamente di esserlo. A questo proposito occorre fugare una volta per tutte un equivoco, ad alimentare il quale ha fortemente contribuito il singolare libro di Felice Cerchi Paba su Don Michele Obino e moti antifeudali lussurgesi (1796-1803), ricco di interessanti intuizioni ma anche zeppo di fantasticherie storiche improponibili, soprattutto dove insiste sulla presenza in Sardegna nel periodo in esame di logge massoniche e di giacobini. Il fenomeno del giacobinismo in Sardegna in questo periodo fu estremamente limitato. La generica accusa di giacobinismo contro i patrioti del “triennio rivoluzionario” viene dagli oltranzisti, in particolare dal marchese della Planargia e dal Pitzolo, ma è un’autentica forzatura. La gran parte dei patrioti sardi di fine Settecento hanno sdegnosamente rifiutato, come fa nel passo che ho citato prete Carta, in quanto essi erano fondamentalmente dei riformisti moderati che non hanno mai professato una fede politica repubblicana. Francesco Ignazio Mannu, che passa per essere uno dei patrioti più radicali, nell’inno Procurade ’e moderare respinge l’accusa, che gli veniva dal Pitzolo e dal Planargia, di essere giacobino. Ciò egli fa, a nome suo e di gran parte dei patrioti sardi, nelle strofe 28-30 del’inno:
Timende chi si reforment / disordines tantu mannos, / cun manizzos e ingannos / sas Cortes hana impedidu; / e isperdere han cherfìdu / sos patrizios pius zelantes, / nende chi fin petulantes / e contra sa Monarchia.
Ai cuddos, ch’in favore / de sa patria han peroradu, / chi s’ispada hana ‘ogadu / pro sa causa comune, / o a su tuju sa fune / cherian ponner, meschinos! / O comente a Giacobinos / los cherian massacrare.
Però su chelu hat difesu / sos bonos visibilmente; / atterradu hat su potente, / e i s’umile esaltadu. / Deus, chi s’est declaradu / pro custa patria nostra, / de ogn’insidia ‘ostra / isse nos hat a salvare.
Quando e chi ha pensato di disperdere i veri patrioti, che sono stati accusati di essere contrari all’istituto monarchico, di essere (ma non lo erano affatto!) dei giacobini desiderosi d’instaurare la repubblica, fino a progettare di massacrarli? La responsabilità della mancata convocazione delle Corti – di cui si parla nella strofa 28 – fu del ministro Galli, istigato dai due alti funzionari Pitzolo e Planargia, esponenti dell’oltranzismo feudale e reazionario, che accusando di giacobinismo i “patrizi più zelanti”, ossia quanti volevano semplicemente l’applicazione delle leggi fondamentali del Regno e l’abolizione dell’obbrobrioso sistema feudale, intendevano annientarli; tali nemici della patria però erano stati abbattuti, cioè assassinati: e infatti Pitzolo e Planargia furono abbattuti, cioè assassinati nel luglio 1795.
Come ho rilevato nei miei lavori su questo periodo, la “sarda rivoluzione” non fu, fondamentalmente, una rivoluzione radicale, o giacobina che dir si voglia, ma fu una rivoluzione patriottica di indirizzo moderato: nella sostanza, al di là degli episodi di ira popolare, che nelle lotte contro i feudatari pure vi furono, il contenuto politico delle agitazioni fu di segno moderato, direi addirittura “legale”, in quanto si serviva dello strumento legale degli “atti d’unione e di concordia”: il riscatto dei feudi tramite indennizzo, non l’abolizione violenta e cruenta del feudalesimo, fu la vera parola d’ordine della rivolta antifeudale delle campagne. Di qui il rifiuto da parte dei patrioti sardi, o almeno della gran parte di essi, della qualifica di “giacobini”: prete Carta e Francesco Ignazio Mannu, che pure furono dei riformisti convinti e coraggiosi, rifiutano categoricamente quella qualifica. E’ questo il contesto storico e politico-ideologico in cui si inserisce l’inno patriottico di Francesco Ignazio Mannu e in cui deve correttamente essere interpretata la vicenda e l’azione politica e sociale di prete Carta.
