Dr ssa Simonetta Martini (Medico Psichiatra Responsabile cra di Cernusco Lombardone e Responsabile Centro Diurno di Merate) Dr ssa Maria Grazia Masini



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Sana22.02.2017
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Dr.ssa Simonetta Martini (Medico Psichiatra Responsabile CRA di Cernusco Lombardone e Responsabile Centro Diurno di Merate) Dr.ssa Maria Grazia Masini (Psicologa Psicoterapeuta CRA Cernusco Lombardone e CPS di Merate)

L’esperienza di una comunità terapeutica e la sua vita interna ( spazio privato ) inserita nel contesto del Dipartimento di Salute Mentale (spazio pubblico) : integrazione tra Servizi

Prima di tutto una premessa: a cosa ci riferiamo in questo lavoro quando parliamo di privato e di pubblico? Per “ Privato”, vogliamo intendere tutto ciò che avviene all’interno della CRA come parte dell’esperienza che i pazienti vivono, per un periodo determinato, nel corso loro percorso comunitario; per “ Pubblico”, intendiamo invece tutto ciò che avviene all’esterno della vita della comunità: le relazioni con il CPS, con la famiglia, con gli amici, i volontari, i circoli sportivi, e in generale la città e i suoi servizi.

Il contesto in cui lavoriamo con i nostri pazienti è la Comunità Terapeutico-Riabilitativa e Risocializzante ad Alta Intensità di Cernusco Lombardone “Comunità Orizzonti”, che appartiene all’Azienda Ospedaliera e del Dipartimento di Salute Mentale di Lecco.

Il Dipartimento è articolato in varie strutture che costituiscono una Rete di Servizi che risponde ai diversi bisogni dell’utente e dei familiari attraverso una presa in carico che può essere territoriale, residenziale e ospedaliera. In particolare, esistono 2 Centri Psicosociali, 2 SPDC, 2 Centri Diurni, 2 comunità ad alta intensità riabilitativa (CRA), 1 comunità a media intensità riabilitativa (CRM), e 1 comunità protetta (CPM).

Infine, esiste una rete di programmi di Residenzialità Leggera per pazienti che hanno raggiunto un livello di autonomia relativamente adeguato ed una discreta capacità relazionale tale da consentire una convivenza in piccoli gruppi “famigliari”.

In questo intervento cercheremo di mettere a fuoco, attraverso la chiave di lettura “privato- pubblico”, la modalità di lavoro integrato esistente tra la comunità, i Servizi del Dipartimento e la rete sociale esterna.

Un breve accenno al contesto in cui lavoriamo:

La Comunità “Orizzonti” è sorta all’interno di una bellissima vecchia cascina, ristrutturata alla fine degli anni ‘90, nel cuore della verde Brianza. Ospita 12 pazienti che permangono in comunità in modo residenziale, ed anche un numero limitato di pazienti che accedono alla CRA in regime diurno (semiresidenziali) per effettuare programmi in “entrata” (nel caso in cui sia necessario un periodo di ambientamento che preceda l’inserimento in comunità), o in “uscita”, cioè dopo la dimissione dalla comunità (per favorire il reinserimento sul territorio e al proprio domicilio).

La comunità è un luogo terapeutico teso a favorire lo scambio relazionale, ad aiutare i pazienti a sentirsi soggetti propositivi in modo che si riapproprino di una maggiore autonomia all’interno di una dimensione spaziale e temporale che abbia a che fare con la realtà del normale vivere quotidiano. E’ privilegiato un approccio gruppale che valorizza momenti di incontro con tutti gli ospiti e gli operatori della comunità per riflettere su quanto avviene a livello relazionale ed emozionale nel contesto del lavoro e della quotidianità.

