Niccolo Ammaniti Che la festa cominci



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Niccolò Ammaniti - Che la festa cominci1

 
 
8. 
Il vecchio scrittore indiano se ne stava seduto in un angolo della sala con un bicchiere 
d’acqua tra le mani. 
Era arrivato in aereo da Los Angeles quella mattina, dopo due sfibranti settimane di 
presentazioni negli Stati Uniti, e ora voleva solo tornarsene in albergo e allungarsi sul 
letto. Avrebbe cercato di dormire, non ci sarebbe riuscito, e alla fine si sarebbe preso un 
sonnifero. Il sonno naturale aveva abbandonato il suo corpo da tempo. Pensò alla moglie 
Margaret, a Londra. Avrebbe voluto chiamarla. Dirle che gli mancava. Che sarebbe 
tornato presto. Guardò dall’altra parte della sala. 
Lo scrittore che aveva parlato del fuoco era contornato da un capannello di lettori che 
volevano il suo nome autografato sulla loro copia. E per ognuno il giovane aveva una 
parola, un gesto, un sorriso. 
Invidiò la sua giovinezza, la sua disinvolta volontà di piacere. 
A lui non importava più niente di tutto questo. Di cosa gli importava? Di dormire. Di 
farsi sei ore di sonno senza sogni. Anche il giro del mondo che lo avevano obbligato a 
fare dopo il Nobel non aveva alcun senso. Era un pupazzo, sbattuto da una parte all’altra 
del globo per essere mostrato al pubblico, affidato alla cura di persone che non 
conosceva, di cui si sarebbe dimenticato appena ripartito. Il libro lo aveva scritto. Un 
libro che gli era costato dieci anni di vita. Non era sufficiente questo? Non bastava? 
Durante la presentazione non era riuscito ad andare oltre i ringraziamenti. Non come lo 
scrittore italiano. Aveva letto il suo libro in aereo. Un romanzo piccolo e scorrevole. Lo 
aveva letto per scrupolo, perché non amava essere presentato da scrittori di cui non 
conosceva l’opera. E gli era piaciuto. Avrebbe voluto dirglielo. E non era gentile 
rimanersene da una parte. 
Appena il vecchio si sollevò dalla sedia tre giornalisti che lo aspettavano al varco gli 
furono addosso. Sawhney spiegò di essere stanco. Il giorno dopo sarebbe stato felice di 
rispondere alle loro domande. Ma lo disse così piano, così dolcemente che non riuscì ad 
allontanare i fastidiosi mosconi. Per fortuna arrivò una signora, una della sua casa 
editrice italiana, che li scacciò. 
– Ora che dobbiamo fare? – domandò alla donna. 
– C’è il cocktail. Poi, tra circa un’oretta, andremo a mangiare in un ristorante 
caratteristico, a Trastevere, famoso per le specialità romane. Le piace la pasta alla 
carbonara? 
Sawhney le mise una mano sul braccio. – Mi farebbe piacere parlare con lo 
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scrittore… – Oddio, come si chiamava? La testa non gli funzionava più. 
La donna gli venne in aiuto. – Ciba! Fabrizio Ciba. Certamente. Rimanga qua. Glielo 
chiamo subito – . E si gettò tacchettando nel capannello.
– Guardate che non dovete chiederlo a me l’autografo, ma a Sawhney. È lui che ha 
vinto il Nobel, non io – . Fabrizio Ciba cercava di arginare il mare di libri che lo stavano 
sommergendo. Gli si era indolenzito il polso da quante firme aveva fatto. – Qual è il suo 
nome? Paternò Antonia? Come? Aspetti un attimo… Ah, le è piaciuto Erri, il padre di 
Penelope? Le ricorda suo nonno? Anche a me. 
Una cicciona tutta accaldata si fece largo sgomitando e gli piazzò davanti un’altra 
copia della Fossa dei leoni. – Sono venuta da Frosinone apposta per lei. Non ho mai 
letto i suoi libri. Ma dicono che sono troppo belli. L’ho comprato alla stazione. Lei è 
tanto bravo… e bello. La guardo sempre alla televisione. Mia figlia è innamorata di 
lei… E pure io… un po’.
Sulla faccia di Ciba era stampato un sorriso gentile. – Be’ forse dovrebbe leggerli, 
potrebbero non piacerle. 
– Ma che dice, scherza? 
Un altro libro. Un’altra firma. 
– Come si chiama? 
– Aldo. Può scrivere a Massimiliano e Mariapia. I miei figli, hanno sei e otto anni, lo 
leggeranno quando saranno più gra…
Li detestava. Erano una massa di ignoranti. Un branco di pecore. Del loro 
apprezzamento non se ne faceva nulla. Sarebbero accorsi con lo stesso entusiasmo per le 
memorie familiari del direttore del Tg2, per le confidenze amorose della più insulsa 
valletta televisiva. Volevano solo avere la propria piccola conversazione con la star, il 
proprio autografo, il proprio momento con l’idolo. Se avessero potuto gli avrebbero 
strappato un pezzo del vestito, una ciocca di capelli, un dente, e se lo sarebbero portato a 
casa come una reliquia.
Non ce la faceva più a essere gentile. A sorridere come uno scemo. A cercare di 
essere modesto e accondiscendente. Di solito riusciva a mascherare benissimo il fastidio 
fisico che provava per il contatto umano indiscriminato. Era un maestro della finzione. 
Quando era il momento, si lanciava nel fango convinto che gli piacesse. Da quei bagni 
di folla usciva stravolto ma purificato. 
Però quella sera un atroce sospetto gli stava avvelenando la vittoria. Il sospetto di non 
avere il comportamento giusto, il contegno di un vero scrittore. Di uno scrittore serio 
come Sarwar Sawhney. Durante la presentazione il vecchio non aveva spiccicato parola. 
Se ne era stato li come un asceta tibetano, con quei suoi occhi d’ebano saggi e distanti, 
mentre lui faceva il giullare con le stronzate sul fuoco e la cultura. E come al solito gli si 
affacciò nella mente la domanda su cui poggiava la sua intera carriera. Quanto del mio 
successo lo devo ai libri e quanto alla televisione? 
Come sempre, preferì non darsi una risposta ma farsi un paio di scotch. Prima però 
doveva scrollarsi di dosso quello sciame di mosche. Quando vide la povera Maria 
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Letizia farsi spazio a gomitate non poté che gioire. 
– Sawhney ti vuole parlare… Appena hai finito potresti andare da lui? 
– Subito! Vado subito! – le rispose. E come se fosse stato convocato dal Padreterno in 
persona si alzò e a tutti i fan che non avevano ancora ricevuto il certificato di 
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