Un riformista conseguente e coraggioso fu, dunque, prete Carta, come dimostra la sua vicenda biografica successiva alla fine dell’epopea angioiana, quando, nonostante la sanzione del giugno 1796, di cui abbiamo detto sopra, egli continuerà a lottare per l’abolizione del feudalesimo e sarà, insieme al fratello Pietro Paolo, a don Michele Obino, a tutto il paese di Santu Lussurgiu, dopo che a Sassari il tristo giudice Giuseppe Valentino, “l’impiccatore degli angioiani” come lo definisce lo storico Pietro Martini, aveva innalzato le forche contro numerosi patrioti sardi, egli sarà uno dei promotori del moto antifeudale lussurgese dell’ottobre 1800; quando, divenuto parroco di Guspini nel 1806, continuerà a lavorare concretamente per la “felicità della Sardegna”, creando una scuola per i bambini di ambi i sessi nella sua parrocchia, e soprattutto favorendo lo spirito associativo tra i braccianti più poveri di Guspini, che egli guiderà a proprie spese nella bonifica della palude di Urradili, i cui terreni poi farà assegnare ai braccianti stessi che avevano operato la bonifica. Fu certamente questa sua convinta azione politica e sociale all’origine delle persecuzioni cui fu sottoposto a partire dagli anni attorno al 1815, per cui fu costretto ad abbandonare la parrocchia, a subire un lungo processo per accuse infamanti, a soffrire il carcere. Ciononostante, nel 1820, fu proprio il rappresentante di quello stesso potere pubblico che lo aveva a lungo perseguitato, l’intendente della provincia di Villacidro avvocato Felice Medda, a rivolgersi a lui per rispondere ai quesiti sulla situazione sociale ed economica della provincia di Villacidro. Antonio Giovanni Carta trasformò quell’incombenza burocratica in un’occasione utile per riproporre tutta la sua concezione di riformista illuminato, redigendo un documento, meritoriamente pubblicato e commentato da Diego Are, dall’autore stesso intitolato La felicità della Sardegna, a voler significare che i mali della provincia di Villacidro sono i mali dell’isola intera.
Io ho scoperto solo da poco questo straordinario documento, in pratica ne ho potuto fare una lettura attenta in vista di questo nostro incontro. Si tratta di un documento straordinario in quanto esso conferma, come dicevo all’inizio di questo mio contributo, la cultura illuministica dell’intellettualità isolana formatasi nelle Università sarde riformate della seconda metà del Settecento, una cultura pervasa da passione civile, tutta tesa al raggiungimento del benessere dell’umanità, o, come si diceva allora, della “pubblica felicità”. Basta dare anche una scorsa rapida per rendersi conto dello spirito che pervade quello scritto: la mentalità sperimentale, l’esprit systématique di condillachiana memoria soprattutto nell’uso della statistica e del calcolo come strumenti indispensabili per motivare e dimensionare gli interventi di bonifica (si vedano ad esempio le parti relative alla canalizzazione delle acque e alla creazione di un sistema di “trombe per far rimontare l’acqua”, ossia di pompe idrauliche per creare un sistema di irrigazione nelle campagne (cfr. A. G. Carta, La felicità della Sardegna (1820), a cura di Diego Are, Cagliari, 1999, p. 98); la mentalità fisiocratica e liberista, che postula la creazione della proprietà privata perfetta, riducendo “almeno alla metà – egli scrive – la proprietà con la schiavitù dei pascoli comunali” poiché in quei terreni soggetti a tale servitù “non vi può mai fiorire l’agricoltura” (ivi, p. 89); la mentalità industriale, che sollecita “l’introduzione della manifatture, ed arti” come “l’unico mezzo di far fiorire l’agricoltura, popolare, civilizzare ed arricchire uno Stato aumentandone prodigiosamente le finanze e non produrre il contrario, come i maligni per continuarne la miseria, e dapocagine, in cui trovano il loro conto e interesse, vanno con vecchi sofismi di diminuazione di braccia all’agricoltura e di dogane al Principe, sfacciatamente pubblicando” (ibidem); la necessità di promuovere in generale “la maggior cultura nel popolo, e principalmente nelle donne” (ivi, p. 63); la creazione di infrastrutture viarie; l’incentivazione della piccola proprietà contadina con “dividere i terreni comunali ad ogni Capo famiglia e con questo mezzo rendere proprietari tanti poveri che presi per la gola dai ricchi marciscono nel bisogno e nella bassezza”; ma soprattutto, se si vuol mettere a frutto la risorsa fondamentale della nostra isola, cioè la terra, la necessità di “promuovere l’agricoltura con tutto l’impegno possibile, esaminando e riformando i pesi feudali che, mal piazzati, ne sono impeditivi” (ivi, p.57).
