Gente a levante!



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IL PARTO DELLA GRAZIA

Come d’incanto, il bianco Asfredo, il bruno Ederedo ed il fulvo Witisclo spuntarono alle loro spalle. I sei non credevano ai loro occhi. I cavalli si fermarono e si inginocchiarono sulle zampe anteriori per consentire loro di montarci sopra. “Questo è un altro segno della volontà di Dio!”, tuonò Petro, entusiasta. Così Valerio e Teodosinda salirono su Witisclo; Toribio e il padre su Asfredo; Gunderico e Petro su Ederedo. “Ed ora tutti a casa mia!”, gridò Hernando, spronando Asfredo. Il gruppo galoppò veloce giù per il sentiero brullo. Era una bella giornata di sole, ma non trovarono nessuno. Attraversarono la piana dell’Ebro in un battibaleno e a pomeriggio inoltrato cominciarono a inerpicarsi lungo una carrareccia che ben presto li portò in vista dei profili seghettati e dei manti boscosi del Picco Bianco. Proprio lassù, solo un mese prima, Valerio aveva accompagnato Toribio a fondare una pieve. Il ragazzo non mancò di pensarci. Gli pareva che fosse passato un secolo da allora. E naturalmente non mancò di pensare alla sua mamma. Voleva quella pieve proprio in suo onore. Il padre non aveva accettato che il corpo fosse sepolto, ed aveva voluto che fosse bruciato su una pira, come secondo le usanze sacre pagane. Così Toribio voleva un posto dove pregare la madre e sentirsi più vicino a lei; anche se non aveva mai parlato al padre di quell’intenzione. Il ragazzo cercò lo sguardo di Valerio fra i cavalieri vicini. Questi era proprio dietro e scambiò un sorriso con lui. Il monaco sapeva a cosa stava pensando l’amico.


Intanto il novello conte di Valle aveva teso le briglie. “Per tutte le creature di queste valli! Che è mai successo laggiù!”, esclamò, indicando agli altri un assembramento di macchie scure fra grandi felci e ciuffi di fiori gialli. Avvicinandosi a passo cauto, notarono che quelle macchie avevano forme e abiti umani. Ma non si muovevano.

A Toribio vennero in mente i cavalieri morti che avevano trovato qualche giorno prima alle porte di Amaya. Ma questa volta i corpi erano diversi. Erano tutti scheletri coperti da armature leggere sopra vesti verdi. I teschi stavano dentro degli elmi a mezzaluna. “Sono Saraceni! Si vede bene!”, sentenziò Petro.”Già… forse Siri, hanno gli stessi pugnali di quelli che abbiamo incontrato vicino a Palencia!”, aggiunse il giudice. “Ma che ci fanno qui? E perché non c’è un brandello di carne sulle loro ossa?”, si domandò Gunderico, mentre guidava il cavallo attraverso quei resti.

“Andiamocene al più presto! Temo per la mia gente!”, esortò improvvisamente Hernando, piantando i calcagni sui fianchi di Ederedo. Così i sei non si fermarono ed accelerarono il passo su per la strada di montagna che ora si dirigeva a costeggiare un alto pendio.

Percorse altre dieci miglia, in fila l’uno dietro l’altro, voltarono finalmente dietro un grande masso a forma di campana e qui furono fermati da una freccia che si conficcò a poche braccia dal cavallo di Hernando. “Fermi là, o vi uccidiamo!”, gracidò la voce di un giovinetto che imbracciava un archetto rudimentale. Hernando sorrise. “Buon giorno a te, Avane, figlio di Auga figlio di Taeda, non riconosci più il tuo signore?”. Il giovinetto guardò bene il cavaliere dall’elmo di cuoio e lo scudo con l’effige leonina, e subito riconobbe il ragazzo con la casacca verde che gli stava seduto dietro. “Per tutti gli Dei! Siete voi, signor Hernando e voi signor Toribio?”, scoppiò dalla meraviglia. E subito cominciò a gridare: “Presto, venite tutti! I signori sono tornati!”. Dai contorni delle decine di roccie e macigni che tappezzavano il passo spuntarono le testoline di almeno settanta ragazzini.

I più vestivano casacche corte, a malapena protette da giacchette di cuoio; pochi indossavano delle loriche slamellate più grandi di loro.

Alcuni avevano dei copricapo di cuoio, altri erano cinti da antichi elmi con tesa circolare, alla gota, oppure provvisti di calotta ondulata, alla romana.

