Storia del Cristianesimo



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Il Cristianesimo

Il Cristianesimo è la religione che riconosce Gesù Cristo come il Figlio di Dio e il Salvatore del mondo. Fondata sull'insegnamento del suo Maestro, si è originata dalla sua Morte e Risurrezione.

È una religione monoteista a carattere universalistico, ed ha le sue radici nella religione ebraica.

Tra le religioni è la più diffusa, con circa 2,1 miliardi di fedeli.

Le origini

L'opera di Gesù

Gesù apparteneva al popolo ebraico. Verso i trent'anni, dopo aver ricevuto il Battesimo di Giovanni, iniziò con autorità una predicazione pubblica tra i suoi conterranei, portando a tutti l'annuncio decisivo: "Dio vi chiama a convertirvi, a credere in lui e ad entrare nel suo Regno". Il suo ministero si rivolse a tutti, ma fin dall'inizio egli si volle circondare di discepoli e collaboratori particolari: dopo aver pregato il Pare, chiamò a sé quelli che volle, e ne costituì dodici, "perché stessero con lui e per mandarli a predicare" il suo messaggio (cfr. Mc 3,13); diede loro il nome di apostoli (Mc 3,14; Lc 6,13), cioè "inviati" e li inviò a predicare e a realizzare le stesse opere di guarigione che egli realizzava nei villaggi e nelle località della Palestina. All'interno del gruppo apostolico dedicò particolare attenzione a Pietro, al quale affidò la direzione e la custodia di tutti quelli che avrebbero creduto in lui (cfr. Lc 22,32).

A Pietro e ai Dodici diede il comando e il potere di compiere gesti di guarigione e di liberazione dal male (cfr. Mt 10,1.8; Lc 10,9); soprattutto, nell'Ultima Cena, affidò loro nell'Eucaristia la celebrazione del mistero della Salvezza (Mt 26,26-28; Mc 14,22-24; Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-25).

Ai suoi discepoli, nell'imminenza della sua passione, Gesù promise una particolare assistenza dello Spirito Santo, per illuminarli e per farne i suoi testimoni (cfr. Gv 14,15-17; 15,26-27; 16,13-15). Crocifisso, morto e sepolto, dopo la sua risurrezione diede loro il potere di perdonare i peccati (cfr. Gv 20,22-23), e li inviò con il mandato di insegnare quanto da lui appreso e di accogliere nella comunità dei salvati attraverso con il Battesimo quanti avessero creduto in lui (Mt 28,18-20).





Gesù

Gesù di Nazaret (Betlemme , 6 a.C. ca.[1]; † Gerusalemme, 7 aprile 30 ) è il Figlio di Dio fatto uomo, il Cristo (Messia) atteso dalla tradizione ebraica.

Le principali fonti relative a Gesù sono i quattro vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni). Gli ultimi secoli hanno visto lo sviluppo di ricerche secondo moderni metodi di critica storica, volti a valutare sia l'effettiva attendibilità storica dei vangeli, inclusi gli elementi soprannaturali e miracolosi, sia a ricostruire il profilo del Gesù storico. Tale figura è riconosciuta sia da studiosi cristiani che non cristiani[4], mentre altri riconducono la figura di Gesù all'elaborazione di un mito.

I vangeli narrano la nascita di Gesù da Maria vergine, la predicazione focalizzata sull'annuncio del Regno dei Cieli e sull'amore al prossimo, e realizzata con discorsi e parabole accompagnati da miracoli; narrano infine la sua passione, morte in croce, risurrezione e ascensione al cielo.

La fede della Chiesa in Gesù Messia e Figlio di Dio ha la sua fonte principale nei Vangeli. Le neotestamentarie lettere paoline esaltano il valore salvifico della sua morte e risurrezione. La successiva tradizione cristiana ha precisato che egli è la seconda persona della Trinità con il Padre e lo Spirito Santo, "vero Dio e vero uomo".

Dai vangeli appare come la predicazione e l'operato di Gesù riscossero nella società ebraica del tempo un limitato successo, conseguito peraltro principalmente tra i ceti più bassi. Il breve periodo della sua predicazione si concluse con la morte in croce, voluta dalle autorità del Sinedrio, e suggellata dalla decisione finale del prefetto romano Ponzio Pilato. Dopo la sua morte apparve ai suoi discepoli che ne annunciariono la risurrezione e ne diffusero il messaggio; a tutt'oggi è una delle figure che hanno esercitato maggiore influenza sulla cultura occidentale.

Fonti storiche

Non esistono riferimenti archeologici diretti (come epigrafi) riferibili con assoluta certezza alla vita e all'operato di Gesù. Il più antico artefatto archeologico a lui correlabile è la cosiddetta Iscrizione di Nazaret: in questa lapide databile attorno alla metà del I secolo e ritrovata nel 1878 a Nazaret viene punita, da parte dell'autorità romana, la profanazione dei sepolcri e lo spostamento dei cadaveri in essi contenuti. È possibile, ma non sicuro, che questa direttiva fosse collegata all'accusa rivolta ai primi cristiani di aver trafugato il corpo di Gesù sostenendone la risurrezione (Mt 28,11-15).

Le fonti testuali relative a Gesù possono essere raggruppate in quattro tipologie:

le lettere paoline, poi incluse nel Nuovo Testamento: scritte approssimativamente tra il 51 e il 63 da Paolo di Tarso, che non conobbe direttamente Gesù, rappresentano i documenti noti più antichi, ma non contengono dati biografici su Gesù che possano risultare utili per studiarne la figura storica. Sono tuttavia testimonianza di come venisse descritto il personaggio Gesù alle più antiche comunità cristiane;

i quattro vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni). Secondo una parte degli storici tali scritti sono giunti alla forma attuale nella seconda metà del I secolo, dopo essere stati redatti in più versioni e preceduti da una decennale tradizione orale o di appunti scritti, mentre per altri avrebbero raggiunto la loro forma definitiva, sempre a seguito di diverse redazioni, solo intorno alla metà del II secolo. Raccontano dettagliatamente la vita pubblica di Gesù, cioè il periodo della predicazione negli ultimi anni della sua vita, mentre sulla sua vita privata precedente forniscono scarne informazioni. Rappresentano i principali documenti sui quali converge il lavoro ermeneutico degli storici. In epoca moderna si sono sviluppate differenti correnti di pensiero circa l'effettiva attendibilità dei vangeli e la storicità di Gesù;

