Storia del Cristianesimo


La critica del sacerdozio



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La critica del sacerdozio

Di fronte alle esigenze della missione sacerdotale, vi furono sempre sacerdoti indegni del loro compito, e i profeti si incaricarono di stigmatizzarne le deficienze:

contaminazione del culto di YHWH con gli usi cananei nei santuari locali di Israele (Os 4,4-11; 5,1-7; 6,9);

sincretismo pagano a Gerusalemme (Ger 2,26-28; 23,11; Ez 8);

violazioni della Torah (Sof 3,4; Ger 2,8; Ez 22,26);

opposizione ai profeti (Am 7,10-17; Is 28,7-13; Ger 20,1-6; 23,33-34; 26);

interesse personale (Mi 3,11; cfr. 1Sam 2,12-17; 2Re 12,5-9);

mancanza di zelo per il culto di YHWH (Mal 2,1-9).

Tali rimproveri non possono essere spiegati semplicemente come polemica tra due caste opposte, profeti e sacerdoti, e per vari motivi:

Geremia ed Ezechiele sono sacerdoti;

i sacerdoti, che hanno redatto il Deuteronomio e la legge di santità hanno manifestamente cercato di riformare la loro propria categoria.

Negli ultimi secoli del giudaismo, poi, la comunità di Qumràn, che si stacca dal tempio opponendosi al "sacerdote empio", è una setta sacerdotale.



L'ideale sacerdotale

Le critiche dei profeti sono ispirate da un alto ideale sacerdotale: i profeti ricordano ai sacerdoti loro contemporanei i loro obblighi: esigono da essi il culto puro e la fedeltà alla Torah. I legislatori sacerdotali definiscono la purità e la santità dei sacerdoti (Ez 44,15-31; Lev 21; 10).

Il popolo di Dio dell'Antico Testamento è ben cosciente che l'uomo è da se stesso incapace della purità e della santità che Dio gli chiede. Perciò è da Dio stesso che si attende in definitiva la realizzazione del sacerdozio perfetto nel giorno della restaurazione (Zc 3) e del giudizio (Mal 3,14):

si attende il sacerdote fedele a fianco del Messia figlio di Davide (Zc 4; 6,12-13; Ger 33,17-22).

La speranza dei due messia di Aronne e di Israele appare più volte anche negli scritti di Qumràn, ed in uno scritto apocrifo, i Testamenti dei patriarchi. In questi testi, così come in parecchi ritocchi apportati a testi biblici (Zc 3,8; 6,11), il messia sacerdotale prende il sopravvento sul messia re'.

Questo primato del sacerdote è in armonia con un aspetto essenziale della dottrina dell'alleanza:

Israele è il "popolo-sacerdote" (Es 19,6; Is 61,6; 2Mac 2,17-18), il solo popolo al mondo che assicuri il culto del vero Dio; nel suo perfezionamento definitivo esso renderà a YHWH il culto perfetto (Ez 40-48; Is 60-62; 2,1-5). Come potrebbe il popolo giungere a ciò senza un sacerdote alla testa?

Il compimento in Cristo, sommo ed eterno sacerdote

La tensione verso un compimento giunge a destinazione in Gesù. Sebbene egli non si attribuisca mai il titolo di sacerdote, definisce però la sua missione con termini sacerdotali:

la sua morte è un sacrificio nella linea di Is 53 (Mc 10,45; 14,24) e del sacrificio di alleanza del Sinai ({{pb|Mc|14,24; cfr. Es 24,8); il sangue che annuncia che verserà evoca quello dell'agnello pasquale (Mc 14,24, cfr. Es 12,7.13.22-23);

Gesù svolge funzioni sacerdotali anche nel servizio della Torah, che egli viene a compiere (Mt 5,17-18) superandola (Mt 5,20-48).

Tutto il Nuovo Testamento parla della morte di Gesù in termini sacrificali, e soprattutto la Lettera agli Ebrei svolge ampiamente il tema del sacerdozio di Cristo.

I discepoli di Gesù formano il nuovo "sacerdozio regale" (1Pt 2,5-9; Ap 1,6; 5,10; 20,6) che offre a Dio il vero culto spirituale (Rm 12,1; cfr. Fil 3,3; Eb 9,14; 12,28).





I sacerdoti nell'ebraismo odierno

Secondo l'ebraismo ortodosso, con la distruzione del secondo tempio nel 70 d.C. e la cessazione dei sacrifici ebraici, la maggior parte delle funzioni sacerdotali è sospesa in attesa della ricostituzione del Terzo Tempio ad opera del Messia.

Attualmente le uniche funzioni sacerdotali rimaste sono la Benedizione e la riscossione del riscatto dei primogeniti;

gli unici privilegi sacerdotali ancora in vigore sono l'onore che è loro dovuto e la precedenza nella salita alla lettura della Torah nel culto sinagogale.

Tra gli ebrei contemporanei sono molti quelli che vantano un'ascendenza aronnide e dunque sacerdotale.

Nazoreo


In Vangeli e Atti Gesù è chiamato 13 volte[15] "Nazoreo" (ναζωραῖος, nazoràios). Al sostantivo sono stati attribuiti diversi significati:

l'interpretazione data all'interno dello stesso Nuovo Testamento (vedi 2,23) è che si riferisca alla città di Nazaret, dunque che equivalga a 'Nazareno' o 'di Nazaret', e per questo la Vulgata e diverse traduzioni moderne (vedi Bibbia CEI) lo rendono in tal senso.

