Schede storiche



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Abstract

Introduzione



Schede storiche

Scheda storica n.1 – La censura di guerra

Scheda storica n.2 – L’internamento e i gruppi di internati

Scheda storica n.3 – Dopo la liberazione

Scheda storica n.4 - Le annessioni territoriali e la politica antiebraica in Ungheria



Le lettere da Ferramonti e gli interventi della censura

Le note di accompagnamento

Le lettere censurate

Un percorso di traduzione

Agli enti di assistenza

Lettere personali



Le lettere a Ferramonti

Le note di accompagnamento

Dai territori annessi all’Ungheria - Prima pagina



Dai territori annessi all'Ungheria - Seconda pagina



Dai territori annessi all’Ungheria – Terza pagina

Da Budapest

Da città ungheresi
Da altre nazioni europee
Dall’Italia



Località, destinatari, mittenti non identificabili
Appendice



A Rodi


Abstract

La raccolta epistolare che viene presentata comprende 134 lettere, 19 inviate, 115 ricevute da ebrei stranieri internati a Ferramonti.


Le lettere sono state rinvenute in un fascicolo contenente documenti ed elenchi riguardanti il campo d’internamento calabrese.
Nello stesso fascicolo sono conservate anche numerose note di accompagnamento delle lettere sia in partenza che in arrivo nel campo che ne documentano il passaggio tra i vari uffici che si occupavano della traduzione e della censura della corrispondenza, prima che a questa fosse consentito o meno il corso.
Le lettere in partenza da Ferramonti – sia le poche contenute nel fascicolo che quelle di cui si ha notizia attraverso le note di accompagnamento – sono state inviate tra il mese di dicembre del 1942 e l’agosto del 1943. I destinatari sono, in prevalenza, enti di assistenza , legazioni estere, esponenti del Vaticano e sedi della Croce Rossa di vari paesi .
A scriverle sono sia ebrei stranieri residenti da anni in Italia ed internati fin dal giugno del 1940, sia profughi o rifugiati che in Italia erano arrivati in vario modo, prima di essere internati tra il 1940 e il 1942.
Le lettere provenienti dai paesi d’origine degli internati si situano, invece, tra il mese di aprile e quello di ottobre del 1942.
I destinatari – 58 dei quali sono stati identificati con sicurezza – sono quasi tutti profughi arrivati in Italia durante la guerra. Si tratta, in maggioranza, di naufraghi della nave Pentcho, ma non mancano appartenenti al gruppo cosiddetto dei bengasioti o i profughi provenienti dalla Jugoslavia occupata.

Le tre tipologie di materiali esaminati contengono elementi sufficienti alla loro contestualizzazione rispetto:

- alle norme che regolavano la censura di tutti i mezzi di comunicazione istituita dal regime al

momento dell’entrata in guerra dell’Italia;

- all’internamento degli ebrei stranieri in Italia, con riferimento ai luoghi di provenienza dei

profughi che furono internati dopo l’entrata in guerra dell’Italia;

- alle vicende degli ex internati che si trovavano nell’Italia del sud liberata dagli Alleati;

- alla condizione in cui vivevano gli ebrei nel 1942 in alcuni paesi dell’Europa orientale.



La contestualizzazione è stata realizzata mediante la compilazione di quattro schede storiche che precedono la trascrizione delle lettere.
Una di esse, in particolare, sintetizza l’evoluzione della politica antiebraica attuata dal governo ungherese, in considerazione del fatto che gran parte delle lettere proviene da familiari di internati che, prima della loro fuga, risiedevano nei territori che erano stati tolti all’Ungheria alla fine della prima guerra mondiale e che essa aveva riottenuto tra il 1938 e il 1940.
La quasi totalità dei mittenti e dei destinatari delle lettere è stata identificata. Degli internati si presenta il percorso di internamento e il luogo in cui si trovano o verso cui si dirigono dopo la liberazione.
Sono state ricercate anche informazioni sulle vicende storiche che interessarono le località dalle quali le lettere provenivano, in particolare quelle relative al periodo della persecuzione, ma va detto che non per tutte esse sono state rinvenute.
Dei familiari o degli amici che scrivono loro è stato verificato – per quanto possibile – il destino, tramite il controllo incrociato di informazioni reperite in tutte le fonti a disposizione, a partire dal database contenente i nomi delle vittime, in rete sul sito dello Yad Vashem.
Va precisato, infine che la raccolta, pur contenendo esclusivamente corrispondenza relativa agli ebrei stranieri internati nel campo di Ferramonti, viene presentata come contributo alla ricerca generale su quel particolare aspetto della persecuzione antiebraica attuato dal fascismo. Gli argomenti di cui trattano queste lettere, infatti, possono essere considerati a buon diritto comuni alla gran parte della corrispondenza inviata o ricevuta da tutti gli ebrei stranieri, qualunque fosse la loro sede di internamento.
Al saggio è aggiunta una breve appendice dedicata all’esame dei meccanismi censori su alcune lettere inviate o ricevute da uno degli organizzatori del viaggio della nave Pentcho, durante la permanenza dei naufraghi nel campo di San Giovanni.

Presentazione

Naturalmente lo scambio di informazioni […] è, nonostante il codice, molto difficile.
Quei vecchi questurini – noia, curiosità, zelo? – leggono con molta attenzione le lettere che noi
scriviamo e anche quelle che riceviamo e che pure sono già state censurate
dal Commissario del Campo da dove provengono.
1