Obiettivo prioritario della CRA è quello di creare un assetto organizzativo che metta al centro dell’istituzione gli ospiti, con la finalità di aiutarli a recuperare un loro potere decisionale rispetto al vivere comunitario, e ad essere più responsabilizzati e creativi nel proporre soluzioni e nel discuterne con gli altri ospiti, ciascuno secondo le proprie possibilità, e con l’adeguato supporto e affiancamento degli operatori valutato in base alla specifica situazione del paziente e a quanto individuato dall’équipe nel progetto personalizzato. Il clima generale della comunità è caldo e familiare; la comunità è sentita come luogo di appartenenza che non censura le iniziative personali e che è aperta all’accoglienza della creatività di ciascuno, paziente, operatore, volontario che sia, ovviamente nel rispetto di regole condivise dal gruppo di operatori e pazienti che abita la comunità. La comunità è in questo senso innanzitutto il luogo dell’accoglienza, il luogo dove ci si gioca col paziente perché questi possa trovare dentro la casa - comunità la propria casa interna, in cui depositare prioritariamente il proprio malessere e le proprie parti deficitarie.

D’altro lato, è necessario non isolarsi e non chiudersi in una condizione di eccessiva autoreferenzialità, ma lavorare affinché, una volta ritrovati i “propri confini”, il paziente possa essere in grado di uscire e di ritrovare una dimensione intersoggettiva. A seconda di una maggiore o minore fragilità dell’Io e della maggiore o minore necessità di un lavoro di ricompattamento del Sé all’interno della comunità (area del privato), i tempi con cui avviare e favorire un interfacciarsi con l’esterno della comunità (area del pubblico) possono essere più o meno lunghi e variabili.

Questo rapporto tra pubblico e privato si sviluppa, in base alla nostra osservazione ed esperienza clinica, secondo strade diverse e sempre uniche per ciascun paziente che vengono declinate nel Progetto Terapeutico Individualizzato.

L’incontro per l’elaborazione del Progetto Terapeutico Personalizzato diviene luogo dell’integrazione e della definizione dei Ruoli dei vari attori in gioco, nell’interfaccia tra comunità (privato) e territorio (pubblico). Il PTR, infatti, comprende sia la declinazione dell’intervento da svolgersi all’interno della comunità, sia l’identificazione dei compiti clinici e riabilitativi da effettuare all’esterno di essa, durante il periodo di permanenza del paziente in struttura.

Dopo il primo mese di accoglienza in comunità, infatti, viene effettuato il primo incontro congiunto tra équipe della comunità ed équipe del territorio per la stesura del Progetto Personalizzato. A tale incontro partecipano perciò membri della microequipe del CPS - territorio che è composta dallo psichiatra inviante che ha in carico il paziente, dall’infermiere o educatore che seguiva in precedenza il paziente sul territorio, e dallo psicologo. Alla luce delle osservazioni raccolte nel primo mese di permanenza del paziente in comunità, viene formulato il primo PTR. In tal modo, il paziente vive in comunità, ma mantiene un aggancio concreto col territorio esterno, che prende parte attiva nel progetto di terapia e nel programma personalizzato anche nei mesi in cui il paziente rimarrà in comunità.

I vantaggi di un tale approccio sono legati al fatto che il Programma Personalizzato viene rivisto ogni 4 mesi. Inoltre, poiché tutti gli operatori fanno parte dello stesso Dipartimento, quando la situazione lo necessita, possono facilmente confrontarsi attraverso ulteriori incontri e scambiare opinioni e informazioni; la formazione comune, poi, permette di affrontare la situazione clinica in modo molto integrato. La supervisione effettuata con tutti i membri della micro-equipe che si occupa del caso (operatori della Comunità - area del privato – e del Cps/territorio - area del pubblico) diviene un momento significativo per leggere le dinamiche interne ed esterne alla comunità e serve per registrare e ripuntualizzare il lavoro integrato.