i vangeli apocrifi. Generalmente non sono accolti dagli studiosi come fidati testimoni del Gesù storico (data la composizione tarda, a partire dalla metà del II secolo, sono al più utili per ricostruire l'ambiente religioso dei secoli successivi a Gesù), anche per il genere letterario favolistico-leggendario che contraddistingue gran parte delle loro narrazioni. La loro testimonianza è variegata:

i cosiddetti vangeli dell'infanzia (quali il Tommaso e il Matteo) presentano un carattere abbondantemente e gratuitamente miracolistico che sfocia spesso nel magico-fiabesco, in netto contrasto con la sobrietà dei quattro vangeli canonici. Gesù appare come un bimbo prodigio, talvolta capriccioso e vendicativo;

i vangeli gnostici (tra i quali il Giacomo, il Filippo e il Tommaso), contenenti prevalentemente rivelazioni private e inedite espresse in raccolte di loghia (detti), dipingono Gesù come una particella di divino intrappolata nella carne, insegnante ad abbandonare la carne e la materialità per raggiungere la salvezza;

i cosiddetti vangeli della passione (ad esempio Pietro, Nicodemo) non aggiungono molto alle descrizioni della passione contenute nei vangeli canonici, caratterizzandosi però con l'intento di discolpare Ponzio Pilato e far ricadere la colpa della morte di Gesù sulle autorità religiose e sul popolo ebreo;

fonti storiche non cristiane su Gesù. In alcune opere di autori antichi non cristiani si trovano alcuni sporadici accenni a Gesù o ai suoi seguaci, il più antico dei quali è il cosiddetto Testimonium Flavianum. Alcuni storici considerano tali riferimenti come interpolazioni tardive di copisti cristiani.

Nome ed epiteti di Gesù

Nei libri del Nuovo Testamento, pervenutici in un greco caratterizzato da numerosi semitismi, Gesù è indicato oltre che col nome proprio da vari epiteti e titoli. Molti degli appellativi derivano dall'Antico Testamento, e sono applicati dagli autori del Nuovo Testamento a Gesù con la consapevolezza che fosse il Messia atteso dal popolo ebraico.

Gli appellativi sono qui elencati secondo il numero di ricorrenze.

Nei libri del Nuovo Testamento, scritti in greco, Gesù è indicato, oltre che col nome proprio, con vari epiteti e titoli (l'elenco è in ordine decrescente di frequenza):



  • "Gesù". Il nome proprio significa letteralmente «YH(WH) [è] salvezza». Era un nome piuttosto comune tra i giudei dell'epoca.

  • "Cristo". Significa letteralmente "unto" e corrisponde all'ebraico "Messia". All'epoca di Gesù, il Cristo-Messia era l'inviato di Dio atteso dal popolo ebraico, dal quale ci si aspettava in particolare il riscatto sociale e politico dalla dominazione romana.

  • "Signore". Usato soprattutto negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere. Il titolo onorifico, nel greco classico privo di valore religioso, è particolarmente significativo applicato a Gesù, in quanto è il termine col quale la traduzione greca della Settanta rende il prototermine masoretico ebraico יהוה ("YHWH"), cioè il nome proprio di Dio.

Il simbolo del pesce, ricorrente nella iconografia cristiana antica. Il termine "pesce" in greco χθύς (ichthýs) è l'acronimo di ησος Χριστός Θεο ιός Σωτήρ (Iēsoùs Christòs Theoù Yiòs Sōtèr), "Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore".

  • "Figlio dell'uomo". Nella tarda tradizione ebraica l'espressione aveva una forte connotazione messianico-escatologica.

  • "Figlio di Dio". Nell'Antico Testamento l'espressione indica una relazione stretta e indissolubile tra Dio e un uomo o una comunità umana. Nel Nuovo Testamento il titolo si riveste di un nuovo significato, indicando una filiazione vera e propria.

  • "Re". L'attributo della regalità era correlato al Messia, che era considerato discendente ed erede del Re Davide. Gesù, pur identificandosi come Messia, non si è però attribuito le prerogative politiche che questo comportava.

Altri titoli sono Messia, Rabbi-Maestro, Profeta, Sacerdote, Nazoreo, Nazareno, Dio, Verbo, Figlio di Giuseppe, Emmanuele.

Inoltre, soprattutto da Giovanni, vengono applicate a Gesù espressioni allegoriche come: agnello, agnello di Dio, agnello immolato; luce, luce del mondo; pastore, Buon Pastore, pastore grande; pane della vita, pane vivo, pane di Dio; vita, autore della vita; vite; ultimo Adamo; porta; via; verità.

Gesù

Nei libri del Nuovo Testamento il nome usato maggiormente è Ἰησοῦς (Iēsoûs, IPA: /iˈeˈsuːs/, 917 volte), che attraverso la mediazione del Iesus adottato dalla Vulgata latina ha originato l'italiano "Gesù".



Il nome greco è la traslitterazione dell'aramaico (lingua correntemente parlata da Gesù e dai giudei palestinesi suoi contemporanei) יֵשׁוּעַ (Yēšūa' ), che è pertanto il 'vero nome' di Gesù.

La forma aramaica deriva a sua volta dall'ebraico יְהוֹשֻׁעַ (Yĕhošūa' ), che significa letteralmente "YH(WH) (è) salvezza" (cf. Mt 1,21).

La Vulgata e le versioni moderne della Bibbia applicato il nome "Gesù" al solo Gesù di Nazaret, lasciando supporre che questi avesse un nome, per così dire, unico e speciale. In realtà il nome era comune: Giosuè, successore di Mosè nella guida del popolo ebraico e protagonista dell'omonimo libro, aveva lo stesso nome di Gesù (יְהוֹשֻׁעַ nel testo masoretico ebraico, Ἰησοῦς nella traduzione greca dell'Antico Testamento della Settanta), come anche altri personaggi dell'Antico Testamento (un sommo sacerdote, cf. Zc 3,1; 3,8-10;Esd 3,2-9; 6,14-17; un certo Giosuè di Bet-Semes, cf. 1Sam 6,14.18; un governatore di Gerusalemme, cf. 2Re 23,8).