La corrispondenza attraverso lettere o cartoline era uno strumento indispensabile, di fatto l’unico concesso agli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico che permetteva di avere relazioni con il mondo esterno e, soprattutto, con i familiari rimasti nei loro paesi d’origine, sottoposti alle persecuzioni dalle quali essi erano riusciti a fuggire.
Attraverso di essa potrebbero essere ricostruiti con maggiore rispondenza alla realtà le effettive condizioni di vita degli internati, ma questa tipologia di documentazione sembra essere rimasta, finora, piuttosto trascurata dai ricercatori.
I fondi archivistici nei quali molte delle lettere inviate o ricevute dagli internati potrebbero essere conservate in copia o in originale, proprio a seguito della censura imposta dal regime a tutti i mezzi di comunicazione a partire dal 15 giugno del 1940 sono rimasti, infatti, finora quasi inesplorati.2
Si vedrà, invece, che anche una raccolta non particolarmente ampia di lettere – finite forse casualmente nel fascicolo nel quale sono state rinvenute - può costituire una importante fonte di informazioni.
La corrispondenza che qui si presenta appartiene agli ebrei stranieri internati a Ferramonti, ma le lettere che la compongono potrebbero essere state scritte o ricevute da qualsiasi altro gruppo degli ebrei che, durante il periodo bellico, furono ristretti dal regime fascista nei campi o nelle località di internamento.3
Comuni a tutti gli internati, infatti, erano il bisogno di aiuto materiale, o la determinazione a portare avanti i progetti di emigrazione e questo richiedeva molti contatti con le organizzazioni di assistenza o con le legazioni straniere. Per non parlare della necessità di ricevere informazioni su familiari di cui non si avevano più notizie, alla quale tentava di rispondere la Croce Rossa. E erano queste le lettere più drammatiche.
Allo stesso modo può essere considerata la corrispondenza che agli internati giungeva dai loro paesi d’origine. A scrivere erano familiari e amici, accomunati dall’ansia per i congiunti lontani, dalle difficoltà che si incontravano a mantenere i contatti con loro e con gli altri parenti, dagli stratagemmi adottati per far sfuggire alla censura le informazioni sulle reali condizioni in cui versavano.
Ad interporsi tra mittenti e destinatari c’erano diversi soggetti: le autorità di sorveglianza degli internati, che raccoglievano la posta in entrata ed in uscita per inviarla agli organismi preposti al suo esame, i traduttori, considerato che a corrispondere erano, appunto, degli stranieri, i censori, dai quali dipendeva se la corrispondenza dovesse essere “tolta di corso” o potesse essere inviata al destinatario.
Il confronto tra la data in cui le lettere erano state scritte e quella, apposta su molte, in cui esse vengono restituite oppure riconsegnate tradotte dà, infine, la misura di quanto l’ultimo, ma non per questo meno grave ostacolo alla corrispondenza fosse costituito dal tempo da essa impiegato per giungere a destinazione.
Insieme alle lettere è stato rinvenuto altro materiale documentario, costituito dalle note con le quali l’autorità locale accompagnava la trasmissione di questa corrispondenza in partenza o in arrivo a Ferramonti alle istanze superiori cui era affidato il compito di revisionarla.
Sono presenti anche vari esempi delle comunicazioni che intercorrevano tra i diversi uffici che si occupavano della traduzione delle lettere e della successiva eventuale censura
Questi documenti coprono un arco di tempo che va dal mese di novembre del 1942 al mese di luglio del 1943, toccando in una caso anche il mese di agosto a dimostrazione che la censura non era stata abolita con la caduta del fascismo.
Anche se quasi tutte queste comunicazioni riguardano corrispondenza che non è presente nel fascicolo, esse si rivelano comunque utili a rilevare quanta parte dell’apparato burocratico fosse coinvolto nelle procedura censorie e come il controllo della corrispondenza inviata o ricevuta dagli ebrei stranieri internati seguisse un percorso più articolato rispetto a quello previsto dalle disposizioni emanate dal regime per il resto della corrispondenza civile.
L’esame relativo alla corrispondenza in partenza da Ferramonti metterà , infine, in evidenza quali fossero i destinatari consentiti dalla censura, quali invece quelli ai quali non era concesso rivolgersi, secondo valutazioni che non sembrano dipendere solo dalle regole di sicurezza indotte dallo stato di guerra, ma che appaiono parte del sistema persecutorio imposto agli ebrei internati.
Le lettere scritte dagli internati sono 19; di alcune sono presenti solo stralci che avevano attirato l’attenzione della censura, delle altre la traduzione completa. Di una, in particolare, è presente l’originale.
Nonostante il loro numero limitato, il contenuto di questi documenti è sufficiente ad illustrare sia i problemi ed i timori che venivano vissuti nel campo, sia le modalità di intervento della censura.
La documentazione più consistente e per molti motivi più interessante è costituita da 113 lettere inviate agli internati nel periodo che va dall’aprile del 1942 all’ottobre dello stesso anno. Di esse, nel fascicolo, rimangono copie della traduzione che, in base alle norme, dovevano essere conservate. Due portano rilievi della censura, ma mancano documenti che confermino o meno l’invio di tutto il blocco della corrispondenza ai destinatari.
Solo sette di queste lettere provengono da città italiane o da località di internamento. Altre sette sono state inviate da nazioni o territori sottoposti, direttamente o indirettamente al dominio nazista , come la Polonia, La Slovacchia, la Serbia, la Francia di Vichy.
Pur considerando che la presenza di queste ultime nel fascicolo possa essere stata dovuta al caso, si è tentati di collegarne il numero così ridotto a quanto stata accadendo nelle nazioni dalle quali le lettere provenivano.
Va ricordato , infatti, che per tutti gli ebrei che non avevano lasciato l’Europa e che erano sopravvissuti alle stragi iniziali messe in atto con vari mezzi nelle nazioni e nelle aree geografiche finite sotto il controllo tedesco, già nei primi mesi del 1942 era stata avviata la “soluzione finale” pianificata durante conferenza di Wannsee, che si era tenuta il 20 gennaio 1942.
Per essi era diventato, quindi, molto difficile comunicare con i familiari e queste lettere potrebbero essere situate, quindi, tra le ultime che ebrei erano riusciti ad inviare ancora in stato di libertà dalle nazioni citate sopra
Il numero più consistente – 78 lettere – proviene, invece da varie città ungheresi, compresa Budapest, e da località situate nei territori slovacchi, romeni e jugoslavi che erano appartenuti al regno d’Ungheria fino al 1918 e che essa si era di nuovo annessa tra il 1938 e il 1941. Anche le sedici nelle quali mancano dati precisi per l’identificazione del destinatario, contengono elementi che le farebbero inserire in quest’ultimo gruppo.
Quelle provenienti dai territori annessi risultano inviate da genitori degli internati o da familiari strettissimi, mentre quelle provenienti da Budapest o da altre città interne all’Ungheria sono scritte da amici o familiari meno prossimi, e testimoniano, tra l’altro, i legami che erano stati mantenuti tra coloro che i trattati successivi alla prima guerra mondiale avevano separato.
Oltre che dalla provenienza, esse sono accomunate dal fatto di essere scritte in ungherese , lingua che , all’inizio della guerra, non era tra quelle consentite dalle disposizioni riguardanti la corrispondenza degli stranieri.
Prevalgono, tra i destinatari che è stato possibile identificare, quelli internati a Ferramonti dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
Dodici di essi possono essere considerati veri e propri profughi e sono quelli provenienti dal campo albanese di Kavaja, dalla Provincia di Lubiana dalla Dalmazia, territori jugoslavi annessi all’Italia o quelli arrivati a Ferramonti, dopo varie vicissitudini, da Bengasi.
I rimanenti facevano parte, invece, al gruppo di ebrei i quali, nel maggio del 1940, erano partiti da Bratislava per raggiungere l’allora Palestina discendendo il Danubio a bordo del battello fluviale Pentcho e che, solo a seguito dell’interruzione forzata del viaggio causata dal naufragio, e dopo la permanenza durata mesi , nell’isola di Rodi, erano stati internati in Italia.
La loro nazionalità era slovacca, ma appartenevano evidentemente alla maggioranza ungherese presente nei territori tornati all’Ungheria tra il 1938 e il 1940.
I familiari che scrivono loro appaiono sicuri del fatto che essi abbiano raggiunto la salvezza, ma lamentano, in generale la mancanza di notizie più frequenti.
Basta, però, osservare il tempo che intercorre tra la data in cui le lettere erano state scritte e le date della traduzione registrate su molte di esse, per rendersi conto che potevano passare anche mesi, prima che la corrispondenza raggiungesse i destinatari.