Pochi avevano spade di metallo. I più maneggiavano solo bastoni, mazze e giavellotti. Certo, una simile combriccola difficilmente avrebbe potuto fermare le centinaia di Siri i cui resti stavano a poche miglia dal passo. “Dimmi, Avane… “, domandò il giudice, “che mai è successo sulla Piana dei Fiori Gialli?”. Il giovane alzò le mani verso il cielo. “È stato un leone… grandissimo… era rosso e sputava fuoco dalle fauci. Noi siamo arrivati dopo che se n’era andato. Li ha bruciati tutti in un baleno!”.

Hernando e Toribio si guardarono negli occhi. Poi Toribio guardò Valerio, mentre un brivido gli percorreva la schiena. “È un altro segnale?”, quasi volle interpellarlo. Il monaco prima stirò le labbra, poi allargò il volto e gli occhi brillarono. “Sì, Toribio! La grazia è su di noi!”, disse con enfasi. Gli altri erano tutti incantati dalla storia di quel miracolo. “E allora non perdiamo tempo!”, proclamò Petro. “Abbiamo sentito tutti i nostri re. Ora seguiamo la via che ci hanno indicata. La riscossa è vicina!”. Hernando era commosso. Gunderico era eccitato. Anche Teodosinda parve finalmente felice. Ma proprio in quell’attimo, la duchessa avvertì una fitta al basso ventre. Poi un’altra ancora. La donna iniziò a gemere, stringendosi l’addome, mentre il volto le s’impallidiva.Valerio se n’accorse subito. “Presto! La duchessa ha le prime doglie. Dobbiamo sbrigarci!”. I sei non esitarono e spronarono i loro cavalli attraverso la mulattiera. Alcuni ragazzini formarono un piccolo corteo e cominciarono a correre dietro di loro. Avane e gli altri restarono al passo. Uno iniziò a battere un enorme tamburo orizzontale. Un altro accese un grande falò. Presto altri fuochi si levarono lungo le creste della cordigliera che volgevano a nord-est e si udirono i rimbombi di altri tamburi sempre più lontani.

Man mano che scendevano verso Rio Tondo, cominciavano a comparire le capanne di canna e paglia dei contadini. Molte donne e bambini erano stati attirati sulla soglia dall’eco dei tamburi e sventolavano le mani verso di loro.

Qualche ora più tardi, a trotto leggero per evitare pericolosi sobbalzi a Teodosinda, giunsero in vista dell’osteria di Attilio. Gunderico la riconobbe subito. Toribio non mancò di ricordare che proprio là si erano lasciati il mese prima, allora né lui né suo padre erano ancora convinti di quella missione. Ora lo erano. Ora tutti lo erano. Le parole di Roderico risuonavano ancora nelle sue orecchie mentre ricordava la fine dell’ultimo re visigoto che Gunderico aveva descritto proprio dentro quel casolare bianco. La vista dei resti dell’olmo che era stato spezzato dal fulmine distolse il ragazzo da quei pensieri. Ma solo un momento prima di udire il frastuono di un applauso e le grida di decine di valligiani che si erano riuniti davanti alla porta dell’osteria. C’erano uomini appena giunti dai campi, ancora coperti di sudore e polvere. Vecchi magrissimi e dalla pelle scura e rugosa che sventolavano il loro sombrerino. Donne la cui testa usciva da mantelli rotondi che gli coprivano anche le braccia. E tanti bimbi scalzi e gioiosi. I sei accostarono i destrieri e presero le anforette di vino fresco annacquato che Irunia porse loro. “Ben tornato, giudice!”, salutò il marito Attilio, che si era pettinato e lisciato i capelli bianchi per l’occasione.

“Non vi fermate per qualche cialda e tre olive delle nostre?”. “No, Attilio, dobbiamo tirare avanti; questa donna aspetta un bimbo!”. “Che Dio la protegga, evviva!”, gridò un vecchio, accarezzando il cavallo della straniera dai costumi eleganti. “Evviva, evviva!”, eccheggiò la piccola folla che stava all’ombra dei grandi olmi e certo non aveva riconosciuto né il duca né la duchessa di Cantabria. E subito alcuni ragazzi si precipitarono a portare la notizia a Valle.

Scambiate poche parole con Attilio e qualche anziano, i sei ripresero la strada a passo lento.