Il Lexicon della Ilan (2002) censisce, tra i Giudei vissuti tra il 330 a.C e il 200 d.C., 103 Gesù-Giosuè, che lo rendono il 6° nome per diffusione (dopo Simone, Giuseppe, Lazzaro, Giuda e Giovanni).

Cristo

"Cristo" (Xριστός, Christòs) compare nel Nuovo Testamento complessivamente 529 volte[1] (p.es. Mt 1,1), spesso unito al nome proprio Gesù (Gesù Cristo). Il sostantivo, o meglio aggettivo sostantivato, deriva dal verbo χρίω, "ungere", e significa dunque letteralmente "unto". Ha lo stesso significato del termine ebraico מָשִׁיחַ (mašíaḥ, "unto"), dal quale deriva l'italiano messia.



Il significato di questo titolo onorifico, che nella sua traduzione letterale (unto) può sembrare curioso, deriva dal fatto che nell'antico Israele re, sacerdoti e profeti (p.es. 1Sam 16,13; Es 29,7; Is 61,1) venivano solitamente scelti e consacrati tramite un'unzione, o meglio profumati con unguenti aromatici (nell'antichità i profumi erano a base di olio, mentre attualmente sono a base di alcool). La traduzione formale (cioè a senso) del termine è dunque "eletto", "scelto", "consacrato".

All'epoca di Gesù il Cristo-Messia era l'inviato di Dio atteso dal popolo ebraico, dal quale ci si aspettava in particolare il riscatto sociale e politico dalla dominazione romana.

Messia

La parola Messia è un termine di derivazione ebraica (משיח, mashiach) che significa "unto" e corrisponde al greco "Cristos".



Nell'Antico Testamento l'unzione veniva conferita a persone che dovevano rivestire ruoli particolari come il re, il profeta, il sacerdote; in particolare, con l'unzione di Saul questo gesto veniva ad indicare la consacrazione di un re. Con l'esilio babilonese (587 - 538 a.C.) venne ad instaurarsi la speranza in Israele di un Messia Re che Dio avrebbe mandato definitivamente negli ultimi tempi a risollevare le sorti di Israele, Messia che il cristianesimo identifica con Cristo, della stirpe di Davide, secondo le antiche promesse.

Gesù, di fatto, si qualifica Messia, ma non già secondo le aspettative della sua contemporaneità, nella quale particolari tendenze nazionalistiche mettevano in risalto la necessità di un Messia politico in grado di liberare Israele dal dominio dell'impero Romano (una di queste classi era formata dagli Zeloti), piuttosto le attese messianiche si compiono in lui attraverso la Passione e la morte di croce che sono tappe necessarie alla resurrezione per la salvezza dell'uomo.

Un messianismo insomma di sottomissione e di abbassamento che culminerà tuttavia con l'innalzamento di cui al Salmo 109[108].

Signore


"Signore" (Κύριος, Kìrios) è applicato a Gesù 125 volte, soprattutto in Atti e nelle Lettere (vedi per esempio in Giovanni 13,13-14; Atti 15,26). Altre 2 volte il termine appare nella traslitterazione dell'originario aramaico "mara" (1Cor 16,22; Ap 22,20). Spesso è unito all'aggettivo "nostro", che ha generato l'espressione cristiana stereotipata "nostro Signore Gesù Cristo".

Il titolo onorifico, nel greco classico privo di valore religioso, è particolarmente significativo applicato a Gesù in quanto è il termine col quale la traduzione greca della Settanta rende il prototermine masoretico ebraico יהוה (YHWH), cioè il nome proprio di Dio.

Secondo alcuni studiosi tuttavia il termine sarebbe un comune titolo onorifico, senza una precisa connessione con la divinità. In particolare, Geza Vermes ha sostenuto che "Signore" fosse un titolo di rispetto per un maestro, in quanto in molti passi neotestamentari è possibile sostituire a "Signore" il titolo "maestro", senza cambiare il significato della frase.[senza fonte] Anche secondo Paul J. Achtemier il titolo, applicato a Gesù, non richiama la sua divinità ma la sua messianicità[senza fonte] (vedi Sal 110[109],1; At 2,34).

Figlio dell'uomo

Un titolo che Gesù applica spesso riferendosi a se stesso è Figlio dell'uomo (υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου, uiòs tù anthròpu), dove "uomo" indica l'essere umano, non il maschio (il greco usa anèr). Ricorre 84 volte.

L'espressione nella sua traduzione letterale può sembrare curiosa e ridondante: ogni essere umano è figlio di un essere umano. Tuttavia nella tarda tradizione ebraica (vedi l'espressione aramaica בר נשא, bar nasha), nella quale si inserisce il Nuovo Testamento, l'espressione aveva una forte connotazione messianico-escatologica (cfr. Dn 7,13-14).



Antico Testamento

Nell'Antico Testamento il libro in cui questa espressione ricorre più volte è quello di Ezechiele, dove più di 90 volte Dio si rivolge al profeta chiamandolo figlio dell'uomo.

Nell'ebraico dell'Antico Testamento questa locuzione presenta più di una sfumatura semantica:


  • in Ez 2,1 indica un singolo individuo del genere umano; la maggioranza delle traduzioni bibliche rende questa occorrenza semplicemente con "uomo";

  • altrove (Sal 8,5; 146[145],3; Ger 49,18; 49,33) indica l'umanità nel suo complesso (comprendendo indirettamente anche la persona che parla);

  • in Sal 144[143],3 (ben-ʿenòhsh) ha il significato di "figlio dell'uomo mortale";

È particolarmente significativo l'espressione figlio di uomo che compare in Dn 7,13:

« Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. »

Il figlio di uomo che qui compare è stata inteso, già dalla tradizione antica della Chiesa primitiva, come il trait-d'union tra l'Antico ed il Nuovo Testamento, come l'adempiersi preciso e puntuale della profezia.

Questa opinione resta a tutt'oggi condivisa dalla maggior parte del mondo cristiano e degli studiosi, anche se non sono mancanti pareri discordanti sia in materia di critica testuale, sia in materia esegetica, sia in ambito teologico, soprattutto riguardo all'attinenza della figura con al persona di Gesù.

Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento l'appellativo "Figlio dell'uomo" si riferisce sempre a Gesù, ed è uno dei titoli con il quale egli stesso molte volte preferisce autodesignarsi.

Nei Vangeli ricorre circa 80 volte, e sempre in bocca a Gesù; al di fuori di essi ricorre in At 7,56, in Eb 2,6 e in Ap 1,13; 14,14.

La locuzione pone l'attenzione sul fatto che Gesù è uomo.

In altri termini, questa espressione vuole puntualizzare lo stretto legame di parentela esistente fra Gesù e il genere umano, oltreché ovviamente essere tesa ad esaltare la sua funzione salvifica (in riferimento a Dn 7,13).

Viene considerata come un modo discreto al quale Gesù ricorreva per rivendicare la sua messianicità senza indurre false aspettative (di tipo politico) tra i suoi ascoltatori.

Di fatto Gesù utilizza l'espressione in un contesti diversi:


  • in relazione all'idea del trionfo escatologico (Mc 8,38);

  • in relazione all'ineluttabilità delle sue sofferenze (Mc 8,31);

  • in relazione alle sue pretese messianiche (Mc 2,27-28).

Risulta comunque che anche l'uso di questa espressione rimane enigmatico a molti degli ascoltatori (Gv 12,34).

Rabbi, Rabbuni, Maestro

"Rabbì" (Ραββί, 12 volte);

"Rabbuni" (Ραββουνί, 2 volte); "Maestro" (διδάσκαλος, didàskalos, 42 volte, oppure Ἐπιστάτης, Epistàtes, 7 volte).

Il titolo onorifico ebraico Rabbi (conservato ad esempio nell'italiano Rabbino) e il suo sinonimo indicante confidenza Rabbuni indicavano un esperto della Sacra Scrittura. La radice ebraica רַב (rab, letteralmente molto, grande) lo rende affine al termine maestro (dal latino magister, letteralmente più grande).

In Matteo 23,8-10 Gesù afferma di essere l'unico Rabbì-Maestro.

Rabbino

Il Rabbino è il capo spirituale di una Comunità ebraica, considerato anche Dottore della Legge.



Storia

Il titolo di rabbino venne da principio dato ai Dottori della Legge e ai capi delle scuole ebraiche. Al tempo di Gesù Rabbì era appellativo rispettoso impiegato verso i Maestri della Legge, i rabbini appunto. Nel Nuovo Testamento il termine ricorre solo nei Vangeli. Ad eccezione che in Giovanni 3,26 in cui si parla di Giovanni Battista, è riferito solo a Gesù.

Il Maestro della Legge veniva riconosciuto con una funzione di investitura mediante l'imposizione delle mani. La sua autorità non era solo religiosa ma comprendeva anche l'amministrazione pubblica della giustizia. Era esperto della Legge di Mosè e della sua applicazione ai vari campi della vita. Per questo godeva di una certa autorità tra il popolo.

Alcune episodi dei Vangeli, come in Luca 10,25 o Matteo 22,35, presentano i dottori della Legge che interrogano Gesù o ne sono interrogati, secondo lo stile delle discussioni rabbiniche.

Oggi il rabbino è il capo spirituale di una comunità ebraica; presiede le funzioni religiose, predica, benedice le nozze, celebra i funerali, cura l'istruzione religiosa della comunità della quale è anche consigliere morale.

In Italia, a Torino vi è una scuola di formazione al rabbinato. Per esservi ammessi occorre avere almeno 35 anni e tre figli.

Particolarmente importante è il Gran Rabbinato di Gerusalemme, un consiglio di rabbini che è in contatto con le diverse Comunità ebraiche presenti nel mondo.

Ogni Comunità si sceglie il proprio rabbino in seguito a concorso per bando. I rabbini sono collegati tra loro nell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI)senza un vero rapporto gerarchico.

Figlio di Dio

Gesù è detto "Figlio di Dio" (υἱὸς τοῦ θεοῦ, uiòs tù theù, oppure θεοῦ υἱὸς, theù uiòs) o "dell'Altissimo" (ὕψίστου, hipsìstu), per un totale di 52 volte,

come ad esempio in Mc 15,39.

L'espressione Figlio di Dio designa principalmente la seconda persona della Santissima Trinità, generata dal Padre prima della creazione del mondo. Nella pienezza del tempo (Gal 4,4) il Figlio di Dio si è fatto uomo (Gv 1,14) per opera dello Spirito Santo (Lc 1,35) nel seno di Maria; da lei è nato Gesù, vero Dio e vero uomo, salvatore dell'umanità.

Nell'Antico Testamento l'espressione indica una relazione stretta e indissolubile tra Dio e un uomo o una comunità umana. Nel Nuovo Testamento il titolo si riveste di un nuovo significato, indicando una filiazione vera e propria (v. Lc 1,26-38).

L'espressione affonda le sue radici nell'Antico Testamento, dove è usata per indicare:



  • il re (Sal 2,7);

  • il popolo d'Israele, quello prediletto da Dio (Sap 18,13);

Vangeli

Nei Vangeli l'espressione assume via via un significato più specifico per indicare il Messia inviato da Dio per portare a termine l'opera di salvezza del popolo.

Il vangelo secondo Marco in particolare è orientato alla "dimostrazione" che Gesù è il Figlio di Dio. Vari sono i passi in cui appare l'espressione, tra cui:


  • 1,1: "Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio".

  • 3,11: "Gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli si gettavano ai piedi gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!»".

  • 5,7: "e urlando a gran voce disse: «Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!»"

  • 14,61: "Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?»"

  • 15,39: "Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!»".

Soprattutto quest'ultima professione di fede, in bocca al centurione romano (pagano) è un evidente indizio dell'intenzione dell'evangelista.

