Gente a levante!



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AMAYA


L’omaccione coperto da una cappa rossa accolse il nipote con un abbraccio strettissimo. Era visibilmente emozionato. “Sei vivo, Toribio, tesoro della nostra famiglia!”, echeggiò la sua vociona sotto le volte del portone monumentale che apriva l’accesso meridionale alla città. Toribio sentì gran parte della stanchezza sciogliersi al calore di quelle parole. “È stata dura ma, come vedi, me lo sono ripreso!”, proruppe il padre, mentre stava aiutando due chirurghi a caricare su una barella il pilota che aveva voluto portare con sé. “Che il Signore ti abbia in gloria, vecchio fratello di Autrigonia! E pensare che ero pronto ad abbandonare tutto per venire a cercarvi!”, disse il duca di Amaya, ancora intento ad accarezzare i capelli sporchi e insabbiati del nipote. “E vedo bene che i miei uomini migliori hanno tenuto fede alla mia stima!”, continuò, congratulandosi con Liuva e Teudiselo. Il cavaliere dal volto cicratizzato e il fratello dall’orecchio mozzato salutarono il loro signore tendendo il braccio destro. “E siamo fieri di averlo fatto per ordine vostro!”, disse Liuva, con la voce rotta dalla stanchezza. Poi anche loro strinsero le mani di Petro. “Sono stati magnifici questi due fratelli… hanno combattuto come leoni… magari li avessi con me per altri cento anni… potrei dimenticarmi anche l’uso di una mazza!”, enfatizzò il cognato. Per poi correggersi: “Però Teudiselo dovrà pur esser grato ai servizi di questo valido medico!”. Valerio torse la testa per modestia. Petro abbracciò il cognato e volle baciare le mani del monaco, che però le ritrasse, come non fosse degno di tanto da parte di un patrizio. “No, lasciate pure che ve le baci. Dio sa quanto sia contento di rivedervi tutti salvi. Ho pregato notte e giorno per la vostra missione. Chissà che cosa vi è capitato di vedere!”, soggiunse il duca. Hernando scosse la testa come a sbarazzarsi di memorie orribili. “È meglio che non ne parliamo. Grazie ai miei compagni e a questa formidabile guida siamo riusciti a fuggire da quell’inferno. Se me lo avessero detto persino gli oracoli non l’avrei mai creduto possibile!”, commentò il conte di Valle. Petro volle ringraziare anche Flavio e questi rispose con un sorriso. “Ho imparato più cose da questo viaggio che in dieci anni di vita da esploratore. Questi non sono più solo dei compagni, io ve li raccomando come i miei migliori camerati, duca Petro!”. Flavio era spossato come gli altri, ma il suo tono era fermo e austero come quando si era introdotto a loro al Passo della Regina. La sua tempra non era stata nemmeno scalfita dalle sofferenze e dalla sete di tanti giorni di cavalcata. E mentre anche lui stringeva la mano al duca visigoto, si fece avanti un soldato bardato di una bella armatura di ferro, sopra una tunica turchese che si fermava alle ginocchia. Aveva gli occhi dello stesso colore della veste e i capelli neri e dritti come i filetti di una brusca di ferro. “Dov’è Fruela?”, domandò, sorridendo agli altri. “Bartuelo! Che il Signore sia benedetto, eccomi qua!”, scoppiò il ragazzino dall’emozione. Quasi piangeva, infatti, a ritrovare dopo tanti giorni il suo primo capo. Bartuelo fu colto da un po’ d’imbarazzo, ricordandosi che fino a qualche settimana prima non esitava a canzonarlo davanti agli altri Asturiani. Ma ora ringraziava il cielo che glielo aveva salvato. E di fronte a lui non c’era più un bambino bensì un guerriero provato e stanco come gli altri, imbiancato dalla polvere e dalla sabbia che aveva diviso con i suoi compagni. Bartuelo non mancò di notare i segni dei colpi di spada sullo scudo del commilitone e gli strappi della cotta sugli avambracci. “Bravo, vedo che sta volta hai fatto la tua parte, mocciosetto!”, disse con un tono da finto burbero. Fruela apprezzò quelle parole più della volta in cui aveva riguadagnato la stima di Flavio. Il Romano contava molto per lui, ma le parole di un membro della sua tribù erano ancora più preziose. “L’ho visto fare a pezzi più di un Saraceno, da solo e nel mezzo della notte!”, affermò proprio in quel momento la guida romana, poggiando la mano destra sulla spalla del giovinetto. “Tuo padre Froila sarà orgoglioso di te… non mancherò di dirglielo appena rientriamo a Cangas!”, concluse il capo degli Arcadeuni. La faccia triangolare, coperta di bruffoli e barbuzie incolte, gli sorrise luminosa.