Il PTR nasce perciò dall’incontro e dall’integrazione tra gli operatori invianti del CPS, depositari della storia, dei motivi dell’invio, della comprensione delle problematiche attuali del paziente, e gli operatori che effettuano un percorso e sviluppano un cammino di cura e conoscenza del paziente in comunità in tutte le sue sfaccettature; attraverso questi incontri, in armonia con i curanti esterni, si possono individuare i luoghi e i tempi più adeguati per ciascun soggetto per intervenire dentro o fuori dalla comunità.

Ritornando alla comunità e alla dimensione privato/pubblico:

A seconda della maggiore o minore fragilità dell’Io, la dimensione del privato del paziente, giocata all’interno della comunità come luogo terapeutico che ricompatta il sé, è amplificata e utilizzata per filtrare il contatto con il pubblico, con gli stimoli esterni. Secondo la nostra esperienza, tanto più è grave lo stato di frammentazione interno del paziente, tanto più si lavorerà dentro la comunità in ambito privato; tanto più è solido e forte il sé del paziente, invece, e meno grave dal punto di vista clinico, tanto più sarà possibile aprirsi precocemente all’esterno ed alla dimensione del pubblico.

Se infatti il paziente è affetto da problematiche interne più gravi come nel caso della patologia psicotica, è necessario che egli prioritariamente “sistemi”, riordini, il proprio mondo interno attraverso un’esperienza più intima, di maggior coesione, come può essere quella della vita all’interno della comunità, con la sua quotidianità e i suoi ritmi, dando in questo modo spazio e tempo alla dimensione del privato prima di accedere all’area del pubblico; qui può “accasarsi” e depositare le proprie parti scisse in un luogo in grado di aiutarlo a trovare un’unità ed una coerenza interna, recuperare in seguito l’aspetto più sociale/pubblico.

Si potrebbe dire che la comunità, proprio perché lavora bene sul privato, mette poi il paziente nelle condizioni di accettare il pubblico o di necessitare di ritrovarlo.

La funzione della comunità diventa allora duplice: da un lato deve prioritariamente ricompattare e ricomporre un “dentro”, per poi riuscire a creare una cerniera di congiunzione con l’esterno. La comunità deve prima aiutare il paziente a riconoscere e distinguere il dentro dal fuori stimolando la ricostruzione di una pelle che tenga dentro ciò che appartiene al Sé, per poi svolgere la funzione di “cerniera” con l’esterno mettendo il paziente di nuovo a contatto con la dimensione pubblica.

Il caso di Luca: Caso emblematico di un paziente arrivato in CRA dopo un mancato suicidio da ustione (si è dato fuoco). Non esisteva più letteralmente la pelle in alcuni punti del corpo, che è stata ricostruita attraverso dolorossimi interventi, ma ancor più pesantemente e manifestamente mancava una pelle interna che riuscisse a creare uno spazio per contenere il mondo interno del paziente prima dell’atto . Luca viveva infatti in un mondo di ipereccitazione sessuale frequentava in modo disordinato molti ragazzi, viveva in un mondo in cui l’apparire l’essere piacenti permetteva di essere al centro dell’attenzione e del desiderio altrui , ma senza coltivare e cogliere i propri veri bisogni interni. Il paz., proiettava i propri bisogni scissi in luoghi e in situazioni promiscue senza riuscire riconoscere quasi nulla del proprio modo interno e dei propri bisogni emotivi, mai realmente riconosciuti da una madre troppo ansiosa e troppo formale, apparentemente perfetta e moralmente irreprensibile che non si è mai realmente accostata al mondo emotivo del figlio. Luca dopo una frustrazione amorosa al culmine di questo caos emotivo e in preda a vissuti di onnipotenza: “o la vita mi dà tutto quello che chiedo oppure mi tolgo la vita “effettua il gesto. Luca ha avuto bisogno di una campana di vetro di un contenimento quasi fisico e certamente emotivo, per riuscire ad accedere e sentire il proprio modo interno per riconoscerlo dopo aver avuto ricicatrizzata la propria pelle.