Altri riferimenti a Gesù come Figlio di Dio:



  • Mt 4,3-6; 8,29; 14,33; 27,40-43;

  • Mc 1,1; 3,11; 5,7; 14,61; 15,39;

  • Lc 1,32; 3,38; 4,3-9; 4,41; 8,28; 22,70;

  • Gv 1,34; 1,49; 3,17-18; 3,36; 5,25; 10,36; 11,4; 11,27; 19,7; 20,31;

  • At 9,20;

  • Rm 1,4.9;

  • 2Cor 1,19;

  • Gal 2,20;

  • Ef 4,13;

  • Eb 4,14; 6,6; 7,3; 10,29;

  • 1Gv 3,8; 4,9-10; 4,15; 5,5; 5,9-13; 5,20;

  • 2Gv 3

Re

Gesù viene detto Re (βασιλεύς, basilèus), Re dei Giudei (βασιλεύς τῶν Ἰουδαίων, basilèus ton Iudàion), Re d'Israele (βασιλεύς Ἰσραήλ, basilèus Israèl), Re dei re (βασιλεύς βασιλέων, basilèus basilèon) per un totale di 35 volte, soprattutto nei racconti della passione),[11] e Figlio di Davide (υἱός Δαυὶδ, uiòs Davìd) altre 12 volte.

L'attributo della regalità era correlato al Messia atteso dagli Ebrei, che era considerato discendente ed erede del Re Davide. Gesù, pur identificandosi come Messia, non si è però attribuito le prerogative politiche che questo comportava (Gv 6,15; 18,36).

Oltre a questi passi espliciti sia (Mt 1,1-16)e sia (Lc 3,23-38) riportano una genealogia dettagliata che, sebbene risulti discordante (vedi Genealogia di Gesù), ha l'intento di attribuire a Gesù una discenza davidica e dunque regale e messianica.

Genealogia di Gesù

La genealogia di Gesù è riportata in Matteo 1,1-16 e in Luca 3,23-38.





Caratteristiche generali

Le due redazioni non coincidono e in più occorre considerare che da Davide a Giuseppe la discendenza è completamente diversa nei due Vangeli.

Questa discordanza si spiega con il fatto che le narrazioni non furono armonizzate dalla comunità cristiana primitiva, ma furono trasmesse come erano state ricevute, mantenendo anche la loro diversità.

La genealogia di Matteo è discendente: da Abramo a Gesù. La genealogia di Luca invece è ascendente: da Gesù ad Adamo e da questi a Dio in persona.

Matteo inserisce la genealogia all'inizio del Vangelo. Luca solo dopo il Battesimo di Gesù nel fiume Giordano. La genealogia di Matteo è maschile e femminile perché vi sono citate anche alcune donne come madri; quella di Luca è tutta maschile.

È un fatto fuori dall'ordinario che proprio Matteo, che appartiene alla cultura giudaica e rivolge il proprio Vangelo agli Ebrei, inserisca delle donne nella genealogia. Infatti le donne, nell'antico mondo ebraico, quasi non godevano di alcun diritto a tal punto che non erano neppure considerate degne di testimoniare in tribunale.

Le donne citate, fatta eccezione di Maria, hanno anche un passato di peccato:


  • Tamar, nuora di Giuda, rimasta vedova di due dei suoi figli, per avere una discendenza si finse una prostituta ed ebbe rapporti incestuosi con lui.

  • Raab, era una prostituta che esercitava la sua professione a Gerico, e che tradì la sua città.

  • Rut, una pagana moabita, chiese a Booz di sposarla secondo la prescrizione del levirato.

  • Betsabea, moglie di Uria l'Hittita divenne l'amante di Davide.

Entrambi gli evangelisti insistono sulla non paternità biologica di Giuseppe, mentre Matteo riconosce quella di Maria (cfr.Mt 1,16 e Lc 3,23)

Entrambe le genealogie hanno lo scopo di inquadrare la figura di Gesù nella storia del popolo ebraico, mostrandone la discendenza regale davidica.

La genealogia matteana è più simbolica e meno dettagliata. Riferisce infatti, solo i passaggi genealogici che gli interessano, per ottenere la numerazione cabalistica 14+14+14. Secondo lui tale numerazione scandisce i tre periodi della storia ebraica:

1) Da Abramo a Davide

2) Da Davide alla deportazione babilonese

3) Dalla deportazione a Gesù Cristo

La tripla successione delle quattordici generazioni può avere più significati. Può indicare sei volte sette, che è il numero della pienezza. Oppure, più probabilmente, mette in relazione il numero sacro tre, legato a Dio, al numero quattordici, che è la gematria del nome David.

David, in ebraico, si scrive con tre lettere, alle quali sono associati tre numeri: D = dalet (4) + V = wav (6) + D = dalet (4) La somma dei tre numeri 4 + 6 + 4 è infatti 14.

Luca è più dettagliato. Il suo Vangelo si rivolge ai pagani e vuole dimostrare che Gesù viene per l'intera umanità. Egli è veramente il Messia annunciato dai Profeti dell'Antico Testamento.



Modelli precedenti

Le genealogie di Matteo e di Luca differiscono, in buona parte, dalle genealogie bibliche scritte in precedenza. Il primo libro delle Cronache riporta i nomi di altre cinque generazioni della Casa di Davide, dopo Zorobabele (1Cr 3,19-24). Nessuno dei nomi dei discendenti di Zorobabele riportati in 1Cr corrisponde ai discendenti di Zorobabele riportati da Matteo e Luca. Nemmeno i nomi dei figli di Zorobabele coincidono: 1Cr riporta Mesullàm, Anania e Selomit, Matteo invece cita Abiud e Luca Resa. Sia Matteo sia Luca indicano Zorobabele come figlio di Salatiel, mentre da 1Cr 3,19, Zorobabele risulta figlio di Pedaià, fratello di Salatiel.

Cristo Re

Cristo Re è uno degli appellativi di Gesù Cristo largamente attestato nel Nuovo Testamento, ed in uso in tutte le confessioni cristiane.

I cattolici, gli anglicani, i presbiteriani e alcuni luterani e metodisti celebrano una festività in suo onore, la Solennità di Cristo Re.

Nel Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento Gesù riceve titoli regali:


  • Re (βασιλεύς, basilèus) Mt 21,5; 25,34.40; Lc 19,38; Gv 6,15; 18,37; At 1,5; 15,3; 17,7.

  • Re dei Giudei (βασιλεύς τν ουδαίων, basilèus ton Iudàion): Mt 2,2; 27,11; 27,29.37; Mc 15,2; 15,2.9.12.18.26; Lc 23,3.37.38; Gv 18,33.39; 19,3.14.15.19.21.