“Ora seguitemi tutti!”, riecheggiò la voce di Petro mentre faceva segno alle guardie di creare due ali per la scorta. Il gruppo dei sette seguì allora il duca sull’acciottolato che saliva verso il portone della seconda cinta, attraverso botteghe di vetrai e vasai, caseggiati in mattone rosso di tre o quattro piani, portici di vecchie domus e piazzette corredate di fontane. Oltrepassato questo, marciarono lungo un grande viale di colonnati che s’interrompevano per dare adito a splendide gradinate di marmo rosa sulle cui sommità si levavano i resti degli antichi edicifici romani. Flavio riconobbe il tempio di Marte, quello di Minerva, quello di Jupiter e poi le terme, il teatro nuovo e il vecchio tabularium. Toribio rivide i luoghi in cui aveva passeggiato con Valerio, recitando i carmi di Virgilio e leggendo le Confessioni di Sant’Agostino. Era là che aveva imparato il latino. Passata la terza cinta, il giovane di Valle riconobbe i profili della chiesa di Santa Eulalia, di San Luca e di San Filippo, e già sapeva che dopo i resti del foro si sarebbe presentata ai loro occhi la basilica di Sant’Eufemia, dentro alla quale aveva spesso ascoltato i sermoni del vescovo Fruttuoso. D’istinto volse lo sguardo verso Valerio, per scoprire che, in silenzio, quello stava piangendo. “Glielo avevo detto di non andare!”, udì lo zio che si era voltato proprio in quel momento, quasi a intercettare i suoi ricordi.

“Quell’uomo è un santo. Nessun uomo o donna l’avrebbe trattenuto dal cercare la pace anche in questi momenti”, replicò Toribio. Valerio continuava a tacere. “Speriamo che torni presto”, mormorò soltanto, dopo una lunga pausa.
Intanto tutti i portoni delle cinte più basse si erano richiusi con tonfo assordante agli ordini dei capi degli arcieri che li presidiavano. Hernando ne aveva già contati centinaia sui bastioni delle prime tre muraglie. Poi ne aveva scorti anche fare capolino dai parapetti dei torrioni angolari. Intanto, intorno a loro salivano e scendevano altri fanti, trainando, con grossi muli, piccoli onagri e ossíbeli da issare sui corridoi dei fortilizi, e spostando carri carichi di proiettili per le baliste che già stavano lassù. La gente comune si era già velocemente chiusa nelle grandi e piccole case di mattoni. Le tende erano state ridistese sui davanzali e dietro le finestre senza vetri. Le botteghe dei macellai, i banchi delle mercerie, le locande erano deserti. Qualcuno era ancora per le strade ad accendere le torce piantate sugli archi delle entrate e delle finestre oppure i bracieri che stavano sulle gradinate dei templi. Di tanto in tanto incrociavano una pattuglia di cavalieri che faceva la ronda. Tutti salutavano il duca con la mano destra e proseguivano senza fermarsi.
“Ti avverto che i Saraceni saranno almeno settemila, cognato!”, proruppe Hernando a quel punto. Gli occhioni di Petro parvero spegnersi a quella brutta notizia. “Dici sul serio?”, chiese impallidito. “Li abbiamo visti al Passo degli Orsi… e ce l’ha detto anche quel Tariq, che ho avuto la disgrazia d’incontrare nelle prigioni di Toledo!”, spiegò l’altro, chinando la fronte. Petro non disse nulla, mentre ricambiava il saluto ad un gruppo di ufficiali dell’artiglieria. Poi il suo viso sembrò illuminarsi di una luce sinistra. “Che ci mandino pure tutte le legioni che vogliono! Li aspetteremo con gioia!”, disse, riaccelerando il passo con convinzione. Passarono così anche il portone della quarta cinta. Dentro l’ultimo quadrilatero avrebbero trovato solo la chiesa di San Firmino e il Palazzo Bianco, sede dell’Officium Palatinum.”Ora siete troppo stanchi per venire con me lassù… “, riprese Petro. “I miei luogotenenti sono ancora intenti a discutere con i centurioni delle cinte sulle istruzioni per la difesa… ma è meglio che andiate a riposarvi, voi. Mia moglie Teodosinda vi sta aspettando alla Domus. Siate pazienti con le sue sentenze. Da quando è cominciata questa guerra, mi pare peggio di una Cassandra!”. Toribio ricordò allora l’immagine della zia, una donna sempre triste, che lo osservava di sbieco, mentre stava seduto, mangiando in silenzio, al lungo tavolo del vecchio triclinium, nelle serate estive.