L’altra preoccupazione , segno del legame ancora forte tra chi era fuggito e chi era rimasto, riguarda le modalità di invio di aiuti. Le difficoltà che i familiari degli internati incontrano nell’inviare denaro o pacchi, riferite soprattutto dai mittenti delle lettere provenienti dai territori ungheresi, forniscono una significativa testimonianza di come fossero stati limitati i diritti degli ebrei in quella nazione: questo tipo di invii che in generale le norme consentivano, ad essi erano proibiti o resi estremamente complicati.
Al di là delle contingenze legate alla lontananza, il contenuto delle lettere provenienti dai territori ungheresi costituisce, nel suo insieme, una sorta di racconto collettivo di momenti di vita quotidiana – la salute, le visite ai parenti, il lavoro dei campi, i bambini che crescono – della quale sembra si desideri trasmettere, ma anche, in qualche modo, custodire la continuità. Essi, tuttavia, appaiono vissuti non in un vero e proprio presente, bensì in un tempo sospeso tra “i tempi di prima” cui si accenna solo per dire che “non sono più” e un futuro cui ci si impedisce di pensare.
“Io era tra color che son sospesi…”4: nessun riferimento, si ritiene, è più adatto a spiegare questa condizione delle parole con le quali Virgilio rappresenta a Dante la natura del Limbo, il luogo di sospensione per eccellenza tra salvezza e dannazione,
Accostandosi alla lettura, va tenuto tuttavia presente che non ci si trova di fronte a testi originali, bensì a traduzioni in italiano di scritti in lingua straniera e che l’urgenza comunicativa dei mittenti risulta necessariamente filtrata attraverso scelte linguistiche operate da soggetti esterni, influenzati nello svolgimento del loro compito anche da personali valutazioni ideologiche e culturali.
A trasferire in lingua italiana la gran parte di questa corrispondenza, per di più, sembrano essere stati sempre gli stessi traduttori, il che conferisce ai testi una uniformità linguistica che rischia di far dimenticare che le lettere sono state scritte da persone diverse.
La stessa uniformità si rinviene negli argomenti trattati, ma bisogna ricordare, a questo proposito, che chi scriveva era a conoscenza del fatto che le proprie parole sarebbero passate sotto gli occhi della censura, il che limitava di molto anche la scelta del tipo di informazioni da comunicare.
Ed è da questa consapevolezza che deriva, inoltre, la tendenza dei mittenti a riferire in modo piuttosto vago anche avvenimenti che si percepiscono come drammatici. Una descrizione più dettagliata di ciò che avveniva o denunce e recriminazioni sulle condizioni in cui si viveva avrebbero fatto correre il rischio alla lettera di non essere consegnata al destinatario.
Questo comportamento poteva, tuttavia, essere determinato anche dalla volontà di nascondere a chi era lontano quanto terribile e pericolosa fosse la realtà con la quale quotidianamente bisognava fare i conti.
L’intenzione di rassicurare viene, però, spesso smentita dai continui riferimenti all’attesa di notizie da parte di parenti e amici che vivono in altre città o dei quali non si può nascondere che sono stati “portati via”, particolare che rivela quanto forte fosse la percezione dei pericoli che tutti correvano.
Gli accenni alla durezza delle leggi cui gli ebrei, anche quelli passati ad altra religione, sono sottoposti come gli obblighi di lavoro o il durissimo servizio nell’esercito che i giovani erano costretti a prestare rimangono, ad ogni modo, sempre sullo sfondo, temperati dalla speranza, quasi rituale, nell’aiuto divino.
Era proprio in questi ambiti - l’obbligo al lavoro ed il servizio militare - invece, che gli ebrei ungheresi, soprattutto quelli che vivevano nei territori annessi dopo il 1938 stavano subendo violenze non molto dissimili da quelle che avrebbero poi sperimentato ad Auschwitz.
La stessa atmosfera di sospensione, unita a chiari riferimenti alla tragedia in corso – “In questi giorni ho ricevuto una lettera di essa così supplicante che la censura l’ha lasciata passare” scrive un ebreo polacco esule in Francia, riferendosi alle notizie ricevute dalla sorella – è presente nelle lettere provenienti da paesi europei sottoposti all’occupazione tedesca.
Dalle lettere provenienti da località italiane traspare, invece, la situazione di relativa sicurezza nella quale i mittenti ancora vivono nel 1942, ma ad essa fa da contraltare, almeno in un caso, l’ansia per i familiari residenti nelle nazioni in cui maggiori sono i pericoli e dai quali si tenta – invano - di farsi raggiungere.
Va notato che anche queste lettere, scritte da ebrei con cittadinanza straniera che, per vari motivi, non erano stati internati sono ugualmente in lingua ungherese.
Altre osservazioni potrebbero essere ancora fatte sul contenuto delle lettere, ma una forzatura nell’interpretazione rischierebbe di ridurle a mero documento storico e finirebbe per sovrapporsi, sminuendola, alla sottile, ma coinvolgente trama del comune sentire che da esse traspare.
Non si può, ad ogni modo, sfuggire alla domanda su quale contributo documenti come questi possano apportare alla ricostruzione storica.
Una risposta potrebbe essere trovata, per analogia, nella sintesi cui lo scrittore serbo Aleksandar Tišma perviene nel suo romanzo Il libro di Blam in cui ricostruisce lo sterminio di millequattrocento ebrei e serbi abitanti di Novi Sad compiuto dagli occupanti ungheresi – da qui anche la significatività della citazione - in soli tre giorni, dal 21 al 23 gennaio 1942.
Nell’ottavo capitolo l’autore mette a confronto due tipologie di fonti a disposizione degli studiosi interessati a ciò che accadde nella città serba.
La prima è una ricerca storica condotta nel 1946, fondata su documenti di archivio, testimonianze di sopravvissuti, atti dei processi cui furono sottoposti i colpevoli della strage.
La seconda è il quotidiano cittadino “Il nostro giornale”, nel quale, accanto alle notizie sulla guerra ed alle ordinanze emesse dagli occupanti, venivano pubblicati articoli su episodi di vita quotidiana e rubriche su vari argomenti, senza che vi fosse data nessuna notizia su ciò che era accaduto nella città nei giorni della strage.
Alla domanda su quale dei due tipi di documenti contribuisca a rendere la realtà che si viveva a Novi Sad, Tišma risponde, provocatoriamente, che lo fanno entrambi e nessuno.
Creati da due opposti punti di vista – quello dell’accusa e quello della difesa, del definitivo e del temporaneo, dell’essenziale e del superficiale, della rivelazione e della dissimulazione, della storia e del quotidiano - sono come due disegni dello stesso luogo: il primo riporta montagne e fiumi, il secondo località e strade. Solo sovrapponendoli si ottiene un’immagine approssimativamente esatta del paesaggio.5
La sovrapposizione di cui parla Tišma si realizza nel luogo, per così dire, unico, delle lettere.
In esse la durezza di ciò che accade – se pure per motivi ben diversi da quelli del quotidiano citato dallo scrittore - prevale, quasi contro la volontà di chi scrive, sul desiderio di nascondere o attenuare la persecuzione che si sta subendo.
Piove una pioggerella così buona e tranquilla – scrive da Levice Sando Haas all’inizio della sua lettera a Teodoro Kun, l’amico internato a Ferramonti, ma più avanti è costretto a svelare: Per momento i colpi più gravi hanno toccato la povera Margit. Di Lolo già da molto tempo sai che non si hanno notizie ed Evi l’hanno portata via adesso. Finora neanche da lei si ha alcun segno di vita, restituendo così, come direbbe Tišma, un’immagine approssimativamente esatta del paesaggio.
La parola paesaggio, usata dallo scrittore, tanto più risulta appropriata, se si considera che la parte della raccolta che qui si presenta, cioè quella costituita dalle lettere dei familiari degli internati fornisce, forse, uno dei pochi esempi di corrispondenza risalente alla seconda guerra mondiale in cui le lettere non sono inviate da un luogo di persecuzione chiuso a persone che, standone fuori, in qualche modo potrebbero avere maggiori possibilità di sopravvivere.
Queste lettere compiono, invece, il percorso inverso: partono da città e villaggi in cui la tragedia che si prepara concede ancora una parvenza di libertà e di speranza e sono dirette a persone che, al contrario, sono private della loro libertà, ma non in pericolo di vita.
Tutti i destinatari delle lettere, infatti, si salveranno, grazie agli eventi bellici italiani che portarono alla loro liberazione a seguito dell’arrivo degli inglesi nel campo di Ferramonti il 17 settembre del 1943, mentre i nomi di molti degli autori delle lettere – come quello del Sandor Haas citato sopra - sono stati ritrovati nel database delle vittime della Shoah presente sul sito dello Yad Vashem.