è possibile che il termine non abbia un valore geografico ma indichi che Gesù era un nazireo, cioè avesse fatto uno speciale voto di consacrazione chiamato nazireato. Una conferma indiretta si troverebbe nella Sindone che, se autentica, mostrerebbe Gesù con i capelli lunghi, caratteristica non comune che contraddistingueva appunto i nazirei. Di contro, nella Settanta il nazireo è reso in greco con ναζιραίος (naziràios, 1Mac 3,49) o ναζιρ (nazir, Gdc 13,5), non col neotestamentario ναζωραῖος (nazoràios).

secondo una terza teoria, "Nazareno" era il titolo corrispondente al livello di Maestro presente all'interno della comunità degli Esseni. Tale teoria si basa sullo studio dei rotoli del Mar Morto, ritrovati presso Qumran nel 1946 ed è suffragata dal fatto che secondo dei recenti ritrovamenti archeologici Nazaret era citata come come uno dei luoghi in cui risiedevano le classi sacerdotali (vedi voce Nazaret).

Nazireato

Il Nazireato è una forma di voto, di consacrazione a Dio (1Mac 3,49), le cui modalità di trovano nell'Antico Testamento; chi lo pratica è detto nazireo.

I più famosi nazirei furono Sansone e, forse, San Giovanni Battista.




Obblighi

Gli obblighi inerenti a questo voto sono illustrati nell'Antico Testamento, e principalmente nel Pentateuco, principalmente in Nm 6,1-21: il nazireo non può bere vino[1], né aceto, né liquori, non può mangiare uva né alcun altro prodotto della vigna; inoltre non può avere contatti con cadaveri[2] e deve lasciarsi crescere i capelli.

Normalmente il voto di nazireato era temporaneo: allo scadere del tempo prescritto, il nazireo offriva un sacrificio a YHWH e, in prossimità dell'altare, si rasava i capelli e li bruciava nel fuoco del sacrificio.

Il brano dei Numeri poi inoltre le istruzioni su cosa fare nel caso che, toccando un cadavere, si sia infranto il voto.

Significato

I nazirei sono visti come un dono fatto al popolo d'Israele, alla stessa maniera dei profeti. Il profeta Amos si lamenta del fatto che il popolo ha profanato i nazirei facendo bere loro vino e ha zittito i profeti (2,11-12).

Figure di nazirei

Fu nazireo Sansone (Gdc 13-16), e lo fu per tutta la vita, fin dal seno di sua madre (Gdc 13,5). Il dono del nazireato è in lui orientato alla missione di giudice che riceve, per liberare il paese dei Filistei. Nel momento in cui li verrà rasata la testa[3] perderà la forza e l'appoggio di YHWH.

Anna, la madre di Samuele promette a YHWH a Silo di consacrare a lui il figlio che sta impetrando, e di non passargli il rasoio sul capo (1Sam 1,11).

I recabiti osservano l'astinenza perpetua dal vino (Ger 35,6).

Sull'annuncio della nascita di Sansone (Gdc 13,1-5) è modellato letterariamente l'annuncio della Giovanni Battista (Lc 1,5-19). Non si parla espressamente di nazireato, ma viene presentata la prescrizione di non bere vino né bevanda inebriante (Lc 1,15) che, secondo l'opinione comune, colloca Giovanni tra i nazirei.

Anche Paolo di Tarso fece, in un determinato momento della sua vita, il voto di nazireato (cfr. At 18,18; cfr. 21,23-24).

Nazareno

Per 4 volte Gesù viene detto "di/da Nazaret" (από/ὲκ Ναζαρέτ/Ναζαρέθ, apò / ek Nazarèt), e altre 6 volte è detto "Nazareno" (ναζαρηνός, nazarenòs, nella Vulgata Nazarenus). Secondo la tradizione cristiana, l'espressione e l'aggettivo sono riferiti alla città di origine di Gesù, Nazaret. Alcuni storici moderni tuttavia contestano che la città di origine di Gesù fosse chiamata Nazaret o si identifichi con l'odierna Nazaret.



Luogo di origine di Gesù

Con luogo di origine di Gesù si può intendere sia il luogo dove Gesù è nato sia quello dove è risieduto prima di intraprendere la sua attività di predicatore itinerante. Le uniche fonti storiche che l'accennano, i vangeli canonici (ripresi dai leggendari vangeli apocrifi), il luogo di nascita è Betlemme di Giudea (Mt 2,1; Lc 2,4-7; Gv 7,41-42), mentre Nazaret di Galilea è il luogo dove ha trascorso la vita privata guadagnandosi l'epiteto di Nazareno. Durante la sua vita pubblica invece la sua residenza era Cafarnao (Mt 4,13 e passim).

In epoca moderna studiosi laici e cristiani hanno ipotizzato come luogo di nascita di Gesù Nazaret o altre località della Galilea. Anche come luogo di residenza di Gesù alcuni studiosi hanno proposto località alternative da quella evangelica, ipotizzando che lo stesso villaggio di Nazaret non esistesse ancora al tempo di Gesù e che l’appellativo di Nazareno non si riferisca al luogo della sua nascita o di residenza.

Luogo di nascita nei Vangeli

All'interno del Nuovo Testamento la nascita di Gesù è descritta esplicitamente solo nel cap. 2 di Matteo e di Luca. I due vangeli appaiono discordanti nella narrazione ma forniscono elementi comuni: i nomi di Giuseppe e Maria, il concepimento verginale di Gesù, la nascita a Betlemme al tempo di Erode, la residenza a Nazaret.

Marco

Il Vangelo secondo Marco, il più antico dei vangeli, non descrive l’infanzia di Gesù, ignora completamente Betlemme e nomina espressamente una sola volta Nazaret (1,9) scrivendo che «in quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato da Giovanni nel Giordano».

In un altro passo scrive che dopo aver predicato in Galilea «andò nella sua patria (πατρίς) e i discepoli lo seguirono» (Mc 6,1). Quale sia la "patria" non è espressamente detto da Marco né nei passi paralleli di Gv 4,44 e Mt 13,54-57. Luca invece precisa in 4,16-30 che Gesù "venne a Nazarà (variante aramaica di Nazaret) dove era stato allevato" (tetramménos, participio del verbo tréfo, allevare, vedi p.es. "orfanotrofio").