Passarono così anche il ponte romano e infine giunsero al paese. Anche qui molta gente si era radunata, dopo aver sentito il tam-tam dei boschi ed esser stati allertati dai ragazzini che erano riusciti a precederli. Ora ci saranno state almeno duecento persone, giovani armati di San Petro e San Bartolomeo ma anche di San Michel e Santa Monica. E poi c’erano ovviamente quelli di Valle con i loro anziani. Centinaia di occhi si puntavano sui cavalieri che sfilavano assieme al giudice e a suo figlio. Molti avevano già visto Valerio da quelle parti e lo salutavano. Qualche anziano riconobbe persino Gunderico. Ma nessuno riusciva a riconoscere quell’omaccione dalla lunga cotta di ferro sotto la stola bianca e il mantello rosso, anche se qualcuno aveva già notato la fibbia a forma d’aquila che gli chiudeva il cinturone. E certo non mancavano i mormorii su quella misteriosa donna vestita di scarlatto, il cui volto sofferente si distingueva appena attraverso il velo. La folla vociferava davanti alla rocca della famiglia di Toribio. Lucio e Lario stavano alla porta. C’erano anche Decio e Anna, con le lacrime agli occhi.
Hernando scese per primo ed abbracciò i suoi servi. Poi fu la volta di Toribio. Anna lo volle baciare. “Eravate il più bello, ora siete anche il più forte dei nostri, domne Toribio!”, disse, stringendolo al suo petto. Toribio avvertì una stretta al cuore. Anna aveva solo la sua età ma quello che percepiva era il calore di un abbraccio materno. Quell’abbraccio sembrava trasmettere l’amore di chi ti vuole vedere più grande di quello che sei. Le accarezzò i capelli e la lasciò andare.

Intanto la folla si preparava ad accendere le torce. Molti portavano gerle piene di pani e focacce.

Altri giungevano sollevando lunghe pertiche da cui pendevano agnelli e maiali appena sgozzati. Due robusti adolescenti stavano scaricando grosse anfore di olio e di vino da un vicino carretto. “Ma che è tutto questo spreco?”, tuonò il giudice. “È per il banchetto in vostro onore, giudice!”, rispose Decio, con il consueto tono cerimonioso. “Ho pensato subito a voi, quando ho udito i tamburi. Poi sono arrivati i ragazzini che vi hanno visti per primi all’osteria di Attilio. Non potete immaginare la gioia che ci recate con il vostro ritorno!”, concluse il vecchio grassone.
“E tantomeno la mia!”, sbottò nonna Amagoya che si era appena aperta un varco tra la folla. “Figli miei, dove vi eravate cacciati?”. Hernando guardò la madre, quella piccola creatura con la casacca arancione, adornata di monili di bronzo fino ai gomiti e ghirlande di fiori attorno al collo. Aveva ancora gli splendidi occhi marroni e le labbra carnose con cui la ricordava tanti anni prima quando il padre e la sua scorta erano in ritardo da Flaviobriga e lei gli stava accanto presso il focolare e gli raccontava le favole di Fedro che aveva imparato dallo zio Momo di . Hernando le accarezzò la fronte. Forse non l’aveva mai veramente amata come in quel momento. Forse non aveva mai saputo cosa significasse voler bene ad una madre. Ma ora il giudice si sentiva diverso. Tutte quelle ambizioni, quelle smanie di successo, quella sete di arrivare non c’erano più. Ora sentiva che il suo cuore non era più distratto da quelle cose. E si rendeva conto dell’enorme ricchezza che aveva buttato al vento. Quella era sua madre. Quella era la sua gente.

Guardò ancora gli occhi profondi e ancora giovani di quella creatura esile come una foglia e gli venne la voglia di gridare dalla gioia. L’accarezzò ancora, poi si ricordò che bisognava agire in fretta. Spiegò alla madre che Teodosinda era vicina al momento del parto ed aveva bisogno della sua esperienza di levatrice. La madre, allora, chiamò subito Anna e, prese entrambe la duchessa per mano, la guidarono verso l’interno della rocca. Valerio le seguì d’istinto.


Quindi il giudice salì sui gradini della soglia per farsi vedere da tutti.

“Gente di Valle!”, cominciò con tono pacato, mentre i servi invitavano tutti a cessare ogni voce o mormorio. “Qui siamo di ritorno da eventi che nessuno di voi può immaginare… ma sappiate che non è ancora finita!”, continuò alzando la voce.