In casi come questo perciò di enorme fragilità del sé, la fase del “ricompattamento, dell’accasamento impone che non ci sia un esterno, in attesa che poi la comunità possa espletare al momento giusto la sua funzione di cerniera con l’esterno (concretamente per esempio con questo paziente si è lavorato inizialmente dando permessi molto limitati fuori dalla comunità, si è cercato di creare un ambiente ipostimolante anche attraverso un progetto che dava più spazio ad attività interne rilassanti ed emotivamente poco eccitanti, ma molto rassicuranti; si è concordato inoltre la chiusura delle chat per interrompere il ponte con il mondo ipereccitato ipersessualizzato dei mesi precedenti, lavorando col paziente sulla consapevolezza e sulle criticità della propria situazione interna, lentamente si è fatto un cammino con lui per riguadagnare il sapore delle piccole cose, dei piccoli obiettivi; ciò ha permesso al paziente di guardare con più tranquillità al proprio mondo interno, di riscoprire nuove attitudini, nuovi interessi e di riaffacciarsi gradualmente al pubblico, alla luce però di una maggior conoscenza di sé e dei propri bisogni e delle proprie fragilità in modo da ridare spessore, senso e significato a questo pubblico ricontattato.

Il percorso dal privato al pubblico diventa un graduale passaggio da pseudo relazioni con parti di sé proiettate negli altri in cui manca un riconoscimento autentico dell’atro, a una dimensione più autenticamente intersoggettiva in cui lo scambio diviene veramente arricchente per il sé.

Questo percorso avvia a un maggior riconoscimento della realtà e una maggior capacità di sopportare le frustrazioni e di mediare con essa rinunciando a dinamiche improntate all’identificazione proiettiva (privato che diventa pubblico in un caos totale di vicendevoli attribuzioni). Negli incontri di verifica del progetto personalizzato in alcuni casi si è preso atto che un’apertura troppo precoce al modo esterno può determinare ansia e paura e può di fatto far regredire il paziente ad una situazione di malessere che necessita di una maggiore protezione.

Vedi per esempio il caso di Marzia, paziente con pregressi episodi di psicosi, molto ben conservata rispetto alle capacità residue, giovane e non cronica, a cui abbiamo dato forse troppo precocemente il permesso di uscire dalla comunità e di vivere un’esperienza a contatto con il mondo esterno (i volontari) e che al rientro in comunità a fronte di questa improvvisa apertura si è di nuovo congelata, bloccata, perché spaventata dal contatto con persone “vitali, piene di entusiasmo, piene proprio di quella vitalità e quella forza creativa sana che a lei sembra mancare”, il confronto con la realtà la fa sentire “deficitaria” e da qui una nuova chiusura.

Queste osservazioni al momento dell’incontro di verifica per il PTR diventano preziose per determinare il timing corretto per iniziare il lavoro sul territorio sia esso di tirocinio lavorativo o di ricerca della casa per la residenzialità leggera. La paziente, infatti, nel caso specifico, necessitava ancora di un periodo di lavoro all’interno della comunità per conoscersi meglio e prendere contatto con le proprie carenze, sentirsi sostenuta nelle sue fragilità, riconoscere i propri punti di forza, recuperare fiducia nelle proprie possibilità, elaborare i traumi più evidenti.

Se viceversa il paziente è giunto in comunità per raggiungere obiettivi definiti e parte da una situazione interna di maggior stabilità è possibile favorire un aggancio con l’esterno in modo piuttosto celere e lavorare per esempio per ricomporre situazioni conflittuali che hanno comportato elementi di rottura o di difficoltà col pubblico siano essi amici, famiglia, lavoro, attraverso una presa di contatto con la rete sociale utilizzando la mediazione dell’educatore, piuttosto che dell’assistente sociale e arricchendo la conoscenza sul paziente da parte del terapeuta del territorio attraverso uno sguardo nuovo che viene dall’osservazione interna del paziente in comunità .