Scheda storica 1 - La censura di guerra

La Legge di guerra predisposta dal regime fascista fin dal luglio del 1938 stabiliva che, con un Decreto Reale, si sarebbe potuto ordinare di porre “ a visto preventivo dell'autorità politica” ogni pubblicazione eseguita con la stampa o con qualsiasi altro mezzo di riproduzione e che la corrispondenza postale e le comunicazioni telegrafiche, telefoniche, radioelettriche e di qualsiasi altra specie potevano essere sottoposte a censura o a controllo.
6
I decreti previsti da questa prima disposizione furono approvati nell’ottobre del 1939 e divennero operativi il 15 giugno del 1940
al momento dell’entrata in guerra dell’Italia. 7
A partire da quella data, “su proposta del DUCE del Fascismo, Capo del Governo” tutti i mezzi di comunicazione vennero sottoposti a censura e furono predisposte le strutture che avrebbero avuto il compito di controllarli.

Per la revisione della corrispondenza civile e di quella militare in partenza, furono istituite le commissioni provinciali di censura postale (successivamente denominate commissioni provinciali di guerra), che dovevano essere composte esclusivamente da ufficiali dei vari corpi dell’esercito.
Di esse erano responsabili i Prefetti, in stretta comunicazione con il Ministero degli interni e con il Governo centrale.
Il lavoro affidato a queste commissioni si rivelò ben presto immane, dal momento che erano migliaia le lettere che ogni giorno ciascuna di esse avrebbe dovuto esaminare e nelle quali avrebbe dovuto verificare e segnalare la presenza di:
“1) manifestazioni di allarmismo e disfattismo; 2) echi di agitazioni interne o atti di sabotaggio; 3) malcontento; 4) notizie deprimenti; 5) tranquillità; 6) fiducia; 7) rassegnazione o fervore patriottico; 8) comprensione doveri; 9) preoccupazione per disagi economici; 10) attaccamento al lavoro abbandonato; 11) sentimento affettivo; 12) sentimento religioso; 13) comportamento clero; 14) eventuale propaganda sobillatoria e sovversiva.”
8
Il controllo della corrispondenza civile si estendeva anche a quella scritta in lingua straniera, in questo caso sia in partenza che in arrivo. Ad esso veniva sottoposta la corrispondenza di tutti gli stranieri presenti in Italia, in primo luogo quella dei “sudditi nemici atti alle armi” peri quali la legge di guerra prevedeva l’internamento
9 e, per analogia, anche quella degli ebrei stranieri, internati nei campi per loro predisposti o nelle località militarmente non importanti.10
Il decreto contenente le disposizioni relative al trattamento della loro corrispondenza prevedeva che essi non potevano né spedire né ricevere corrispondenza postale o telegrafica o pacchi di qualsiasi genere, se non per il tramite delle autorità preposte alla loro sorveglianza.
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Le procedure da seguire furono precisate in una successiva circolare.
“Per gli internati civili qualora questi si trovino in campo di concentramento, la censura della loro corrispondenza attiene alla disciplina interna dei campi e compete, quindi, sia in arrivo che in partenza, ai direttori degli stessi campi di concentramento. Qualora, invece, gli internati civili non si trovino nei campi di concentramento, la censura è effettuata dalla Commissione provinciale competente per territorio e le Eccellenze i Prefetti devono prendere accordi con i direttori provinciali delle Poste e Telegrafi perché la corrispondenza in arrivo a tali internati ed altresì quella da essi spedita, sia rimessa alla commissione provinciale di censura competente, prima, rispettivamente, della consegna o dell’inoltro.”
La traduzione di questa corrispondenza era affidata alle stesse Commissioni provinciali, affiancate da traduttori, anche civili, ma ben presto ci si rese conto che non era possibile che ciascuna commissione avesse a disposizione quelli necessari per tutte le lingue.
Fu quindi disposto che la corrispondenza in lingua straniera che non si riusciva a tradurre sul posto, venisse inviata alla commissione provinciale più vicina dove tale possibilità esisteva. Se nessuna commissione di censura fosse risultata provvista del traduttore occorrente, la corrispondenza doveva essere inviata direttamente al Ministero. Non era possibile, per la traduzione, rivolgersi al Comando Supremo SIM, al Ministero della Guerra, al Ministero della cultura popolare, agli uffici centrali in genere.