Sulla base di questo silenzio sulla nascita di Gesù gli esegeti cristiani non deducono da Marco elementi validi per stabilirne il luogo di nascita e, sulla base del passo parallelo di Lc 4,16, interpretano l'accenno alla "patria" di Mc 6,1 non come città di nascita ma di residenza.

Per altri storici, al contrario, il riferimento a Nazaret (esplicito in Mc 1,9 e implicito in Mc 6,1, intendendo "patria" come luogo di nascita) sono decisivi per affermare la nascita di Gesù a Nazaret, o quanto meno, per escludere la sua nascita a Betlemme, affermata da Matteo e da Luca.

Matteo

Diversamente dal Vangelo di Marco, il Vangelo di Matteo premette al ministero pubblico il racconto della nascita di Gesù preceduto dall'annunciazione a Giuseppe da parte di un angelo.

Matteo non precisa in quale città siano avvenuti il concepimento di Maria e l’annunciazione a Giuseppe ma poi scrive che «Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode» (Mt 2,1).

In seguito Matteo descrive l'Epifania, cioè la visita alla famiglia dei Magi mandati da Erode (Mt 2,1-12). Il luogo dell'incontro è «nella casa» di Betlemme (Mt 2,1-11). Quindi segue il racconto della fuga in Egitto per fuggire dalla cosiddetta strage degli innocenti ordinata da Erode (Mt 2,16-18), episodio considerato realmente avvenuto dagli storici confessionali ma inesistente per gli altri che al riguardo rilevano il silenzio di Giuseppe Flavio e notano la parallela leggenda della nascita di Mosè (Es 1,15-18).

Una volta morto Erode la famiglia torna nella terra d'Israele (Mt 2,19-23). Giuseppe però decide di non andare in Giudea, avendo paura di tornarvi perché lì regnava Archelao figlio di Erode e allora, "avvertito in sogno da un angelo", decide di recarsi in Galilea stabilendosi con la famiglia a Nazaret.

Nella descrizione di tutti questi eventi Matteo si cura di precisare, implicitamente o esplicitamente, che rappresentano compimenti di profezie precedenti: il concepimento verginale di Maria (Is 7,14;Mt 1,22-23); la nascita a Betlemme (Mi 5,1; Mt 2,5); il "suo astro" (Nm 24,17; Mt 2,2); la visita dei Magi (Is 60,6; Mt 2,11); la strage degli innocenti (Ger 31,15; Mt 2,17-18); la fuga in Egitto (Os 11,1; Mt 2,15); la residenza a Nazaret (Mt 2,23). Anche il precedente racconto della genealogia di Gesù (Mt 1,1-17) ha una funzione di raccordo con l'Antico Testamento (è stato osservato che se Gesù non è nato da Giuseppe, ma dallo «spirito di Dio», non dovrebbe avere più senso la genealogia che lega il padre alla dinastia di Davide.)

Secondo la teoria delle due fonti, attualmente prevalente tra studiosi ed esegeti, Matteo (che si rivolge principalmente a Giudei e giudeo-cristiani) ha redatto il suo vangelo in seguito a quello di Marco e basandosi su esso.[5] Indipendentemente dal valore storico degli eventi narrati, l'aggiunta della nascita a Betlemme e la precisazione dei compimenti delle profezie è necessaria all'esigenza della comunità di giudeo-cristiani di accordare la figura di Gesù con le profezie vetero-testamentarie che attendevano un Messia nato a Betlemme e discendente da Davide, anche in polemica con i Giudei che non ne hanno riconosciuto la dignità di Messia.




Luca

Giotto, affresco sulla natività nella Cappella degli Scrovegni, 1266. Maria depone Gesù neonato in una mangiatoia.

Il Vangelo di Luca fornisce una versione differente da Matteo degli eventi della nascita di Gesù ma concorda sulla località di Betlemme. Al momento dell'annunciazione a Maria, sia questa (esplicitamente) che Giuseppe (implicitamente) si trovano a Nazaret (Lc 1,26-27), che sembra la loro residenza. Quindi Luca menziona il censimento indetto da Augusto, al tempo di Quirinio (vedi Censimento di Quirinio), che costringe Giuseppe e Maria a recarsi a Betlemme in Giudea (Lc 2,1-5). Il motivo del viaggio sembra dovuto al fatto che il censimento non era residenziale ma in base alla città d'origine. A Betlemme nasce Gesù in una stalla (Lc 2,6-7): quest'ultimo particolare non è esplicitato da Luca ma viene accennata la mangiatoia (presepe in latino) per gli animali.

Alla nascita segue l'adorazione dei pastori, la circoncisione di Gesù e la presentazione al tempio. Al termine la famiglia ritorna a Nazaret, "la loro città" (Lc 2,39). Non vi è accenno a Magi e fuga in Egitto.







La Betlemme di Galilea

In Galilea esisteva un’altra Betlemme, chiamata anche Betlemme di Nazar, a undici chilometri da Nazaret, menzionata in Giosuè (Gs 19,15), e il Cheyne[9] suggerì una possibile nascita di Gesù in questo paese, ma l’ipotesi non ha avuto seguito.



Giovanni

Nel Vangelo di Giovanni, come in quello di Marco, non è descritta la nascita di Gesù. Tuttavia viene nominata Betlemme dai suoi avversari Giudei:



« Altri dicevano: «Questi è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?». »

(Giovanni 7,41-42)

Secondo gli esegeti cattolici, in questo passo bisogna vedervi l'ironia che caratterizza talvolta la narrazione di Giovanni: gli avversari rifiutano che Gesù sia il Messia notando come, a loro dire, non fosse originario di Betlemme, che secondo Mi 5,1 è la città di origine del Messia, mentre il lettore che conosce i racconti dell'infanzia di Matteo e Luca vede nel loro rifuto un'involontaria (e ironica) affermazione della messianicità di Gesù.