Una donna molto alta ed esile, dai capelli biondi e raccolti da una coroncina argentata simile alla sua.

Solo a volte riusciva a divertirla, come quando le leggeva le odi e i carmi di Orazio, mentre passeggiavano lungo il peristilio della Domus Ducalis che dominava la parte più alta della città. Eppure lui non riusciva a comprendere cosa la zia ci trovasse di così divertente in quei canti d’amore che a lui, in fondo, un ragazzino di tredici anni, sembravano così lontani dall’amore casto che aveva preso ad esempio dai precetti insegnatigli da Valerio. Ma così era la zia Teodosinda, che non sapeva leggere e appariva interessata alla recita di quei versi strani, specie quelli dedicati a Lidia e a Lice. Perso in questi ricordi e ormai esaurito dall’affaticamento, raggiunse con Valerio la bella dimora ducale. Il padre e gli altri invece avevano insistito per andare con Petro al Palazzo Bianco. L’attacco era ormai imminente e, sebbene stanchissimi, volevano fornire tutte le informazioni che avevano appreso durante la spedizione a Toledo.

La Domus Ducalis sorgeva sul pendio che si staccava dal torrione di sud-est della quinta e ultima cinta. La città si stendeva ai suoi piedi, con le luci dei bracieri che già rischiaravano il primo buio. La scorta improvvisata dallo zio li lasciò nelle mani dei servi che li attendevano al portone. Toribio e Valerio entrarono in un ampio vestibolo, ornato di alte colonne di marmo nero ed effigi di Dei antichi. I servi li accompagnarono lungo i corridoi interni fino alla Sala degli Uffici. Mentre percorrevano quegli estesi anditi pavimentati da marmo chiaro, udirono le note crescenti di un suono di lire. Poi il canto di un bambino. A quel punto furono lasciati all’ingresso di un’enorme sala dalle volte altissime e coperte di drappi di lino che riportavano il Crismon di Gesù. Qui, seduta su un trono di acacia, videro una donna sui quarant’anni, vestita di un colobium scarlatto e coperta da un lungo velo purpureo che le nascondeva anche il volto. La bionda testa, chinata sul petto, era adornata di una fascia argentata e di una coroncina di fiori di prugno. La zia non sembrava nemmeno essersi accorta di loro mentre ascoltava il canto del bimbo che stava sulla vicina pedana, accompagnato dalle note delle orchestrali.

Allora Toribio si fece avanti e si presentò sotto i suoi occhi.

“Salve, domna Teodosinda, mi riconoscete?”.

La duchessa gota alzò il capo e sollevò un lembo del velo, scoprendo un volto tenero come quello di una bambina e degli occhi azzurri dall’espressione incantata. Guardò a lungo quel giovane, vestito di verde e con i capelli sporchi e cinti da una fascia argentata come la sua.

“Toribio, tu sei Toribio! Anima allegra della primavera della mia vita! Cosa fai quassù, ora, in questi tempi di morte e maledizione?”.

“Son qui con mio padre Hernando, che sta ancora con il vostro marito. Abbiamo fatto molta strada pur d’intendere di aiutarvi!”.

“Che Dio vi benedica, parenti miei che venite da quelle valli lontane per farci compagnia in questi momenti amari. Hai mangiato, anima mia?”.

“Non tocco cibo da ieri sera. Ci siamo fermati al monastero di Auca. Abbiamo viaggiato tutto il giorno, assieme a questo mio amico!”, rispose Toribio, additando Valerio.

La donna guardò bene anche il volto bruno e serafico di quel monaco mediterraneo.

“Valerio, certo, mi ricordo di voi! L’allievo del nostro caro Fruttuoso, il maestro di questo mio buonissimo nipote… che gioia rivedervi dopo tanti anni!”.

“La gioia è ancor più grande nel cuore mio, duchessa!”, affermò Valerio, sorridendo.

Teodosinda allora si alzò, scese dalla sua pedana, prima baciò Toribio sulla fronte e poi accettò che il monaco le baciasse la mano destra.