La crescente diversificazione linguistica verificatasi soprattutto tra gli ebrei stranieri che continuarono ad essere internati in Italia fino al 1942 generò difficoltà sempre maggiori.
La soluzione individuata fu quella di consentire solo la corrispondenza scritta in lingua francese, inglese e tedesca.
Particolare fu, poi, il trattamento riservato agli “allogeni” di lingua slovena, internati a seguito dell’invasione della Jugoslavia :ad essi era fatto obbligo di scrivere in lingua italiana.
Sempre al fine di facilitare le operazioni di traduzione e di censura fu disposto che gli internati stranieri potessero corrispondere soltanto con i congiunti, intendendo con questo termine i connazionali che si trovavano nei campi di concentramento o in località d’internamento. Lo scopo di questa disposizione era quello di limitare la quantità di corrispondenza da esaminare, ma ,di fatto, essa colpiva l’esigenza più sentita, cioè quella di rimanere in contatto con i familiari rimasti nei paesi di provenienza.
12
Era previsto, infine, che gli internati potessero spedire solo una cartolina ed una lettera alla settimana e che, per le lettere, lo scritto non dovesse superare le 12 righe per ciascuno dei due fogli concessi. Nella prima pagina della lettera e nella parte posteriore della busta doveva essere apposta in alto l’indicazione «Posta internati civili di guerra».
Anche l’apposizione del francobollo andava controllata: essa doveva avvenire in presenza dell’autorità preposta alla vigilanza sull’invio della corrispondenza.
Gli stessi pacchi eventualmente inviati agli internati dovevano essere sottoposti alla censura. Oltre a controllarne il contenuto, i direttori dei campi e le autorità locali preposte alla sorveglianza degli internati dovevano compilare elenchi dei pacchi ed inviarli alla Questura competente sul territorio.
L’unica agevolazione concessa riguardava i rapporti con le rappresentanze consolari obbligatori per gli internati che avessero in corso pratiche per l’emigrazione: con esse si poteva corrispondere senza limitazioni di tempo o di spazio.
13
La documentazione di accompagnamento e la stessa corrispondenza presentate in questo saggio consentiranno di verificare quanto i regolamenti , con il procedere della guerra, finissero per essere disattesi.
Attraverso la prima, si vedrà che il percorso fatto seguire alle lettere per la traduzione e la revisione, non sempre corrisponde a quanto disposto dalle circolari.
Gran parte della stessa corrispondenza che qui si presenta dimostra, inoltre che il numero delle lingue che era consentito usare fu ampliato. Molte delle copie che sono state rinvenute, infatti, portano in altro la scritta: “tradotto dall’ungherese”.
In generale, infine, la lunghezza delle stesse lettere prova come fosse concesso disattendere anche alla prescrizione che limitava a 24 le righe che esse dovevano contenere.


Scheda storica 2 - L’internamento e i gruppi di internati

L’internamento

Appena vi sarà posto nelle carceri ciò che dovrà ottenersi sollecitando traduzione straordinaria individui già arrestati ai campi di concentramento loro assegnati dovrà procedersi rastrellamento ebrei stranieri appartenenti a Stati che fanno politica razziale. Detti elementi indesiderabili imbevuti di odio verso i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione deleteria per la difesa dello Stato et ordine pubblico vanno tolti subito dalla circolazione. Dovranno pertanto essere arrestati ebrei stranieri tedeschi, ex cecoslovacchi, polacchi, apolidi dall’età di diciotto a settanta anni. Di essi dovrà essere inviato Ministero elenco con generalità per assegnazione campi concentramento. Loro famiglie in attesa di apprestamento appositi campi di concentramento già in allestimento dovranno essere provvisoriamente avviate con foglio di via obbligatorio at capoluoghi di Provincia che mi riservo indicare non appena mi saranno pervenuti elenchi relativi. Ebrei ungheresi et rumeni dovranno essere allontanati dal Regno; nei casi in cui ciò non fosse possibile prego informare questo Ministero per determinazioni.14



Con questa circolare telegrafica emanata il 15 giugno del 1940 fu disposto l’internamento degli ebrei stranieri residenti in Italia che erano diventati cittadini in data successiva al 1° gennaio del 1919 e degli ebrei stranieri profughi da varie nazioni europee i quali a quella data si trovavano ancora in Italia, nonostante il governo fascista ne avesse vietato l’ingresso e il soggiorno e disposto per essi l’espulsione.15
Gli ebrei stranieri di cui si trasmettono per la revisione o si conservano lettere spedite da Ferramonti, erano stati inviati nel campo in parte da varie città italiane a partire dal giugno del 1940, in parte vi erano arrivati durante la guerra da territori stranieri passati sotto la giurisdizione italiana anche in seguito alle vicende belliche nei quali erano giunti dopo varie vicissitudini.
Gli ebrei stranieri internati a Ferramonti destinatari di lettere inviate loro dai paesi di origine o da altre nazioni appartengono a questa seconda particolare categoria di internati e, quasi tutti, facevano parte di gruppi dei quali, di seguito, si indica la provenienza e si sintetizzano le vicende.

Il gruppo proveniente da Bengasi


Il gruppo proveniente da Bengasi, detto anche dei “Bengasioti” era costituito da 302 ebrei stranieri, uomini, donne, bambini, provenienti da varie nazioni, in gran parte entrati in Italia con il visto turistico, in parte liberati da Dachau a patto che lasciassero la Germania, in parte già residenti in Italia da qualche anno.
Nel maggio del 1940, temendo di essere espulsi dall’Italia, erano ripartiti, ufficialmente per l’allora Siam, in realtà per la Libia da dove pensavano di imbarcarsi illegalmente per la Palestina.
16 A Bengasi vennero sorpresi dall'entrata in guerra dell' Italia, che pose fine alla navigazione civile. Le autorità coloniali italiane li internarono prima in una caserma militare, poi in una baraccopoli ai margini della città di Bengasi, fino a quando il Ministero dell'Interno ordinò il loro trasferimento in Italia e l’internamento a Ferramonti.
Il 29 agosto furono imbarcati in una nave passeggeri che li portò a Napoli. Qui vennero trattenuti per tre settimane nel carcere di Poggioreale, fino a quando non vennero trasferiti in Calabria. Arrivarono nel campo il 16 settembre del 1940.



Il gruppo proveniente da Kavaja (Albania)

Il campo di Kavaja, posto sotto l'amministrazione militare italiana era situato in Albania. Qui venne internato già nel luglio del 1941 un gruppo di ebrei profughi rastrellati nel Montenegro e trasferiti a Cattaro. Le circa duecento persone che lo componevano erano fuggite dalle loro città d'origine - Belgrado e Sarajevo - in seguito all'occupazione nazista della Serbia e alle persecuzioni effettuate nella Bosnia annessa alla Croazia.


Il rastrellamento avvenne nella notte tra il 22 e il 23 luglio del 1941, ma il prefetto di Cattaro invece di procedere all’ espulsione , dispose il loro trasferimento nel campo di Kavaja. Le autorità italiane non accettavano la presenza di ebrei in Albania e così, il 25 ottobre del 1941, i profughi - 187 degli originari 192 - furono trasferiti con dei camion nel porto di Durazzo ed imbarcati verso l'Italia su un piroscafo diretto a Bari. Da qui furono trasferiti a Ferramonti dove giunsero il 27 ottobre del 1941.

Il gruppo proveniente da Spalato

Nella Dalmazia annessa all’Italia dopo l’invasione della Jugoslavia iniziata il 6 aprile del 1941 e in particolare nella città di Spalato si affollavano migliaia di profughi. Oltre che dalla Croazia, molti provenivano dalla Bosnia Erzegovina, la cui zona nord-orientale con Sarajevo, faceva parte dello stato di Ante Palevic. Altri erano arrivati dalla Serbia, soprattutto da Belgrado. Tra di essi, inoltre, vi erano anche tedeschi, austriaci, polacchi, rifugiatisi in Jugoslavia prima della sua occupazione.