Ho fatto solo qualche cenno per segnalare la modernità delle idee di Antonio Giovanni Carta; una modernità che è ulteriormente confermata anche dai testi presenti nella sua biblioteca, opportunamente riportati da Diego Are in appendice al volumetto in cui pubblica l’opuscolo La felicità della Sardegna. Spigolando velocemente tra le opere della biblioteca di Antonio Giovanni Carta, insieme a testi scolastici di autori latini e di diritto, insieme ad opere di storia, di oratoria sacra e di varia letteratura teologica e profana, troviamo numerosi trattati di economia politica e civile, diversi corsi di agricoltura, un dizionario di industria, i catechismi agrari del censore generale Cossu nonché il poema Tesoro della Sardegna del Purqueddu, che ho citato sopra; le opere di alcuni tra i più noti illuministi italiani e francesi, come Spedalieri, Genovesi, Filangieri e Mably; infine l’opera Della pubblica felicità di Ludovico Antonio Muratori.
Ecco, è forse quest’opera del Muratori che, meglio di qualunque altro elemento, ci aiuta a capire la mentalità e la cultura di intellettuali come Antonio Giovanni Carta, o di conduttori e proprietari d’azienda come Pietro Palo Carta: una mentalità e una cultura permeata dai valori tipicamente settecenteschi della scienza ed della conoscenza finalizzate al raggiungimento della “felicità” dell’uomo, del suo benessere; una mentalità progressiva permeata di filantropia e di un fortissimo amor loci, di amore e di attaccamento alle memorie patrie, secondo l’insegnamento appunto del Muratori. A una mentalità progressiva e filantropica permeata da una genuina ispirazione cristiana e da forte amor patrio si ispirava, come abbiamo cercato di mostrare, l’azione di prete Carta; a quella stessa mentalità si ispirava la volontà testamentaria di Pietro Paolo Carta, che legava tutto il suo patrimonio alla fondazione di un istituto d’istruzione a Santu Lussurgiu: un gesto analogo, mi pare opportuno ricordarlo in questa sede, a quello di un altro importante personaggio delle lotte antifeudali di fine Settecento, Francesco Ignazio Mannu, l’autore dell’inno antifeudale morto nel 1839, tre anni prima di Pietro Paolo Carta, che donava il suo cospicuo patrimonio all’Ospedale civile di Cagliari, sebbene nessuno si sia mai curato di dare al pubblico un segno tangibile di tanta filantropica generosità.
Sviati dalle nostre mal digerite nozioni scolastiche - e con questo concludo – noi siamo abituati, quando ci riferiamo al secolo dei Lumi, alla cultura illuministica, a ridurla a quella che potremmo definire la componente “radicale” dell’illuminismo, ad autori come Voltaire, Diderot, Rousseau, Raynal, D’Holbach, Helvétius, ecc. è giusto invece, oltre che storiograficamente corretto, ricordare che il secolo dei Lumi è un secolo complesso e che nella cultura dei Lumi trovano posto, insieme agli autori che ho citato, anche autori assertori di una “visione del mondo” più moderata, come Genovesi, Filangieri, Muratori, che fanno parte di quell’importante filone della cultura del secolo dei Lumi che la più recente storiografia definisce la corrente dei “cattolici illuminati”. A questo ambiente culturale vanno ascritti molti dei patrioti sardi del Settecento, tra cui Antonio Giovanni Carta; anch’essi fanno parte a pieno titolo della cultura dei Lumi; anch’essi, se posso esprimermi con il titolo dell’opera di Franco Venturi, il più grande storico dell’illuminismo italiano ed europeo, sono attori non marginali del Settecento riformatore.
Quartu S. Elena, 4 settembre 2004
Spett. Grafiche Editoriali
s.a.s. di Maurizio Solinas
Via G. CBiasi, 68 – c.p. 58b
08100 NUORO
Oggetto: Bozze contributo monografia su Santu Lussurgiu.
Facendo seguito alla vs nota in data 28.07.2004, faccio pervenire le bozze corrette del mio contributo per la monografia su Santu Lussurgiu.
Preciso che la nota con asterisco riferita al titolo deve essere inserita a piè della prima pagina dell’articolo.
Ringrazio e colgo l’occasione per porgere distinti saluti.
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