Quindi ordinò ai servi vicini di correre a preparare le stanze e i bagni per loro.

“Dovete essere prostrati! Non so quando saremo attaccati, ma è meglio che ora vi sia dato da mangiare e poi possiate riposare qualche ora su i più bei guanciali che vi farò trovare!”.

I due ringraziarono e furono subito scortati da un paio di giovani dalle fattezze latine.

Poi il coro ricominciò a cantare. Erano i salmi per l’ora di compieta. La donna tornò a sedere sul trono e il volto scomparve di nuovo sotto l’ampio velo purpureo.

Era circa la sesta ora della notte, quando Toribio sognò di Agasinda. La giovane fanciulla stava dietro una grande finestra di cristallo al centro di una fortezza grigia, ed era avvolta in una veste bianca ed un mantello rosso. Aveva lo sguardo smarrito verso l’orizzonte, come se attendesse qualcosa. Poi cominciò a gridare: “Toribio, Toribio! Guarda sul lago! La salvezza nostra sta tornando!”. Ma subito il finestrone s’infranse e il suo volto scomparve in una nuvola di schegge. Il giovane si svegliò, sudatissimo, tra le lenzuola di seta e i soffici guanciali di un letto grandissimo. Capì che era stato solo un incubo e pregò Dio che non si averasse mai. Però l’ansia era alle stelle e non riuscì più a riaddomentarsi.

La stanza era completamente vuota, ad eccezione di un braciere quasi spento e di un paio di cassoni per la biancheria. Un fresco alito di vento entrava dalla terrazza che si apriva al suo lato. Il ragazzo si coprì con una vestaglia che trovò ai margini del letto e si avvicinò al davanzale. Laggiù, eretta davanti al parapetto della terrazza, scorse un’ombra solitaria, anch’essa coperta da una semplice vestaglia di seta che le scendeva fino ai piedi scalzi.

“Non riesci a dormire profondo, bambino mio?”, sussurrò d’un tratto la sagoma di quella figura venerea, che nemmeno si era mossa al suo avvicinarsi e il cui volto, ora senza velo, continuava a fissare il panorama della città. “E pare che nemmeno voi ci riusciate, zia”, disse il giovane, ammirato dalla bellezza di quello scenario.

“Quella che vedi è l’ultima speranza che ci rimane. Se i Saraceni vincono, sarà la fine di tutti noi… due secoli di mirabile reggenza… da quando siamo giunti in questa terra iberica”, sussurrò ancora la duchessa.

Toribio la guardò bene, al chiarore della piccola lucerna che la donna aveva posato sul parapetto.

Era ancora molto bella, specie ora che i capelli erano sciolti sulle spalle ed il petto respirava gonfio, coperto da un pendaglio di lapislazzuli. Toribio notò che il ventre era un po’ troppo marcato e goffo.

“Si capisce, vero?”, disse la zia, voltando la faccia verso di lui e aprendo due occhioni teneri e materni.

“Lo vedo bene. Dunque, aspettate un bambino!”, rispose il nipote. “Certo, Toribio: e se sarà un maschio, lo chiameremo Alfonso. Ti piace?”.

Toribio sorrise per l’imbarazzo.

“E allora non siate di cattivo augurio, zia. Lasciate che quei diavoli si prendano la terra che vogliono. Nulla potrà comunque fermare la volontà di Dio. Se la nostra razza deve sopravvivere, lo farà lo stesso attraverso i figli del nostro sangue!”, sentenziò.

“Le tue sono belle parole. Sei sempre stato un portatore di fede. Avrei dovuto parlare più spesso con te…”, rispose la zia e gli accarezzò una guancia.

“Per voi e il nostro popolo ho già una missione da compiere… ma… “, Toribio s’interruppe, ricordandosi del patto con San Giacomo, “ non posso dirvi oltre… è una storia troppo lunga”.

La duchessa lo guardò tra il perplesso e l’inquieto, poi proruppe in un pianto.

“Ho paura, nipote mio buono, ho paura. Se ci uccideranno, sarà la fine di tutto e di tutti!”.

Allora Toribio le prese le mani e cominciò a pregare la Vergine che li salvasse. La zia ripeteva le sillabe della preghiera, continuando a piangere. Quando il ragazzo finì, lo strinse fortissimo al suo petto. “Ora torna a riposare. Io starò ancora quassù un poco a meditare”, soggiunse e gli porse la lucerna per aiutarlo a tornare nella stanza. Così il ragazzo tornò a dormire e fu un sonno profondo. Ma non durò molto.