La loro permanenza a Spalato era difficile a causa della presenza di forze antisemite nelle organizzazioni locali del partito fascista. Le autorità, inoltre, erano convinte che gli ebrei presenti nella città fossero pericolosi anche politicamente. L'obiettivo costante di Bastianini, governatore della Dalmazia, fu quello di allontanare gli ebrei, rinviandoli nelle loro zone di provenienza come gli veniva ordinato di fare. Negli ultimi mesi del 1941, però, in presenza di un numero sempre maggiore di profughi, Bastianini riuscì a convincere il governo italiano a procedere al loro internamento in Italia. I trasferimenti iniziarono il 20 novembre del 1941 dal porto di Spalato; la nave "Cattaro", fece la spola tra Spalato e Fiume ed entro il 15 dicembre più di mille ebrei stranieri raggiunsero l'Italia e furono internati nelle province di Vicenza, Treviso, Asti, Aosta, Parma, per essere poi, in vari casi, trasferiti a Ferramonti. Ai primi di gennaio, però, il Ministero dell'interno comunicò al governatore Bastianini che i trasferimenti dovevano essere sospesi, perché nei comuni e nei campi italiani non c'era più posto. Molti dei profughi entrati in Dalmazia nei mesi successivi vennero allontanati.

Internati da Lubiana

La cosiddetta Provincia di Lubiana che copriva solo parte del territorio sloveno, era stata annessa all’Italia a seguito dell’invasione della Jugoslavia. Il comportamento nei confronti degli ebrei profughi tenuto da Giuseppe Grazioli, che governava la provincia con il titolo di Alto commissario fu – per varie ragioni, soprattutto politiche - diverso da quello delle autorità responsabili delle altre zone jugoslave annesse all'Italia.


Il numero dei profughi giunti in quella parte della Slovenia durante i primi mesi dell'occupazione fu decisamente inferiore rispetto al numero di quelli che raggiunsero gli altri territori controllati dagli italiani, e alle frontiere della provincia di Lubiana non si verificarono respingimenti di massa, come invece accadde nelle province di Fiume o della Dalmazia. Accadeva, anzi, che molti dei profughi respinti alle frontiere di questi territori riuscissero a trovare rifugio proprio nella provincia di Lubiana.
Va notato, infine, che Grazioli, fu più disponibile ad internare in Italia gli ebrei che si rifugiavano nel territorio da lui governato. Il primo gruppo proveniente da Lubiana arrivò a Ferramonti il 31 luglio del 1941. Entro il 1942 avvenne l'internamento di altre centinaia di ebrei profughi.




Il gruppo proveniente da Rodi

Il 16 maggio 1940 il battello fluviale"Pentcho"con a bordo 509 ebrei emigranti dalla Slovacchia, dalla Boemia, dalla Germania, dall'Austria, dall'Ungheria, dalla Polonia, lasciò il porto di Bratislava sul Danubio diretto verso l’allora Palestina .
Il viaggio era stato preparato da due organizzazioni del sionismo revisionista, la New Zionist Organization (NZO) e il Betar il cui rappresentante a Bratislava era Alexander Czitrom. La preparazione era iniziata nel 1939. Dei 506 passeggeri della nave Pentcho, 101 erano ebrei polacchi, tedeschi, austriaci liberati da Dachau dopo lunghe trattative tra la NZO e le autorità naziste, a condizione che lasciassero subito la Germania. Tutti gli altri provenivano dagli stati dell’Europa dell’Est, principalmente dai territori dell’ormai disgregata Cecoslovacchia, compresi quelli tornati, in quello stesso periodo, all’Ungheria, come, appunto, molti dei destinatari delle lettere scritte in lingua ungherese.
Il "Pentcho" scese lungo il Danubio, fino a Budapest e Belgrado, ricevendo danaro e viveri dalle Comunità israelitiche di queste città.
Proseguendo il viaggio tra molte difficoltà e lunghe soste, il battello riuscì a raggiungere il mar Nero e da qui il mar Egeo e Atene dove i viaggiatori furono rifocillati dalla Comunità locale.
Ripreso il viaggio, il 9 ottobre del 1941 il battello si incagliò sugli scogli dell’isolotto Kamila Nisi a seguito dello scoppio delle caldaie. Nove giorni dopo il naufragio i profughi furono prelevati dalla nave italiana Camogli e trasportati a Rodi, allora sotto il controllo degli italiani, dove rimasero, in qualità di internati, fino a quando, tra il febbraio e il marzo del 1942 furono trasportati al campo di Ferramonti.

Riferimenti bibliografici

Carlo Spartaco Capogreco, Tra storiografia e coscienza civile – La memoria dei campi fascisti e i vent’anni che la sottrassero all’oblio, in Mondo Contemporaneo, Franco Angeli editore, n.2,2014

Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa, Bollati-Boringhieri, Torino, 2003
Klaus Voigt, Il rifugio precario . Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, La nuova Italia, Firenze 1996, Vol. II

Carlo Spartaco Capogreco I profughi ebrei rastrellati in Montenegro e il loro internamento in Albania e in Italia, in Laura Brazzo e Michele Sarfatti (a cura di) Gli ebrei in Albania sotto il fascismo – una storia da ricostruire ed Giuntina, Firenze 2010

Marco Clementi e Eirini Toliou, Gli ultimi ebrei di Rodi – Leggi razziali e deportazioni nel Dodecaneso italiano (1938-1948) Ed Derive Approdi 2015



Scheda storica 3 - Dopo la liberazione

Una statistica compilata il 18 agosto del 1943 registra la presenza nel campo di Ferramonti di 1261 ebrei stranieri. Subito dopo la liberazione, avvenuta il 14 settembre del 1943 ad opera dell’Ottava Armata inglese quasi tutti vi rimasero, in attesa di potersi sistemare altrove o di partire dall’Italia.
Nel corso dei mesi successivi molti internanti, tra cui anche un consistente numero di quelli menzionati nel saggio, si trasferirono nei campi per ex internati e profughi creati in Puglia dagli Alleati.
Alla fine di maggio e nel mese di luglio del 1944 furono organizzate due navi, partite rispettivamente dai porti di Taranto e di Napoli, che trasportarono i profughi che ne avevano fatto richiesta verso l’allora Palestina o verso gli Stati Uniti.

I campi di raccolta in Italia

Bari-Transit camp n. 1



All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 gli alleati, tramite l’UNRRA (United Nations Relief Rehabilitation Administration) allestirono alla periferia di Bari, nella frazione di Carbonara, a Torre Tresca, un grande campo profughi, chiamato Transit Camp n. 1 avvalendosi delle baracche di un ex campo di concentramento militare per prigionieri di guerra. Nella struttura del capoluogo pugliese gli ex internati liberati nelle regioni del sud , quelli che erano arrivati dal nord Italia attraversando le linee di combattimento, i profughi provenienti dalla Jugoslavia ancora occupata ecc. vennero registrati, visitati da medici, curati quando era necessario e riforniti di abiti. Ben presto, però, il campo di Torre Tresca non fu sufficiente a contenere il grande afflusso di rifugiati e dovettero essere requisiti alcuni appartamenti nel centro della città. Gli ospiti di questo campo, come quelli di tutti gli altri creati in Puglia, continuarono a ricevere il sussidio fino al 1946. Molti di essi trovarono anche occupazione nelle diverse strutture di servizio alleate, come interpreti, traduttori stenodattilografi e in attività artigianali e commerciali.