Questa interpretazione è respinta da esegeti laici e protestanti: per essi, Giovanni non ritiene che Gesù sia originario di Betlemme e rileva l'incomprensione dei Giudei della reale figura di Gesù, che non ha bisogno né di essere nato a Betlemme né di discendere da Davide.

La nascita nei vangeli apocrifi

Anche nei cosiddetti vangeli apocrifi dell'infanzia viene descritta la nascita di Gesù, arricchendola di particolari e aspetti miracolistici. Data la tarda età di composizione e il prevalere dell'interesse magico-fiabesco, il valore storico di questi testi è pressoché nullo.

Il Protovangelo di Giacomo (metà II secolo) armonizza la narrazione di Matteo (Magi e persecuzione di Erode) e Luca (censimento). Quanto al luogo, la nascita avviene a Betlemme in una grotta (cc. 17 - 18), non in una stalla come suggerito da Lc 2,7. Questo particolare, assente nei vangeli canonici, è diventato un elemento importante nella rappresentazione del presepe. L'architettura della Basilica della Natività di Betlemme conferma questa tradizione. Tale particolare non deve essere necessariamente visto come in antitesi con l'altra diffusa tradizione popolare della nascita in una stalla basata su Luca: l'orografia della Palestina è caratterizzata da numerose piccole grotte che venivano spesso usate come dispense o piccole stalle, sovente ampliate e incorporate in costruzioni in muratura.

Il tardo Vangelo arabo dell'infanzia (probabilmente VIII-IX secolo) riprende dal Protovangelo la nascita a Betlemme in una grotta (c.2).

Nel tardo Vangelo dello pseudo-Matteo (VIII-IX secolo) la tradizione della grotta del Protovangelo viene armonizzata con quella della stalla dei vangeli canonici: a Betlemme Maria partorisce il bambino in una grotta (c. 13), quindi il terzo giorno si trasferiscono in una stalla (c.14) dove sono presenti l'asino e il bue poi diventati tradizionali.




Storicità della nascita a Betlemme

Secondo la tradizione cristiana i racconti di Mt2 e Lc2 non devono essere intesi come antitetici ma complementari. In essi compaiono creature e fenomeni soprannaturali e altri elementi tipicamente leggendari (angeli, "il suo astro", la persecuzione dell'eroe neonato). È innegabile inoltre che gli evangelisti (soprattutto Matteo) abbiano l'implicito (Mt 2,2=Nm 24,17;Mt 2,11=Is 60,6) ed esplicito (Mt 2,5; 2,15; 2,17; 2,23) intento di dimostrare la messianicità di Gesù tramite l'avveramento di profezie dell'Antico Testamento, ma questo non deve essere necessariamente inteso come motivo di a-storicità. In definitiva secondo la tradizione cristiana e molti studiosi moderni sulla base della convergenza delle differenti narrazioni di Mt e Lc, che rappresentano le uniche fonti storiche relative alla nascita di Gesù, il luogo di nascita di Gesù è Betlemme.

Al contrario, studiosi laici contemporanei e alcuni cristiani privano di valore storico i racconti dell'infanzia. Secondo questi studiosi, l'affermazione della nascita a Betlemme non è un dato storico ma un simbolo teologico della messianicità davidica di Gesù. Alcuni hanno ipotizzato come luogo di nascita di Gesù Nazaret in Galilea o altre località. Altri studiosi, pur non indicando una località, hanno comunque escluso che potesse essere nato a Betlemme.

Sito tradizionale della nascita a Betlemme

La tradizione cristiana colloca la nascita di Gesù a Betlemme nel luogo racchiuso all'interno della Basilica della Natività, fatta costruire dall'augusta Elena nel IV secolo. Il punto preciso si trova in una grotta sotto la basilica, contrassegnato da una stella d'argento con l'incisione latina "VERBUM CARO HIC FACTUM EST", "qui il verbo si è fatto carne". La localizzazione si basa sulla sola tradizione cristiana e non può essere dimostrata in altro modo.

Luogo di residenza nei Vangeli: Nazaret

Circa il luogo di residenza di Gesù durante la sua vita privata pre-ministeriale, i Vangeli riferiscono che viveva con la famiglia a Nazaret (Mt 2,23; 4,13;Mc 1,9;Lc 1,26; 2,4; 2,39.51;Gv 1,45-46). Inoltre per 4 volte (Mt Mt 21,11; Mc 1,9; Gv 1,45; At 10,38) Gesù viene detto "di/da Nazaret" (από/ὲκ Ναζαρέτ/Ναζαρέθ, apò / ek Nazarèt). Altre 6 volte (Mc Mc 1,24; 10,47; 14,67; 16,6; Lc 4,34; 24,19) è detto "Nazareno" (ναζαρηνός, nazarenòs, nella Vulgata Nazarenus). L'aggettivo nazarenòs non deriva direttamente dal toponimo Nazaret (ci si dovrebbe aspettare nazaretanòs) ma dalla sua variate aramaica Nazarà, testimoniata in Mt 4,13;Lc 4,16 (reso nelle versioni bibliche moderne con Nazaret per uniformità).

Secondo la tradizione cristiana, l'espressione e l'aggettivo sono riferiti alla città di origine di Gesù, Nazaret. Alcuni storici moderni tuttavia contestano che la città di origine di Gesù fosse chiamata Nazaret o si identifichi con l'odierna Nazaret.

Gesù "Nazoreo"

In Vangeli e Atti Gesù è chiamato 13 volte[18] "Nazoreo" (ναζωραῖος, nazoràios). Al sostantivo sono stati attribuiti diversi significati:



  • l'interpretazione data all'interno dello stesso Nuovo Testamento (vedi Mt 2,23) è che si riferisca alla città di Nazaret, dunque che equivalga a 'Nazareno' o 'di Nazaret', e per questo la Vulgata e diverse traduzioni moderne (vedi Bibbia CEI) lo rendono in tal senso.