“I nostri anziani ricorderanno la visita di questo cavaliere, poco più di una luna fa”, disse, prendendosi una pausa per scrutare attentamente tutti quei volti incuriositi. “E infatti questi è il cavaliere Gunderico che per primo c’informò di quel che stava accadendo nel mondo!”, spiegò, additando il robusto generale visigoto agli occhi dei suoi valligiani. “Ma pochi di voi ricorderanno quest’altro cavaliere… che venne a visitarci venti primavere orsono, quando io mi sposai a sua sorella”. La gente puntò di nuovo gli occhi sull’energumeno baffuto che stava ritto alla sua sinistra. Passò qualche attimo di silenzio. Poi, dalle file degli anziani, si gonfiò un applauso. I più vecchi avevano finalmente riconosciuto il duca di Cantabria. Hernando sorrise al cognato e gli passò la parola. “Vi ringrazio, uomini e donne d’Autrigonia, per l’ospitalità e la gioia con cui ci state accogliendo… ma mio cognato ha detto bene”, esordì con un’espressione mesta, mentre gli anziani ancora si congratulavano per averlo riconosciuto, “qui vi debbo annunciare una notizia infausta… Amaya è caduta!”. Il silenzio totale calò fra la gente. Le voci di ciò che accadeva nel mondo raramente penetravano quelle valli. Udire che la capitale della Cantabria era stata vinta dai Saraceni era un colpo duro per la sensibilità di quelle orecchie. Che quella sentenza fosse annunciata dallo stesso duca di quella città era ancora più sconvolgente. Lo sgomentò si diffuse rapidamente e il silenzio fu rotto da un crescendo di sussurri e bisbiglii. “Non perdetevi d’animo!”, riprese il duca. “Anche se i Saraceni sono alle porte, noi ci difenderemo e non li lasceremo passare mai e poi mai! I nostri uomini sono già in opera per difendere le Asturie. I capi delle tribù di Cantabria hanno applaudito alla nostra causa. Sarò io a difendere anche voi, assieme al duca Pelayo e al conte Sancho di San Emeterio. Se unirete i vostri giovani guerrieri alle nostre forze, sarà anche più facile!”, affermò Petro.
La gente ricominciò a mormorare. I giovani di San Petro e San Bartolomeo sembravano eccitati. Quella era per loro l’ora di farsi valere per davvero. Alcuni cominciarono a battere le spade sugli scudi. Altri piantarono le tragule per terra e urlarono: “Viva il nostra duca!”. Petro li guardò contento. Quindi lasciò la parola di nuovo al cognato. “Non vi sarà nessun banchetto questa notte!”, disse questi. “I tempi non sono ancora maturi e non voglio irritare il cielo con feste vane!”. Poi schioccò le dita verso i servi Lucio e Lario. “Fate entrare solo gli anziani. Sarà un pasto frugale con scodelle di olive e lardo di maiale. Le carni che hanno portato vengano distribuite alla gente e, soprattutto alle famiglie dei nostri guerrieri! Ora entriamo poiché ho un altro importante annuncio che voglio dare prima ai nostri decani!”.
Così dicendo, fece segno ai servi di seguirlo e tutti gli invitati entrarono nella rocca, per sedersi attorno al grande focolare della sala principale.

Qui, a capo tavola, Hernando presentò gli anziani, uno ad uno, al duca Petro. Gunderico sedette vicino a loro. Toribio stava al fianco destro del padre. I servi allungarono le scodelle e le anforette di vino. Quindi il giudice si alzò a parlò così: “Voi tutti, cari decani, sapete bene che io ho riverito i nostri Dei per anni. Tuttavia il viaggio che ho fatto nelle ultime settimane mi ha portato ad altri convincimenti!”. I vecchi sembrarono sorpresi a quelle parole. Toribio osservava il padre in silenzio e trepidazione, come se presentisse quello che avrebbe detto. Non sembrava neanche avvertire la stanchezza che gli stava pietrificando le gambe e solo a momenti le palpebre lo tradivano. Anche il padre, lo zio e Gunderico erano provati da tutti quei giorni di fughe e sonni all’addiaccio, ma certo non lo mostravano. “Sapete bene quanto io abbia pregato il nostro Erudino. Sono salito sul suo altare persino all’inizio di questa missione”, enfatizzò il giudice, ritto in piedi, poggiando le mani sul tavolo e guardando tutti ad uno ad uno.

“Bene, sappiate anche che ho incontrato dubbi e sentimenti che mi hanno portato su un’altra strada!”, proruppe con accento crescente. “Io credo che questi Dei non esistano più di quanto esistono le forme degli alberi e le cime delle montagne che immaginiamo di notte, quando i nostri occhi non riescono a vedere nulla senza una buona fiaccola!”.