  • Re d'Israele (βασιλεύς σραήλ, basilèus Israèl): Mt 27,42; Mc 15,32; Gv 1,49; 12,13.15.

  • Re dei re (βασιλεύς βασιλέων, basilèus basilèon): Ap 17,14.16; 19,16) per un totale di 35 volte, soprattutto nei racconti della passione.

Ha una portata regale anche il titolo di Figlio di Davide (υἱός Δαυὶδ, uiòs Davìd, Mt 1,1; 9,27; 12,23; 15,22; 20,30.31; 21,9.15; Mc 10,47.48; Lc 18,38.39), poiché il Messia atteso doveva essere discendente ed erede del Re Davide. Le due genealogie di Gesù (Mt 1,1-16; Lc 3,23-38) stabiliscono la provenienza di Gesù dal Re Davide. L'accostamento esplicito dei due termini Messia (Cristo) e Re si trova in Lc 23,2 e in Mc 15,32

L'istituzione della Solennità di Cristo Re

La dottrina cattolica sulla regalità di Cristo è ben espressa nell'enciclica Quas primas di papa Pio XI (11 dicembre 1925) con la quale il papa istituì la Solennità di Cristo Re.

L'enciclica spiega che il regno di Cristo è principalmente spirituale, e Gesù stesso l'ha detto più volte, in particolare davanti a Pilato (Gv 18,36); tuttavia Cristo ha ricevuto dal Padre il dominio su tutte le cose:

« D'altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall'esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. »

Ricordando poi quanto egli stesso aveva scritto in una sua precedente enciclica, continua:

« Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: "Allontanato, infatti - così lamentavamo - Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l'autorità appare senz'altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v'è ragione per cui uno debba comandare e l'altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali"»

Infine conclude:



« È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell'uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d'ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell'Apostolo Paolo, come "armi di giustizia" (Rm 6,13) offerte a Dio, devono servire all'interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione. »

Altri usi

L'appellativo "Cristo Re" si ritrova anche in alcuni episodi di storia contemporanea.


  • Gli insorti vandeani che combatterono le Guerre di Vandea (1793-1815), avevano come motto Dieu le Roi, "Dio [è] il Re".



  • I Cristeros messicani che insorsero contro il governo anticattolico e anticlericale di Plutarco Elías Calles dando origine all Guerra Cristera (1926-1929) avevano come grido di battaglia: ¡Viva Cristo Rey!, "Viva Cristo Re!".



  • Lo stesso motto dei Cisteros adottarono i cattolici che combatterono la Guerra civile spagnola (1936-1939).

Vi furono altri movimenti che, pur senza alcun legame con Chiesa cattolica né approvazione della stessa, usarono il titolo di Cristo Re:

  • Il Rexismo, un movimento di ispirazione nazionalsocialista che nacque in Belgio nel 1935; il nome ufficiale era Christus Rex.

  • I Guerriglieri di Cristo Re, una formazione paramilitare che compì azioni terroristiche nella Spagna degli anni '70, con lo scopo di bloccare la transizione verso la democrazia.

Profeta

"Profeta" (προφήτης, profètes) è applicato a Gesù 15 volte.

Il titolo nell'Antico Testamento, sul quale si innesta il Nuovo Testamento, indica una persona chiamata da Dio per parlare a suo nome di fronte al popolo, talvolta prevedendo eventi futuri.

Il termine profeta indica nella Bibbia una persona che parla in nome di Dio.

Il termine deriva dal verbo greco pro-phemi, "parlare al posto di", "parlare in favore di". Il termine ebraico è invece nabi, affine alla parola accadica nabù, ed in questa lingua ha un significato più vasto perché include il fatto di "essere chiamato" e "inviato".

Il profeta, dunque, non è un indovino, uno che predice il futuro, come l'uso comune del termine potrebbe portarci a credere. Se "prevede" il futuro è perché, inserito nella sua cultura, attraverso la sua esperienza e storia personale e partendo da tutto ciò che gli ha suggerito il passato, osserva il presente prevedendone le conseguenze.

Il profeta è il confidente ed il messaggero di Dio e, negli avvenimenti, si preoccupa di mettere in evidenza la presenza di Dio nella storia e, soprattutto, la Sua volontà riguardo alle circostanze politiche e sociali che si trova a vivere e con le opportunità che la vita gli offre.

L'atteggiamento del profeta è duplice:



  • denuncia i mali della società, le strutture di peccato che ostacolano un sano sviluppo della persona e della comunità;



  • annuncia un'alternativa, una volontà diversa da parte di Dio, per il bene di tutti.

Il profetismo è un fenomeno comune alle tre grandi religioni monoteistiche: quella cristiana, quella ebraica e quella musulmana. Tutte e tre queste religioni, infatti, credono che Dio si sia fatto presente in mezzo agli uomini attraverso degli intermediari: i profeti.

Nella Bibbia troviamo diversi libri profetici, che sono suddivisi tra profeti anteriori (che non lasciarono nulla di scritto) e profeti posteriori o "scrittori". I profeti posteriori, a loro volta, si dividono in maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele) e minori (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia).

Sacerdote

Gesù è detto "Sommo Sacerdote" (ἀρχιερεὺς, archierèus) o Sacerdote (ἱερεὺς, hierèus) 17 volte, solo nella Lettera agli Ebrei).

Il titolo nell'Antico Testamento, sul quale si innesta il Nuovo Testamento, indica l'uomo sacro abilitato per nascita a svolgere i riti religiosi dedicati a Dio, essendo così un intermediatore tra Dio e il popolo.

Il termine sacerdote, la cui etimologia rimanda al mondo del sacro, è usato principalmente nella dottrina cattolica per indicare il ministero ecclesiale dei presbiteri e dei vescovi.

In un'accezione meno comune oggi, anche se principale nei testi biblici, indica la condizione dei fedeli laici, che per il Battesimo esercitano il sacerdozio battesimale o "sacerdozio comune dei fedeli".

In senso cronologicamente anteriore, il termine indica i Sacerdoti dell'Antico Testamento.

Questa voce tratta soltanto dell'accezione principale del termine.