  • è possibile che il termine non abbia un valore geografico ma indichi che Gesù fosse un nazireo (=separato, consacrato a Dio), cioè avesse fatto uno speciale voto di consacrazione chiamato nazireato.[20] Una conferma indiretta si troverebbe nella Sindone che, se autentica, mostrerebbe Gesù con i capelli lunghi, caratteristica non comune che contraddistingueva appunto i nazirei. Di contro, nella Settanta il nazireo è reso in greco con ναζιραίος (naziràios, 1Mac 3,49) o ναζιρ (nazir, Gdc 13,5), non col neotestamentario ναζωραος (nazoràios).



  • il termine greco "Nazoreo" può derivare dalla parola ebraica netzer, significante "germoglio" o "ramo", che sulla base di Is 11,1;Ger 23,5 aveva una valenza messianica.



  • il termine "Nazoreo" è usato già nel Nuovo Testamento come sinonimo di "cristiano", cioè seguace di Cristo (At 24,5), e in seguito passa a indicare alcuni gruppi di giudeo-cristiani (Epifanio, Contro le eresie, 29,7,9). È possibile che l'etimologia del termine fosse lo stesso ebraico nazir (=separato) che sottende a "nazireo", inteso però in senso negativo come "separato", "scismatico". È possibile (ma non probabile, data l'accezione negativa che aveva) che il termine sia stato retro-proiettato dagli evangelisti come epiteto dello stesso Gesù.

Storicità della residenza a Nazaret

Secondo la tradizione cristiana il luogo nel quale Gesù ha trascorso la sua vita privata pre-pubblica è Nazaret di Galilea, come testimoniato dai Vangeli e dagli altri scritti del Nuovo Testamento, le principali fonti storiche su Gesù. Gesù viene anche indicato col termine di non chiara origine "nazoreo", che può indicare il voto di nazireato oppure può essere un appellativo messianico. Il disprezzo per i Galilei che nutrivano gli Ebrei della Giudea, centro della religione e cultura ebraica, può essere considerato come argomento a favore dell'origine nazaretana di Gesù: gli evangelisti difficilmente avrebbero inventato un'origine così modesta per il Figlio di Dio.

Secondo alcuni studiosi laici moderni, l'appellativo teologico-messianico "Nazoreo", storpiato in "Nazareno", è stato storicizzato dagli evangelisti nell'indicazione del luogo di origine di Gesù a Nazaret. Il vero luogo di origine di Gesù non ci è noto.

Esistenza di Nazaret ai tempi di Gesù

Prima dell'era cristiana il toponimo "Nazaret" non compare in nessuna fonte storica, né nell'Antico Testamento né in altri scrittori non cristiani. Questo ha portato alcuni studiosi laici moderni a considerare "Nazaret" un'invenzione degli evangelisti, che avrebbero storicizzato un titolo teologico-messianico, poi applicato dalla tradizione cristiana al villaggio galilaico indicato fino ad oggi con questo toponimo. Alcuni hanno ipotizzato che lo stesso villaggio non esistesse al tempo di Gesù.

Scavi archeologici compiuti in loco hanno dimostrato che la località era abitata già dal periodo del bronzo medio,[22] anche se non hanno fornito indicazioni sul nome della località.

La più antica testimonianza storica che riferisce il toponimo "Nazaret" è la cosiddetta Lapide di Cesarea ritrovata nel 1962[23] e datata al III secolo, che la identifica come sede di una delle 24 classi sacerdotali poco dopo la rivolta di Bar Kokheba (132-135). All'epoca di Gesù il villaggio con il comprensorio contava al massimo alcune centinaia di abitanti.

Sito della residenza a Nazaret

La tradizione cristiana non ha tramandato dai primi secoli la memoria del luogo dove sarebbe vissuta la sacra famiglia a Nazaret, diversamente dal luogo della nascita (Basilica della Natività a Betlemme) e da quello dell'Annunciazione (Basilica dell'Annunciazione a Nazaret). Una tradizione tardiva (VII secolo) identifica la casa e il laboratorio artigianale di Giuseppe, sede della sacra famiglia fino almeno alla sua morte, col sito dell'attuale Chiesa di san Giuseppe, anticamente nota come Chiesa della nutrizione (di Gesù).

Dio


Dio (Θεός, Theòs) è attribuito a Gesù 7 volte, di cui 4 esplicitamente e 3 tramite perifrasi.

Sulla base di questi passi e della predicazione apostolica, la tradizione cristiana, a partire dal Concilio di Nicea del 325, ha dichiato la consustanzialità di Gesù Figlio a Dio Padre.

L'esegesi cristiana[22] ritiene comunemente che anche l'esclamazione di Gesù "Io Sono" (vedi Mc 14,62; Gv 8,24; 18,5), riecheggiante Es 3,14, è un'implicita autoidentificazione di Gesù con Dio.

Dio è l'essere trascendente che, dopo essersi rivelato al popolo d'Israele, ha inviato nella pienezza dei tempi il suo unico Figlio al mondo nel mistero dell'Incarnazione, e attraverso la sua morte e risurrezione ha riconciliato il mondo con sé; ha poi inviato "lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, a perfezionare la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione".

La ricerca di Dio

Seppure sembri che la tendenza comune dell'uomo nei riguardi del trascendente sia quella dell'indifferentismo religioso e dell'ateismo di massa, lo spirito umano è, per natura sua, orientato verso Dio, e su Dio si è sempre domandato, pur se cercandolo a tentoni (cfr. At 17,27).