Lecce, Santa Maria al Bagno




A Santa Maria al Bagno, in provincia di Lecce, nel 1943 fu organizzato un grande campo profughi, conosciuto come campo n°34 o con la denominazione di
Santa Croce. L’installazione del campo fu opera degli inglesi, in seguito coadiuvati dall’UNRRA. L’accoglienza fu organizzata anche requisendo le case e le ville adoperate per le vacanze. I primi ad esservi ospitati furono alcune centinaia di ebrei stranieri ex internati provenienti principalmente dai campi liberati, come Ferramonti e dalle località della Basilicata. Vi arrivarono anche ex internati in fuga dalle regioni del Nord che erano riusciti ad attraversare le linee.

Riferimenti bibliografici



V.A. Leuzzi e G. Esposito (a cura di), Terra di frontiera. Profughi ed ex internati in Puglia. 1943-1954, Bari, Progedit, 2000, pp. 3-34.

Mario Mennonna Ebrei a Nardò. Campo profughi n° 34. Santa Maria al Bagno (1944-1947), ed. Congedo 2009

Costantino Di Sante, I campi profughi in Italia (1943-1947) in Guido Crainz, Raoul Pupo e Silvia Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, I profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2008, pp. 143-156.



Lontano dall’Europa

Verso La Palestina


Nel mese di maggio del 1944 a Ferramonti erano rimasti 850 ebrei stranieri ex internati, circa 500 erano a Santa Maria al Bagno in provincia di Lecce, quasi 200 nel Transit Camp n.1 di Bari. Altri ex internati o profughi erano sparsi tra le città di Bari, Salerno, Foggia, Taranto e in altre località. Molte di queste persone, prevalentemente sionisti, erano già in possesso di certificati di espatrio per l’allora Palestina che non avevano potuto utilizzare.17Il Comitato intergovernativo per i rifugiati presso la Commissione Alleata di Controllo, coadiuvato da un Comitato per l’emigrazione ebraica creato dagli stessi ex internati o profughi presenti nei vari campi pugliesi, decise di mettere a frutto questi documenti. Mentre l’Italia del centro nord era ancora sotto il dominio nazifascista e dal campo di Fossoli partivano i treni verso Auschwitz, fu così organizzato in Puglia il primo viaggio verso l’”Erez Israel” di ebrei europei scampati più o meno fortunosamente alla persecuzione.
Il viaggio fu preparato in poco più di due settimane. Le autorità mandatarie della Palestina avevano comunicato l’accettazione di soli 117 ebrei, ma si riuscì a farne partire 570: circa 300 da Ferramonti, 150 da Santa Maria al Bagno, 120 dal Transit Camp n.1di Bari. Gli emigranti furono trasportati a Taranto, dove per due giorni attesero l’imbarco in un campo appositamente organizzato nei pressi del porto. La partenza avvenne il 30 maggio del 1944

Fonte
Relazione del responsabile in Italia del Rappresentate in Italia del Comitato intergovernativo per i rifugiati (IGCR) presso la Commissione alleata di controllo a Sir Erbert Emerson, direttore dell’IGCR, Londra, inviata il 30 maggio del 1944, reperita in rete alla pagina http://www.fdrlibrary.marist.edu/_resources/images/wrb/wrb1242.pdf


Verso gli Stati Uniti

Il War Refugee Board (Ente per i rifugiati di guerra) creato nel gennaio del 1944 per la tutela dei profughi e dei rifugiati in fuga dalle persecuzioni, ottenne, dopo molte resistenze, che gli Stati Uniti creassero anche nel loro stesso territorio nazionale di luoghi di campi di emergenza in cui mettere al sicuro ebrei europei ex internati o profughi scampati alle persecuzioni naziste. L'intera operazione avrebbe avuto luogo al di fuori del sistema di immigrazione, evitando così qualsiasi problema di quote o di alterazione delle procedure per il visto.
La proposta del WRB dopo una forte resistenza fu approvata. Il nuovo organismo iniziò subito ad occuparsi della situazione che si era determinata in Puglia, dove il forte afflusso di ebrei ex internati e profughi, soprattutto jugoslavi, aveva messo in crisi le strutture create per la loro accoglienza. Il Dipartimento di Guerra statunitense individuò in Fort Ontario, presso Oswego, a nord di New York, il luogo più adatto a realizzare il progetto del WRB. Furono così presi accordi per portare negli Stati Uniti 1000 rifugiati nel Sud dell'Italia, sotto le restrizioni di sicurezza appropriate. Il 20 luglio del 1944 la nave Henry Gibbons partì dal porto di Napoli con a bordo mille profughi, 982 dei quali erano ebrei stranieri già internati nelle regioni del Sud Italia o giuntivi fortunosamente dalle regioni del Nord, ma anche direttamente dalla Jugoslavia, dalla Francia. Il 3 agosto i profughi sbarcarono nel porto di New York, da dove partirono in treno per Fort Ontario.

Fonti

Antonio Spinelli,
Vite in fuga - Gli ebrei di Fort Ontario tra il silenzio degli Alleati e la persecuzione nazifascista, Collana: Nordest nuova serie

Anna Pizzuti, A Fort Ontario, in www.annapizzuti.it





Scheda storica 4 – Le annessioni territoriali e la politica antiebraica in Ungheria


Tra le migliaia di ebrei stranieri internati durante il periodo bellico, pochissimi provenivano dall’Ungheria o avevano la cittadinanza ungherese. La stessa circolare che disponeva l’internamento, prevedeva per quelli di loro che nel 1940 si trovavano in Italia, l’allontanamento, non l’internamento.


La constatazione, invece, che la gran parte delle lettere dirette agli internati rinvenuta nel fascicolo, sia scritta in lingua ungherese e la contemporanea verifica della cittadinanza degli stessi, risultata cecoslovacca, ha spinto a ricercare l’esatta collocazione geografica delle località da cui esse erano state inviate.
Si è così potuto verificare che queste erano, in maggioranza, situate nei territori che l’Ungheria aveva dovuto cedere a seguito della sconfitta subita dalla monarchia austro-ungharica nella prima guerra mondiale.
I nuovi confini dell’Ungheria furono delineati dal Trattato del Trianon concluso il 9 giugno del 1920.
Alla monarchia ungherese vennero tolti :
- la Slovacchia, che divenne parte della Cecoslovacchia, la Rutenia subcarpatica, che divenne parte della Cecoslovacchia;
- la Transilvania, che divenne parte della Romania;
- la Slavonia e la Vojvodina, che si unirono all’appena costituito Regno dei Serbi;
- la città di Fiume che, dopo varie vicissitudini, fu annessa al Regno d’Italia nel 1922.
L'Ungheria dovette cedere così ad altri stati oltre 3 milioni di propri cittadini: un milione e mezzo alla Romania, quasi un milione alla Cecoslovacchia, e 500 mila alla Iugoslavia.