“Spicciati, Toribio, è iniziato l’attacco!”, gridò Valerio, scuotendo le lenzuola.

Toribio si vestì in fretta e seguì l’amico sullo stesso terrazzo dove poche ore prima aveva conversato con la zia. Faceva ancora buio.

Davanti a loro il cielo appariva solcato da ripetuti bagliori. “Che Dio ci protegga!”, esclamò il monaco. I proiettili infuocati cominciavano a raggiungere le prime due cinte. Già si vedevano alcuni tetti infiammati. Si udivano le urla lontane della gente. Le torri angolari rispondevano con le loro balliste. Ma i colpi non erano tanti come quelli dei Saraceni. Il fragore stava crescendo, quando i due furono chiamati all’interno dai servi di Teodosinda. “Presto, signori, venite via! La duchessa vi aspetta! Dobbiamo rifugiarci nei sotterranei!”, sbraitò un vecchio ispano-romano dalla toga unta e consunta. I due lo seguirono, attraversando in fretta corridoi sfarzosi ma completamente vuoti. Ad un tratto imboccarono delle scale strette e anguste che li portarono in una grande cantina piena di otri e anfore enormi e coperte di ragnatele. Qui li aspettava la duchessa con poche fanciulle e qualche giovinetto.

“E mio padre? E i miei amici? Dove sono?”, chiese il nipote.

“Sono ancora tutti al Palazzo Bianco con tuo zio! Ma tu è meglio che resti qui. È troppo pericoloso muoversi adesso!”.

“Neanche per sogno! Non posso lasciar solo mio padre in questo momento!”, replicò il giovane, un po’ irritato.

Così Toribio lasciò tutti e tornò, disperato, su per la scale.

Al portone non trovò nessuno. Lo aprì da solo con fatica. Fuori era tutto un gridare e correre di soldati e genti terrificate.

I colpi dei proiettili risuonavano sempre più vicini. A stento riuscì a farsi strada nella calca, ma alla fine trovò la piazza antistante il portone della quinta cinta. Erano in molti a volere entrare. Cercò di convincere le guardie. Ma queste non ne volevano sapere. Stava quasi per metter mano alla sua daga, quando il braccio gli fu fermato dalla mano di un guerriero alto, ammantato di bianco e rosso sopra una cotta che gli scendeva fino ai piedi. L’aveva già visto quell’uomo.

“Tu sei Toribio, il figlio del giudice Hernando!”, disse l’altro stirando le mascelle in un simpatico sorriso, sotto due folti baffi biondi.

Ora Toribio l’aveva riconosciuto. Quello era Gunderico, il messaggero che era giunto a Valle un mese prima.
“Per l’amor di Dio, Gunderico figlio di Giverico, il nostro ospite di Valle!”, sbottò il giovane dalla sorpresa. “In carne e ossa, amico mio, ed ora vedo che sei tu ad esser ospite della mia gente!”, replicò l’altro.

“Mio padre è dentro il Palazzo con lo zio Petro e i suoi luogotenenti. Mi aiutate a raggiungerli?”, chiese il ragazzo.

“È esattamente quello che intendo fare! Di quei luogotenenti sono io il capo, giovane di Valle!”, dichiarò la stazza d’uomo che torreggiava davanti a lui, con gli occhi intrappolati tra il paranaso e i paramascelle dorati.

Così il Visigoto fece un segno alle guardie che subito aprirono i battenti del portale senza batter ciglio e li lasciarono passare, tornando poi a fermare la folla dietro di loro.

I due attraversarono a piedi il selciato di una bella agorà trapezoidale, punteggiata di fontane, capitelli e piccoli altarini, e imboccarono un vialetto di porfido, illuminato da decine di torce conficcate su altrettanti pilastrini. Gli armigeri del Palazzo Bianco li lasciarono entrare e così Toribio e il vecchio amico raggiunsero finalmente l’ultima Aula Regia del popolo visigoto.

Qui stava un salone sconfinato; era pavimentato di porfido e intarsi di onice e alabastro; aveva mura altissime che s’incrociavano elegantemente sul soffitto formando archi lunghi e rigati da lesene di marmo vermiglio; sulle pareti si aprivano lunghissime bifore le cui colonnine sorreggevano capitelli incisi con i consueti fiori celtici. C’erano mille cose appese tra quelle finestre: vessilli di antiche legioni romane, stendardi visigoti e cantabri, teste di cervo, orso e lupo imbalsamati, e naturalmente, sotto ogni bifora, il Crismon di Gesù.