Ma la risposta appropriata alle istanze dell'uomo che in Dio cerca di scoprire il senso della propria vita e del suo destino, risiede nel fatto che Dio stesso si è rivelato, e che ben poco si potrebbe dire di lui se non ci fosse espressamente concesso dalla sua automanifestazione e rivelazione. La fede cristiana è certa di aver ricevuto la pienezza della rivelazione nel Figlio di Dio che si è fatto uomo, Gesù Cristo, Via, Verità e Vita, e nel dono della fede che consente all'uomo di aderire a lui.

Nella filosofia

In termini filosofici Dio viene colto come l'Ente Supremo, personale, volitivo e onnipresente, a cui si attribuisce somma perfezione, intelligenza ordinatrice, attività motrice e determinante (provvidenza) e causalità efficiente (creatore). La filosofia e le religioni lo qualificano sommo principio universale, unico.

Nella percezione comune, ma anche nella ricerca filosofica, l'affermazione dell'esistenza di Dio si scontra con il problema del male: se Dio esiste, perché il male? Leibniz ha affrontato il problema nei suoi Trattati di teodicea (1710), e da lì si dice teodicea la riflessione sul problema. Prima di lui del resto tale problema era già stato oggetto di riflessione da parte di molti filosofi e teologi, come Sant'Agostino e San Tommaso d'Aquino.

Nel cristianesimo

La fede cristiana, e specialmente quella cattolica, professa la verità per la quale "Dio è la pienezza dell'Essere e di ogni perfezione".

"Dio solo è"; "Egli solo è il suo stesso essere ed è da Sé Stesso tutto ciò che è"; Dio è il solo veramente esistente. Da ciò consegue che a Dio l'esistenza non è data considerato che non la riceve da altri, donde l'esistenza appartiene in proprio a Dio per cui Egli non la perderà mai in quanto Egli non ha l'esistenza ma è l'esistenza; in altre parole, Dio non ha l'essere ma è l'essere, rectiusìì Egli è l'essere assoluto, cioè sciolto da ogni legame, per cui è l'essere "senza origine e senza fine", ossia senza limite e senza mutazione. All'essere di Dio, come sopra descritto, sono quindi confacenti i seguenti attributi:


  • l'eternità, ossia il non essere limitato dalle dimensioni temporali in quanto, se Dio non fosse eterno, l'essere sarebbe cosa diversa da Lui per ragioni cronologiche;

  • l'immensità, ossia il non essere limitato dalle dimensioni spaziali in quanto, se Dio non fosse infinito, l'infinito stesso eccederebbe l'essere cadendo nel non essere;

  • la perfezione, ossia il non essere limitato dalle dimensioni mutative in quanto, se Dio non fosse perfetto, il Suo essere sarebbe mutabile dato che il perfetto, per definizione, é sia immutabile, altrimenti sarebbe imperfetto, sia semplicissimo cioè privo di composizione la quale presuppone la mutabilità;

  • l'unicità, ossia il non essere limitato dalla presenza di pari in quanto, se Dio non fosse unico, l'essere sarebbe cosa diversa da Lui per ragioni ontologiche.

La conseguenza immediata di tutto ciò è che Dio è creatore, onnipotente, onnipresente (presente in tutto) e trascendente.

Il Dio annunciato dal cristianesimo unisce in una ricca simbiosi l'unità con la molteplicità nella specificità della fede nella Trinità: Dio è il Dio Unico, ma in tre Persone uguali e distinte.

Vi è nella Bibbia, soprattutto nell'Antico Testamento, ma anche in generale nell'umanità, la tendenza ad antropomorfizzare il divino, attribuendo particolari fattezze umane a Dio, ossia descrivendolo con il linguaggio dell'esperienza umana. Una visione corretta sa esprimere il discorso su Dio tenendo presente che quanto noi conosciamo non può mai mettere da parte il mistero di Dio, che tale per l'uomo rimane nonostante Dio si sia fatto conoscere.

Nelle altre religioni

L'unicità e universalità di Dio variano nelle varie esperienze religiose:


  • in alcune visioni Dio è trascendente e, per ciò stesso, alieno dal prendere iniziative sulla storia (deismo);

  • in alcune visioni Dio è trascendenza, cioè è 'Altro dalla storia e dal mondo, pur avendo relazione con il mondo;

  • in altre è causalità assoluta che toglie spazio alle cause seconde (creazionismo);

  • in altre ancora Dio è immanenza assoluta, cioè si identifica con la totalità del cosmo (panteismo).

Accanto al monoteismo, che rivendica l'esistenza di un solo Dio Uno e Unico, il politeismo afferma l'esistenza di più divinità, aventi ciascuna una propria fisionomia, e accomunate dalla perfezione e dall'immortalità; ogni tendenza politeistica corrisponde a particolari caratteristiche o prerogative che provengono e si inquadrano nelle singole culture religiose. Il politeismo è tipico delle religioni pagane, della mitologia greca, ma anche di particolari concezioni religiose orientali come, ad esempio, quella dell'Induismo, che contempla tre divinità supreme: Brahma, Vishnu e Shiva (Trimurti), il primo avente funzione di Creatore, il secondo di Conservatore ed il terzo di Distruttore.

Logos/Verbo

Verbo (λόγος, lògos, 6 volte negli scritti giovannei). Il sostantivo greco, fortemente polisemico (parola, ragione, calcolo, ragion d'essere), quando ha valore di nome proprio riferitamente a Gesù viene reso in alcune traduzioni (cfr. Bibbia CEI) con "Verbo", calco del latino Verbum della Vulgata.

Logos


Il concetto di Logos (traslitterazione del greco λόγος) è molto importante nella tradizione filosofica greco-ellenista, dove sta a indicare l'ordine razionale del cosmo. È presente anche nella tradizione sapienziale dell'Antico Testamento, ed è usato dal Vangelo secondo Giovanni in riferimento al Figlio di Dio, che con la sua incarnazione ha operato la salvezza degli uomini.