Nel Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento il sacerdozio ereditario è abolito, in quanto Gesù Cristo è il sommo ed eterno sacerdote "secondo l'ordine di Melchisedec" (cfr. Eb 5,6; 7-8; 10,21). Nei Vangeli la parola sacerdote è usata unicamente in riferimento ai sacerdoti del popolo ebraico. I "collaboratori" che Cristo si è scelto sono chiamati apostoli ("inviati") o discepoli.

Gli Atti degli apostoli e le lettere di San Paolo si riferiscono ai ministeri della chiesa con le parole "episcopato" che ha una valenza di controllo e vigilanza, "presbiterato" ovvero l'anziano della comunità, "diaconia" per il servizio pratico.

La Lettera agli Ebrei spiega chiaramente che non vi è più bisogno di sacerdoti come nell'Antico Testamento, perché esiste un unico grande sommo sacerdote nella persona di Gesù Cristo, che si è offerto al Padre una volta per tutte per togliere i peccati degli uomini.

In altre parole, tutti i credenti sono un sacerdozio regale (1Pt 2,5, Ap 20,6; cfr. 19,6). Il Nuovo Testamento usa "sacerdote" e "sacerdozio" in riferimento a tutti i battezzati. Ciò perché essi, in forza dell'unione con Cristo, possono accedere direttamente a Dio e offrire il sacrificio della lode, della preghiera e delle loro opere.

Nel Cristianesimo posteriore

La prospettiva del Nuovo Testamento si mantiene nei padri apostolici e nei padri della chiesa dei primi secoli. È evidente la necessità di affermare la specificità sia nei confronti del sacerdozio ebraico, sia nei confronti dei sacerdoti pagani.

Verso il IV secolo, quando ormai non esisteva più la problematica del confronto né con gli ebrei né con i pagani, nella religione cristiana si tornò ad usare "sacerdote" per indicare il ministero ecclesiale, riscoprendo così il ricco substrato dottrinale del ministero dell'Antico Testamento.

Concretamente, ciò ha comportato anche una "sacralizzazione" del ministero, nel quale si è via via enfatizzato sempre di più l'aspetto liturgico (sacramenti), a detrimento di quelli di guida e di insegnamento.

Il cattolicesimo, quindi, ed altre confessioni cristiane, affermano l'esistenza di un sacerdozio "ministeriale" distinto da quello di tutti i credenti: "sacerdote" è anzitutto il vescovo, e, subordinatamente a lui, anche il presbitero, in conseguenza dell'ordine sacro che hanno ricevuto.

Nella sistemazione dottrinale tridentina, l'ordine sacro è il sacramento che attribuisce in modo permanente a una persona il ministero ecclesiastico del presbiterato; a Trento rimase controversa la definizione della sacramentalità dell'episcopato.

A seguito del Concilio Vaticano II si è riscoperto la ricchezza dell'insegnamento della Chiesa antica, e si parla oggi di due sacerdozi: il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale. Il primo corrisponde all'uso della parola "sacerdote" nel nuovo testamento e nei primi secoli.

Il ritorno alla prospettiva originaria ha comportato nel Cattolicesimo anche un cambiamento nella concezione del ministero ecclesiastico, che oggi ha nuovamente la ricchezza che aveva nei primi secoli: ministero della parola, ministero della guida pastorale, ministero della presidenza della liturgia. Come tutti i ministeri della Chiesa cattolica, il sacerdozio non è ereditario, ma è conseguenza di una "chiamata" individuale rivolta alla singola persona.

Ancora oggi il protestantesimo attribuisce la funzione del sacerdote al solo Cristo, il cui ministero sacerdotale non è condiviso da alcun altro, nemmeno in senso derivato. I pastori protestanti non sono considerati sacerdoti.

Ordine Sacro

L'ordine sacro è il Sacramento con il quale vengono consacrati coloro che svolgono nella Chiesa i ministeri ordinati di diacono, presbitero e vescovo.

Esposizione dottrinale

Nella Chiesa latina si parla per la prima volta di due ordini nella lettera di papa Cornelio (251-253) a Fabio vescovo di Antiochia, indicando gli ordini allora in uso nella Chiesa di Roma.

Prima del Concilio Vaticano II, nella Chiesa latina e orientale i diversi gradi dell'ordine erano suddivisi in due categorie: ordini maggiori (episcopato, presbiterato, diaconato e suddiaconato) e ordini minori (accolitato, esorcistato, lettorato, ostiariato), e questi ultimi non erano sacramenti. Nella Chiesa latina chi riceveva gli ordini, a partire da quelli minori, veniva tonsurato e diventava chierico.

Dopo il Concilio Vaticano II gli ordini minori sono stati ridotti di numero e non vengono più chiamati ordini, ma ministeri: sono quelli dell'accolito e del lettore.

Per quanto riguarda gli ordini maggiori, la teologia cattolica non parla più di ordini (al plurale), ma di tre gradi dell'unico sacramento dell'Ordine:


  • Episcopato: i vescovi sono i successori degli apostoli. Esercitano il triplice ministero dell'insegnamento (munus propheticum o munus docendi), del governo pastorale (munus regalis o munus regendi), della santificazione (munus sacerdotalis o munus liturgicum). In età apostolica le loro funzioni erano probabilmente indistinte rispetto quelle dei presbiteri. Dal II secolo[1] sono normalmente i pastori delle Chiese locali.



  • Presbiterato: presbiteri o preti sono i collaboratori dei vescovi, con i quali condividono la predicazione della Parola di Dio, la presidenza dell'Eucaristia e delle altre celebrazioni sacramentali, esclusa, normalmente, la confermazione e il conferimento dell'Ordine sacro. Sono quindi sacerdoti come i vescovi. Possono esercitare il ministero nella guida di una parrocchia (in tal caso si dicono parroci), o in qualunque altro ministero che gli affidi il vescovo proprio, a cui devono obbedienza.



  • Diaconato: i diaconi. Sono collaboratori dei vescovi nella modalità del servizio. Predicano la Parola di Dio, amministrano il battesimo, assistono alla celebrazione del Matrimonio, coordinano il ministero della carità nella chiesa.