In mezzo al salone stava un enorme tavolo rettangolare su cui abbondavano mappe e rotoli di dispacci. Pochi stavano in piedi; molti stavano sdraiati, mezzo assopiti, sulle panchine ampie e provviste di grandi cuscini che si estendevano lungo il perimetro del salone. Petro era ovviamente in piedi, circondato dai luogotenenti Anserico, Ermarico e Siserico. Il primo assomigliava ad una grossa anatra: piccolo, tarchiato e panciuto, con un lungo collo su cui si attorcigliava una folta barba fulva. La pelle della faccia era intrisa di reticoli rossi, segno della dedizione alla cervogia. Il secondo era circa della stessa statura, ma era un po’ meno grassoccio. La fronte era ampia e bitorzoluta, i capelli neri, lunghi e spettinati. Gli mancavano parecchi denti e sulla guancia destra recava il segno di una grossa cicatrice da taglio di accetta. Siserico invece era alto, smilzo come un chiodo, stempiato e canuto. Era l’unico dei tre che esprimeva serenità e sicurezza, forse perché il più veterano tra tutti. Petro stava chiedendo loro cosa fosse successo ai messaggeri inviati ai Vasconi. “Sono partiti l’altro ieri, mio duca!”, rispose Siserico. “Forse è troppo tardi, avremmo dovuto mandarli prima! L’avevo detto io!”, interloquì Anserico. Il duca lo guardò nervoso, ma non replicò. Intanto Toribio aveva notato il padre, appisolato sulla panchina vicina, presso i fratelli Liuva e Teudiselo, anche loro semi-assopiti dalla stanchezza.

Però non aveva visto Bartuelo e non c’era nemmeno un Asturiano. Forse, pensò, erano già impegnati nella difesa delle mura più basse.


Lo zio notò subito Gunderico che stava avanzando verso di lui, con passo pesante.

Vide anche il nipote, ma non ebbe tempo per parlargli.

“Che nuove mi porti?”, domandò brusco al suo generale.

“I proiettili sono molti ma non sono tanto grandi. Abbiamo perso alcune decine di arcieri e manovratori al primo lancio e la torre inter meridiem et occasum solis è stata colpita, ma le mura non hanno varchi. Ho concentrato gli Asturiani dietro gli spalti di sinistra della prima cinta. I nostri arcieri attendono dietro gli spalti di destra. Così se quelli arrivano con le scale saranno fermati subito e se ripiegano sul torrione inter meridiem et orientem saranno affrontati dalle riserve di Bartuelo!”.

“Ben fatto, ma quando useranno gli arieti?”, chiese ancora il duca.

“Dietro la seconda porta ho fatto scavare tre file di buche e le ho fatte riempire di punteruoli!”.

Il duca si complimentò, poi finalmente ebbe tempo anche per il nipote.

“Ben venuto, Toribio. Quello che vedi è l’inizio di una giornata storica. Prega Dio che un giorno ti consenta di raccontarlo ai tuoi nipotini!”, disse, provocando qualche sghignazzata tra i suoi ufficiali.

“Ed ora aiutami! Comincia con il togliere dal sonno tuo padre. Neanche i tonfi delle palle di balliste ce l’hanno fatta!”.

Toribio rise commosso, guardando l’espressione innocente del padre che dormiva a bocca aperta, appoggiato al suo scudo con la faccia del leone.

Così si avvicinò, gli tolse il casco e lo accarezzò sui capelli, ancora sporchi di polvere dal giorno prima.

Il padre aprì gli occhi e proferì alcuni rimproveri, ancora mezzo intontito.

“Per la pazienza degli Dei, dove ti eri cacciato, vagabondo?”.

A Toribio parve di ritrovare il padre che aveva conosciuto per anni, come quello che l’aveva accolto davanti alla rocca di casa, un mese prima, di ritorno dal Picco Bianco.

Ma fu solo un’impressione fugace.

“Valerio sta bene? Avete dormito abbastanza?”, s’affrettò a chiedere il vecchio burbero.

No, qualcosa era cambiato. Il vero giudice di Valle non avrebbe mai pensato alla salute di un monaco.

CAPITOLO XXIV


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