Il termine ha un ampio campo semantico: può significare "parola", "discorso", "pensiero", razionalità, capacità di connettere e sviluppare i propri pensieri.



Substrato greco

Il termine è formato dalla radice indoeuropea leg´-, di cui sono attestate continuazioni in tre aree: latina, greca, albanese. Vi si può associare il significato originario di "raccogliere". Il campo semantico del verbo greco lègein passa da questo significato originario a quello di "radunare", e quindi "scegliere", e poi "contare", "enumerare", e infine, in senso figurato, "passare in rassegna", "esporre".

Il sostantivo lògos è di formazione più recente, e nasce quando lègein aveva già il valore di "esporre". Dopo Omero esso si contrappone a mythos: questo designa una parola che si ammanta di verità senza esserlo, mentre quello viene usato in riferimento alla verità: il lògos portatore di verità contrapposto al mythos come possibile inganno. Lògos non è la parola singola, ma il discorso risultante dal concatenarsi di parole.

Nella filosofia

Lo stoicismo pone al centro della propria filosofia il concetto di Logos, che viene inteso non solo come pensiero razionale, ma anche come principio costitutivo della vita cosmica e della vita etica. Dunque per gli stoici la scienza e la vita morale hanno un medesimo fondamento, il Logos: l'ideale del saggio stoico è scegliere come norma e fine della propria vita l'obbedienza alla ragione. Come per gli animali è naturale seguire gli istinti, così per l'uomo lo è seguire il Logos. Nel medesimo atto con cui riconosce il proprio Logos, l'uomo ne dà una valutazione positiva ed è spinto a conservarlo e a potenziarlo: in questo potenziamento del Logos consiste il bene dell'uomo.



Nell'Antico Testamento

L'incontro con la cultura semitica fa assumere a Lògos nuovi significati. Nei LXX il termine semitico sottostante dabara volte viene reso con lògos e a volte con rhema: la scelta dipende dal gusto dei traduttori, varia secondo i libri e non comporta sostanziali differenze semantiche.

Diversamente dal greco, la parola ebraica ha un aspetto dinamico: alla parola concreta (dâbâr) si contrappone lo spirito (ruah), e dabar significa sia "parola" che "fatto". È la parola che si realizza e diviene realtà. La parola per eccellenza è quella di Dio: essa crea e si fa promessa e rivelazione. Dabar contiene anche un aspetto noetico: la parola come tramite tra l'uomo e la realtà, come segno che rimanda oltre la parola stessa.

Nel Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento l'uso del termine lògos risente sia dell'influenza semitica che del significato che la parola ha in greco. Il Nuovo Testamento riflette l'ambivalenza del termine lògos in alcuni passi nei quali il termine è usato nel senso tradizionale, con accentuazioni negative: quando Paolo nella Prima lettera ai Corinzi polemizza contro la sophìa del mondo, egli usa la parola lògos. Ma lo stesso Paolo conosce un lògos radicalmente diverso, un lògos che non discende dalla semplice razionalità umana, ed è il Lògos della Croce.



Nel Corpus Giovanneo

Riferito al Figlio di Dio il termine ricorre solo nel Prologo di Giovanni (Gv 1,1.14), dove sono affermate la sua preesistenza, la sua unione personale con Dio e la sua divinità (1,1.2a; cfr. v. 18). Il Lógos è il mediatore della creazione da parte di Dio (1,2-3.10) e, in qualità di luce e di vita, determinante per la salvezza degli uomini (1,4; cfr. v. 16); l'affermazione centrale che lo riguarda è al v. 14: "E il Verbo si fece carne", che permane come l'affermazione più profonda di tutto il Nuovo Testamento sul mistero dell'Incarnazione. Il Lògos non è più un principio astratto, ma è il Verbo che crea e da la Vita.

L'affermazione giovannea del Lógos incarnato supera quindi il concetto di Lógos della filosofia greca. Il Lógos giovanneo va visto sullo sfondo di tutta l'opera giovannea, che è caratterizzata dall'idea della rivelazione: il Verbo incarnato, il rivelatore in persona è Gesù di Nazaret (Gv 1,45).

L'affermazione dell'incarnazione del Lógos ha dato vita a una lunga storia di approfondimento della fede e di riflessione su di essa, storia iniziata già nel Nuovo Testamento stesso: cfr. 1Gv 1,1, dove si parla del Verbo della vita, nonché Eb 1,1-4 e Col 1,15-20.

In un altro contesto si colloca il cavaliere sul cavallo bianco di Ap 19,11-16, che porta il nome di "Lógos di Dio" (19,13): lo si può mettere in relazione con Gv 1,1-14, ma sembra vada collegato piuttosto con l'immagine di Sap 18,15 e con la profezia del Figlio dell'uomo di Dn 7, che svolse un grande ruolo nella teologia cristiana primitiva come espressione dell'attesa della parusia.

Gli influssi semitici sono forti nel Prologo, tanto che alcuni hanno proposto un originale aramaico soggiacente.

Nel parlare del Lògos, il Prologo mostra un parallelo con Genesi 1,1: le prime parole sono uguali, en arché. Ma se la Genesi ci riporta all'inizio del tempo e della storia, l'autore del Prologo ci riporta a un inizio ancora più profondo, a un tempo che non è ancora tempo e che già vede la presenza del Lògos, presentato come principio creatore.




Nella storia del pensiero cristiano

Uscendo dal Nuovo Testamento, ritroviamo il Lógos in Sant'Ignazio d'Antiochia, e precisamente nella Lettera ai Magnesi (8,2).

I padri apologeti, in particolare Giustino, Atenagora, Taziano, Teofilo d'Antiochia, cominciarono a recepire la dottrina del Lógos dallo stoicismo e dal platonismo medio, per esprimere con il suo aiuto e rifacendosi al Prologo il mistero di Cristo.