I vecchi sussultarono a quelle parole. “Io credo che la vera fiaccola della nostra vita sia la fede nel Dio solo, che è il padre di Gesù ed assieme a lui e allo Spirito Santo sono Unus et Trinus!”, sbottò.

Si levò un clamore di bisbigli e mormorii. “Sì avete capito bene, decani di Valle! Oggi, io che sono vostro giudice vi chiedo di accettare la mia conversione alla Chiesa di Roma e di consentirmi di battermi per lei con tanto spirito quanto farei per voi e per la mia stessa famiglia!”, sentenziò il giudice.

I decani erano scioccati. Alcuni alzarono commenti di stupore, altri persino di disapprovazione. Ma uno di loro così parlò: “Di che vi sorprendete, fratelli di Valle? Di un capo che rende onore al cielo dopo aver combattuto valorosamente per noi tutti?”. Era Taeda.



“Hernando ha già mostrato il suo cuore di leone e qui viene a rassicurarci che ci proteggerà fino alla fine! Ha importanza se il nostro Erudino cederà il passo al nuovo Dio?”. Il giudice guardò quel vecchio con gratitudine. “Buon Taeda, come sempre tu ti mostri fedele allo spirito che anima il mio comando. Che tu sia benedetto!”. Alcuni cominciarono ad applaudire, ma poi Caelia interloquì così: “Ma questo nuovo Dio ci porterà fortuna e protezione come ha fatto Erudino per tanti secoli? Ci difenderà dai nemici, dalla peste, dalle carestie, dalle malattie?”. Allora un altro vecchio prese la parola. Era Viama, il più anziano di tutti. Si alzò anche lui e batté il suo bastone sul margine del tavolo. “Ascoltate bene, voi che siete più giovani di me! Io ero vivo ai tempi di Recaredo ed ho visto tante conversioni tra i re goti e i duchi di Cantabria. Tante volte mi sono chiesto se questo nuovo Dio fosse migliore o peggiore di Erudino, o persino di Jupiter o di Marte. Oggi vedo che i suoi miracoli stanno accadendo anche per noi. Taeda sa bene quel che è successo alla Piana dei Fiori Gialli. Glielo ha detto suo nipote Avane quando è giunto a riferirci della comparsa del leone rosso. Che altro pensate che sia se non un segno del nuovo corso del Cielo?”. “È così… dice bene il nostro Viama… “, confermò Taeda, “ quel leone è un miracolo che non si era mai visto, forse nemmeno ai tempi della guerra contro l’Imperatore Ottaviano. Io credo che Hernando abbia visto segni che portano sicuri alla nuova fede. Io lo seguirò!”. Gli altri anziani confabularono ancora tra di loro, poi Caelia riprese la parola: “Io fatico a credere in questo Dio solo, ma farò quel che mi dice di fare il nostro giudice. Se lui lo dice, per me va bene!”. Ci fu ancora del parlottìo. Allora intervenne Petro. Appena prese la parola, calò un silenzio di totale rispetto. Era il duca di Cantabria che parlava. Petro raccontò loro di quel che avevano visto e udito nelle grotte di Val Misteriosa. I volti dei presenti s’accendevano di passione e sgomento man mano che Petro riassumeva le esortazioni dei re goti. Alla fine non c’era rimasto un solo decano che fosse ancora perplesso. “E sia!”, urlò uno di loro. “Se queste sono le profezie, ben venga il nuovo regno della Chiesa di Roma!”. Gli altri applaudirono con fragore. Era fatta. Valle si avviava a divenire cristiana per sempre.
In quel momento s’udì un grido provenire dal corridoio vicino. “È nato, è nato! Ed è un maschio!”, annunciò Decio, irrompendo nella stanza. Petro guardò il cognato e il nipote. Tutti si voltarono verso la porta. Allora entrò Valerio con un fagotto tra le braccia. Ci stava avvolto un bimbo nudo e grassottello, con due grandi occhi azzurri, che cominciò subito a strillare. Petro corse a prenderlo. Lo baciò sulla testa e lo issò davanti a tutti. “Che Dio benedica questo bel giorno! Questo è il segno della grazia che sta per arrivare sulla nostra Hispania dopo tante sventure! Questo bambino, vi dico, sarà un giorno il vostro e nostro futuro!”, proclamò emozionato. Toribio guardò il padre ancora una volta. “E non sorprendetevi se questo evento viene subito dopo la vostra annunciata conversione!”, trovò il coraggio di dirgli. Hernando trattenne a stento alcune lacrime. Era chiaro che quella catena di eventi era voluta da una volontà superiore alla loro. Lassù, nel cielo, qualcuno l’aveva voluto. “Evviva l’Hispania, evviva il nostro futuro re!”, si lasciò scappare senza nemmeno rendersene conto.