Per l’Ungheria il trattato del Trianon rappresentò una ferita profondissima e il suo obiettivo, negli anni successivi fu quello di arrivare alla sua revisione. A battersi contro le decisioni del trattato fu soprattutto il regime di tipo autoritario, se non propriamente fascista imposto dall’ammiraglio Horty fin dal 1932.
L’occasione perché i suoi esiti potessero essere cancellati si presentò nel 1938.
A seguito della conferenza di Monaco dell’ottobre del 1938, che aveva legittimato l’appropriazione da parte della Germania dei Sudeti, il governo ungherese, non alleato, ma molto vicino ideologicamente al Reich, intravide la possibilità di riappropriarsi, a sua volta, delle regioni che aveva perso.
Il documento conclusivo della Conferenza di Monaco aveva stabilito che le questioni sollevate dalle minoranze ungheresi residenti in particolare in Cecoslovacchia andavano risolte direttamente dalle due nazioni interessate.
I negoziati, però, non portarono ad un accordo, così Cecoslovacchia ed Ungheria si rivolsero alla Germania e all'Italia con la richiesta di un arbitrato che è passato alla storia con il nome di Primo arbitrato di Vienna.
Le richieste del governo ungherese, d’altronde, contribuivano allo smembramento della Cecoslovacchia in atto, per cui esse furono facilmente accettate .
Poche settimane dopo, l’ Ungheria invase la Rutenia, un altro dei territori che le erano stati tolti venti anni prima e ne proclamò l’annessione, ugualmente accettata da Germania e Italia.
La più estesa delle regioni rivendicate dall’Ungheria era, però, la Transilvania, assegnata, nel 1920, alla Romania. A seguito di un secondo arbitrato svoltosi, come il primo,
a Vienna, nell’agosto del 1940, anche questa regione fu restituita all'Ungheria.
Ormai legata all’Asse, l’Ungheria nell’aprile 1941 partecipò all’aggressione militare contro la Jugoslavia, recuperando le zone nelle quali risiedevano minoranze ungheresi, in particolar modo la Vojvodina. Nel giugno dello stesso anno l’alleanza con la Germania fu resa definitiva con la partecipazione dell’esercito magiaro all’invasione dell'Unione Sovietica.
Per ottenere l’appoggio della Germania, ancor prima di piegarsi ad una alleanza vera e propria, il governo ungherese utilizzò la ripresa della politica antiebraica iniziata già nel 1920, alla quale, peraltro, era favorevole una larga parte della popolazione.
Agli ebrei , infatti, erano state imputate la sconfitta militare nella prima guerra mondiale, la conseguente perdita di larga parte del territorio nazionale e le crisi sociali che ad essa erano succedute.
La loro presenza nelle attività economiche fu ritenuta sproporzionata rispetto al loro numero e così cominciarono ad essere fissate delle quote che ne limitavano l’ inserimento nei vari settori amministrativi e produttivi.
Solo nell'aprile del 1938, tuttavia, proprio in concomitanza con l’inizio delle rivendicazioni territoriali, il Parlamento magiaro varò la prima vera e propria legge antisemita (detta Prima legge ebraica).
Il provvedimento riduceva al 20 per cento la presenza degli ebrei nelle professioni liberali, nelle belle arti, nella classe dirigente, nell'industria e nel commercio. La Seconda Legge sugli Ebrei, varata nel 1939, oltre a restringere ancora di più le possibilità lavorative, introdusse una nuova definizione del termine. Erano così colpiti da questa nuova legge anche gli ebrei che avevano lasciato la loro religione dopo aver compiuto i sette anni d'età.
Nel maggio 1941, in concomitanza della partecipazione dell’Ungheria all’invasione della Jugoslavia, veniva varata la Terza Legge Ebraica, la più dura e mortale tra quelle emanate fino a quel momento.
La definizione del termine "ebreo” data da questa legge era ancora più ampia di quella nazista il che comportò un ulteriore inasprimento dell’esclusione sociale e della persecuzione dei diritti.
Nonostante ciò, nella primavera del 1942, periodo in cui le lettere che qui si presentano vengono inviate, le istituzioni ebraiche potevano ancora operare e gli ebrei ungheresi godevano di una certa libertà personale.
La caratteristica della persecuzione degli Ebrei d'Ungheria fu , infatti, quella di una continua oscillazione tra periodi di estremismo e periodi di relativa calma, e questo indusse la Comunità ebraica a credere, sino all'ultimo momento, di essere in qualche modo più “protetta” rispetto agli ebrei delle altre nazioni europee finite nell'orbita del Reich.
Essi, così, continuarono a sentirsi relativamente al sicuro nel loro Paese, nonostante i molti segnali che avrebbero dovuto allarmarli, tra i quali le stragi di cui si resero responsabili le autorità civili e militari ungheresi proprio nei territori appena riconquistati.
18
Le leggi antiebraiche promulgate negli anni precedenti, infatti, oltre che da tutti gli altri ambiti economici, escludevano gli ebrei dal servizio militare, ma nel contempo prevedevano l’obbligo di contribuire alla difesa della nazione, nei limiti delle proprie capacità fisiche e mentali, unito a quello di prestare servizi di pubblico interesse per un periodo massimo di tre mesi con la stessa paga e lo steso equipaggiamento dei soldati, ma senza l’uso delle armi.
Gli ebrei esclusi dall’esercito vennero inquadrati nei "Battaglioni di lavoro”, inizialmente per un periodo di sei mesi, che, in seguito, diventò di due anni. Nell'aprile del 1942 50.000 Ebrei inquadrati nei "Battaglioni di lavoro” seguirono l’esercito ungherese che combatteva in Ucraina.
Essi furono utilizzati nei compiti più pericolosi: costretti a sminare a mani nude i campi minati, a trasportare materiali, a costruire fortificazioni senza strumenti adatti.
Durante la ritirata seguita alle sconfitte subite dall’esercito ungherese, moltissimi morirono per la fame e il freddo, oltre che per le violenze subite da parte degli stessi tedeschi. Secondo i dati ufficiali di 37.200 Ebrei inviati in Unione Sovietica 25.456 vennero uccisi, feriti o risultarono dispersi al ritiro delle truppe ungheresi dal fronte.
19
Il 19 marzo 1944, temendo che gli ungheresi si sganciassero unilateralmente dal conflitto, Hitler ordinò l’occupazione del Paese. Contemporaneamente, Adolf Eichmann fu inviato a predisporre la “soluzione finale” anche per gli ebrei ungheresi.
Il Paese fu diviso in cinque zone, la prima delle quali era costituita proprio dai territori di nuova annessione, nelle quali, come operazione preliminare fu ordinata la ghettizzazione, mentre le Croci frecciate, il movimento filonazista ormai al potere, perpetrava stragi nella stessa Budapest. Nell’estate dello stesso anno iniziò la deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz.


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