Ireneo († 202) vede nell'incarnazione del Lógos la conclusione di una lunga storia di rivelazioni, che si sono susseguite a cominciare dalla creazione del mondo.

Nel III secolo la grande sfida di interpretare ed esprimere in termini corretti la novità del messaggio cristiano porterà alla nascita delle eresie cristologiche e trinitarie; tra di esse vi sono:


  • il monarchianismo, che sottolinea con forza che Dio è un solo principio – intendendo con Dio il Padre; i principali esponenti di tale tendenza furono Noeto, Prassea e Sabellio - da cui il nome di sabellianismo;



  • il subordinazionismo, secondo il quale il Figlio e lo Spirito Santo, pur essendo realmente distinti dal Padre, sono a lui subordinati, cioè occupano un gradino inferiore, perché solo il Padre è pienamente Dio, come l'Uno della filosofia greca.

Il maggior rappresentante della seconda tendenza fu il presbitero Ario di Alessandria, vissuto nel IV secolo: egli, estremizzando alcune affermazioni di Origene, sosteneva che il Figlio è la prima creatura, e che vi fu un tempo nel quale non era, e che perciò non è della stessa sostanza del Padre.

La reazione dei teologi del Logos a queste dottrine non si fece attendere, e preparò i lavori del Concilio di Nicea (325) che invece, appellandosi alla professione di fede battesimale, pose chiaramente il Figlio dalla parte del Padre, mostrando quindi la capacità di recepire criticamente la dottrina greca del Lógos.

Con gli antiariani Marcello di Ancira e Atanasio († 373) la dottrina del Lógos venne posta completamente al servizio della Cristologia. Secondo Atanasio il Lógos è il principio attivo dell'umanità di Cristo, il corpo di Cristo è l'organo del Lógos, e la morte di Cristo è la separazione dal Lógos.

Con Cirillo Alessandrino († 444) la dottrina del Lógos trova la sua formulazione valida per quasi tutto l'Oriente: essa diverrà nuovamente virulenta durante il periodo della ricezione del Concilio di Calcedonia (451); nel Secondo Concilio di Costantinopoli (553) e nel Sinodo lateranense (649) condusse, con l'apporto determinante di Massimo il Confessore († 662), a sottolineare la persona del Lógos incarnato.

In Occidente si interessarono della dottrina del Lógos Tertulliano († 220), Ippolito († 235) e Novaziano († 258); il Lógos' quale mediatore della creazione, della rivelazione e della salvezza caratterizzò la ricezione della dottrina cristologica.

Nella Scolastica

Andando più avanti al periodo della Scolastica, in San Bonaventura († 1274) si trova una teologia completa della parola.

San Tommaso d'Aquino († 1274), poi, realizza la sintesi tra la dottrina del Lógos di Cirillo e l'insegnamento del Concilio di Calcedonia: tale sintesi vede l'unità di Cristo nell'essere personale della Parola.




Nel Magistero della Chiesa

Il Magistero della Chiesa ha espresso in vario modo la [[fede] che il Lógos è il Figlio di Dio, ovvero che il Lógos incarnato è il Figlio di Dio fatto uomo. Troviamo tale affermazione nella professione di fede riportata da Eusebio di Cesarea come usata per il proprio Battesimo, nella formula più lunga del Simbolo riportata da Sant'Epifanio di Salamina († 403 ca.).

Il Concilio Romano del 382 chiarì la terminologia: Verbum, quia Deus, "Verbo, poiché Dio".

Vari papi hanno usato la terminologia del Lógos e contribuito alla sua interpretazione nelle dispute trinitarie e cristologiche:



  • Dionisio († 268) nella lettera a Dionisio Vescovo di Alessandria contro i triteisti e i sabelliani;



  • Damaso I († 384) in varie lettere ai Vescovi orientali;



  • Leone Magno († 461) nel Tomus ad Flavianum, nella lettera Licet per nostros al vescovo Giuliano, nel cosiddetto Tomus II Leonis o lettera Promisisse me memini all'imperatore Leone I.

Più tardi, la fede nell'identità tra Lógos e il Figlio è espressa chiaramente nella professione di fede formulata al Secondo Concilio di Lione del 1274. Arrivando al XVIII secolo, Papa Pio VI († 1799) prese posizione contro la preferenza accordata al termine Verbum rispetto a quello di "Figlio" da parte del Sinodo di Pistoia, e all'uopo si richiamò al linguaggio della Sacra Scrittura, di Sant'Agostino e di San Tommaso.

Il Concilio Vaticano II riprese i testi classici (1Gv 1,2-3; Eb 1,1-2; Gv 1,1-18), e ribadì il carattere cristologico di qualsiasi teologia della parola e della rivelazione.

Figlio di Giuseppe

Figlio di Giuseppe (υἱὸς Ιωσήφ, uiòs Iosèf, 4 volte). Secondo i vangeli però tale legame non era carnale (vedi Mt 1,20; 1,25; Lc 1,34) ma solo 'putativo', cioè la figliolanza era reputata tale dai contemporanei (vedi Lc 3,23).



San Giuseppe

Nel Martirologio Romano, 19 marzo



« Solennità di san Giuseppe, sposo della beata Vergine Maria: uomo giusto, nato dalla stirpe di Davide, fece da padre al Figlio di Dio Gesù Cristo, che volle essere chiamato figlio di Giuseppe ed essergli sottomesso come un figlio al padre. La Chiesa con speciale onore lo venera come patrono, posto dal Signore a custodia della sua famiglia. »

San Giuseppe (I secolo a.C.; † Nazareth, I secolo) è ricordato come lo sposo di Maria e il padre putativo di Gesù. Il nome Giuseppe è la versione italiana dell'ebraico Yosef, attraverso il latino Ioseph. Giuseppe, Maria e Gesù bambino sono anche collettivamente chiamati Sacra famiglia.

La vita


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