I decani si alzarono tutti e sollevarono i loro calici. “Evviva l’Hispania! Evviva il nostro duca e il nostro giudice!”, gridarono in coro.

Poi Petro seguì Valerio per raggiungere Teodosinda che era ancora con nonna Amagoya.

Hernando congedò allora tutti, ma non senza annunciare che sarebbe ripartito il giorno dopo con i guerrieri più giovani per raggiungere Cangas de Onis.

Quella sera Toribio faticò parecchio a prendere sonno. La gente del villaggio aveva improvvisato una festa in onore del nuovo nato e il rumore dei tamburi e delle nacchere giungeva fino alla bifora della sua stanzetta, accompagnato dai riflessi dei falò che erano stati accesi sul piazzale davanti alla rocca. Ma non era solo quello che lo disturbava. La sua mente percorreva ora tutte quelle settimane di avventure e battaglie. La discesa nelle grotte dei morti, la caduta di Amaya, la morte eroica di Flavio e Bartuelo, le torture di Toledo e l’arrivo del leone rosso. E infine lei, Agasinda, il cui volto rivedeva ora, sudato e sorridente come quando stavano facendo all’amore in quella pieve sperduta tra i Monti Sacri. La Pieve degli Angeli dell’Amore, così appunto si chiamava. Glielo aveva detto proprio Fruela. Già, il giovane sbarbatello su cui nessuno avrebbe puntato un soldo. Chissà se era già arrivato a Cangas. E chissà se ci erano arrivati anche Liuva e Teudiselo, i baldi fratelli che lo avevano accompagnato per tante settimane. E chissà se Pelayo era ancora là, a istruire i suoi uomini. Toribio ricordò d’un tratto la Croce del Rubino e le parole di Roderico. “Un lago nascosto”, aveva detto, “un lago nascosto dalle nebbie… “. Di quale posto poteva trattarsi? Quelle montagne erano piene di laghi e laghetti. Ma se tutte le truppe nemiche si stavano dirigendo nelle Asturie, poteva rispuntare solo lassù.

E poi cosa sarebbe successo?

Intanto Petro aveva raggiunto la moglie presso una piccola saletta che si apriva sull’atrio interno della rocca. Qui c’erano due letti e, in mezzo alla stanza, un sedile forato da un’apertura a forma di semi-luna. Teodosinda aveva i capelli sciolti e stava distesa, avvolta da una lunga vestaglia grigia, sul letto che sembrava più soffice. La duchessa era mezzo assopita. Nonna Amagoya aveva ancora le dita unte di olio e stava per lavarsele dentro una grande bacinella di ferro sorretta da un tripode. “Avete visto che il bambino è di peso giusto e in buona salute?”, disse l’anziana donna, prendendo il bimbo dalle mani di Valerio e poggiandolo sull’altro letto.

Petro ringraziò Amagoya e subito si diresse verso la moglie. Teodosinda aprì appena le palpebre e lo salutò con un cenno della mano destra. Il marito le prese quella stessa la mano fra le sue e gliela baciò più volte. La donna sorrise e lo guardò in volto. “A questa luce sembri bello e giovane come quando ti ho sposato!”, disse. “E certo lo sono anche di più se mi hai reso padre di una tale bellezza!”, rispose lui. I due sorrisero assieme. “È dunque Alfonso?”, chiese allora l’ultima duchessa di Cantabria. “Sì, è Alfonso!”, disse Petro. Valerio allora intinse le dita nell’olio che stava nella scodellina vicino al sedile della puerpera e unse la fronte del bambino. “E che il Padre, la Vergine e lo Spirito Santo ti proteggano per sempre!”, recitò. In quel mentre s’udì un boato provenire da fuori. Petro s’avvicinò all’atrio e scrutò i dintorni. Ma non c’era nessuno laggiù. Poi guardò il cielo e vide solo le stelle. “Cos’è stato?”, chiese nonna Amagoya. “L’avete udito anche voi, no?”, domandò il duca. “Certo che l’abbiamo udito, sembrava il ruggito di un leone”, disse Valerio. Petro tacque e guardò il bambino. “Forse è un altro segno di questa grazia infinita!”, concluse e s’inginocchiò per pregare.

CAPITOLO XXVIII


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