Per alcuni ospiti perciò è possibile avere fin dall’inizio un rapporto stretto tra il dentro della comunità (recupero della dimensione interna, riordino del proprio caos, ricomposizione delle proprie parti interne) e il fuori (rapporti con i familiari , con gli amici, con i curanti esterni del territorio, con il recupero delle abilità sociali) in un osmosi naturale in cui il fuori convive e si integra armoniosamente con la vita interna della comunità. Questa dimensione è più facilmente praticata con pazienti che presentano disturbi di personalità border-line, o pazienti con patologie meno gravi .

Silvio, paziente con d. di personalità, ha trovato nella comunità un luogo organizzante e rassicurante; ha cominciato con l’aiuto degli operatori a riordinare i rapporti con i familiari, facendo luce sugli aspetti di attaccamento dipendente e lavorando sui comportamenti e gli agiti impulsivi. Insieme a noi ha cercato di chiarire la natura dei conflitti disseminati caoticamente in varie aree della sua vita relazionale con i vicini, l’ex partner, il padre con cui aveva violenti scontri verbali quando veniva contraddetto. Durante la permanenza in comunità Stefano ha mantenuto uno stretto rapporto con i propri familiari e con gli amici esterni, ha iniziato a fare chiarezza cercando di comprendere i messaggi ambivalenti e contradditori di queste relazioni, senza contro reagire impulsivamente. L’esterno, il pubblico non è stato perso, ma è stato vissuto in modo più funzionale. Le osservazioni sul paziente. conosciuto in un ambito nuovo, meno conflittuale e meno caotico rispetto a quello familiare hanno permesso di costruire un Progetto personalizzato in cui la comunità è diventata il luogo della condivisione, la torre di controllo da cui sono partite le indicazioni e gli interventi adeguati, che hanno visto la collaborazione di diversi operatori appartenenti ora al dentro della comunità, ora al territorio e che rispondevano ai diversi bisogni del paziente.

Un’altra interessante declinazione del concetto privato e pubblico non è solo riferita al dentro o al fuori della comunità, ma alla modalità di “articolazione” della mente: lo spazio dell’incontro, dello scambio, della comunicazione, versus lo spazio dell’intimità dell’intrapsichico. Caso di Marco. Il paziente ha trasferito il proprio soliloquio delirante dalle mura private della propria stanza di casa, in cui ha vissuto per oltre 15 anni, allo spazio allargato della comunità; qui ha reso pubbliche le sue allucinazioni e i suoi deliri, in un luogo però in cui il confronto ha potuto diventare terapeutico, perché parlando dei suoi vissuti di persecuzione di sfortuna cosmica, si è confrontato, ha cominciato a meglio differenziare i suoi pensieri e il delirio da vago, destrutturato è diventato sempre più preciso ma meno invasivo.

Marco delira ora in comunità, ma mantiene un comportamento adeguato al CPS e all’interno dello studio della psicologa con cui effettua colloqui settimanali. Quindi in questo caso il privato diventa pubblico, ma ridiventa privato perché rimane confinato in questo spazio e dentro un ambito terapeutico in cui gli elementi confusi del delirio diventano, nel confronto con gli altri, e con gli operatori della comunità, sempre meno confusi e distruttivi, ma anzi creano un ponte per effettuare un aggancio relazionale più saldo.

In conclusione la garanzia di rapporto tra dentro e fuori tra privato e pubblico, è data nella nostra esperienza, dal permanente rapporto di integrazione col territorio, nel rispetto dei tempi di ciascun paziente. Confrontarsi su ciò che è divenuto comunicabile, esportabile e utilizzabile fuori dalla comunità permette di non perdere quello che si è acquisito dentro la comunità e che diviene patrimonio di crescita per il fuori nella dimensione pubblica, quando il dentro, la dimensione privata, ha ritrovato una sua più chiara definizione e identità.




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