L'origine del termine "ordine" è legato al fatto che in epoca romana si designava con esso un "corpo sociale", un gruppo di persone con funzioni pubbliche. Tale termine passò poi nella terminologia ecclesiastica per indicare un "collegio" o comunque un gruppo di persone incaricate di un ministero pastorale e/o di una funzione cultuale.

La teologia cattolica afferma che l'ordine, allo stesso modo del Battesimo e della Confermazione, conferisce un Carattere: l'Ordine Sacro è una trasformazione ontologica della persona che lo riceve, che riceve una nuova configurazione a Cristo pastore della Chiesa. Permane (sebbene le funzioni non possano essere lecitamente attuate), anche in seguito a una condanna alla pena della sospensione a divinis, alla dimissione dallo stato clericale oppure alla decisione di abbandono del ministero.

Chi può essere ordinato

Gli ordini sacri possono essere conferiti validamente solamente a uomini.

Nella Chiesa antica era diffuso l'"ordine delle diaconesse" (di sesso femminile), ma non si trattava di un'ordinazione sacramentale bensì di un semplice ministero istituito.

Il celibato è richiesto nella Chiesa latina per i presbiteri e i vescovi, mentre in quella greca (anche cattolica) solo per i vescovi, che di solito vengono scelti fra i monaci (celibi).

Per quanto riguarda i diaconi, la Chiesa cattolica latina li ordina (a partire dal Concilio Vaticano II) anche tra i maschi sposati, ma richiede che dopo l'ordinazione non si sposino (se sono celibi) o risposino (se sono sposati e rimangono vedovi).

Come si viene ordinati

Tutte le ordinazioni vengono celebrate ordinariamente nel corso della Messa. Momenti culminanti sono l'imposizione delle mani (gesto antichissimo con cui viene trasmesso il dono dello Spirito Santo) e la preghiera consacratoria (con cui si chiede a Dio la speciale grazia divina di cui ha bisogno l'ordinando per compiere il proprio ministero). L'ordinazione dei diaconi e dei preti viene impartita dal vescovo; l'ordinazione dei vescovi (chiamata consacrazione) viene impartita secondo il diritto canonico da almeno tre vescovi, tuttavia è valida anche se è impartita da un vescovo solo.

Uffici ecclesiastici che richiedono il Sacramento dell'Ordine

Nella Chiesa cattolica di Rito Latino esistono numerosi uffici riservati ad appartenenti all'ordine sacro:


  • Arcivescovo e Vescovo

  • Patriarca

  • Cardinale

  • Parroco

  • Vicario parrocchiale

  • Aiuto pastorale

  • Cappellano, e in particolare Cappellano militare

Protestantesimo

Diverse Chiese sorte dalla Riforma protestante hanno mantenuto il termine di ordine sacro, a cui però generalmente non riconoscono il carattere di Sacramento.

Altre Chiese protestanti non hanno il termine di Ordine Sacro, ma solo un servizio pastorale non ordinato.

Ai ministri non è prescritto il celibato, e fino al XX secolo non erano ammesse donne al ministero. Questa regola è stata abbandonata da numerose denominazioni protestanti anche di ordinamento episcopale, che hanno progressivamente ordinato le donne nei vari gradi dell'ordine.



Presbitero

cattolica. Nel linguaggio quotidiano viene anche chiamato sacerdote, ma va tenuto presente che tale termine, riferito al sacerdozio ministeriale, indica propriamente sia il presbitero che il vescovo.

Il presbiterato costituisce il secondo grado (superiore al diacono ed inferiore al vescovo) del Sacramento dell'Ordine. Si diventa presbiteri attraverso l'Ordinazione Presbiterale.

È errata la confusione che talvolta viene popolarmente fatta tra preti, monaci e frati:

i primi sono tali in forza di un Sacramento, i secondi e terzi rappresentano una forma di vita religiosa, normalmente contrassegnata dai voti religiosi. Molti religiosi comunque ricevono anche l'ordinazione presbiterale.

Caratteristiche, funzioni e formazione dei presbiteri sono in parte mutate lungo la bimillenaria Tradizione cristiana. In base all'ecclesiologia delineata dal Concilio Vaticano II, che si ricollega all'ecclesiologia del Nuovo Testamento, l'attività del presbitero è finalizzata al servizio della comunità cristiana in un'ottica di carità pastorale, che si concretizza nel triplice compito (munus):



  • presidenza della liturgia;

  • guida della comunità;

  • annuncio della parola.

I tre compiti (tria munera) sono modellati a imitazione di Cristo sacerdote, re (servo) e profeta.

Etimologia e termini affini

Lungo la tradizione cristiana vi è stata una certa confusione ed evoluzione circa il termine presbitero e altri titoli affini. Di seguito sono presentati i termini col significato attuale.


  • ministro ordinato o sacro (latino minìstrum, "servo", da mìnus, "meno"): un battezzato che ha ricevuto uno dei tre gradi del sacramento dell'Ordine (diacono, presbitero, vescovo). Può essere inserito in un ordine religioso (ministro religioso) oppure no (ministro secolare o diocesano). I ministeri ordinati vanno distinti dai ministeri laicali, cioè lettori o accoliti, che lo diventano con appositi riti che non sono però sacramenti;

  • sacerdote (latino sacerdòtem, "colui che dà il sacro"): in senso esteso è ogni battezzato, sia laico (sacerdozio battesimale o comune) sia ministro ordinato (sacerdozio ministeriale o gerarchico, che non include però i diaconi).[1] Nel linguaggio comune e spesso nei documenti ecclesiali è a volte sinonimo di presbitero, mentre altre volte indica sia il presbitero che il Vescovo;

  • parroco (dal greco παροικία, paroikía "aggregato di case", o meno probabilmente πάροχος, párokos, "amministratore"): un presbitero che guida una parrocchia, cioè una comunità locale di fedeli;

  • chierico (greco κληρικός, klerikòs, "sorteggiato, eletto, scelto"): un battezzato che fa parte del clero, cioè che ha ricevuto l'ordinazione diaconale.[2] In passato venivano detti chierici anche tutti coloro che avevano ricevuto un ministero minore, e il segno esteriore di questa appartenenza era la tonsura o "chierica";[3]

  • padre: in Italia è il titolo che si usa per i religiosi che sono anche presbiteri. Nella forma "Santo Padre" è anche uno dei titoli del Papa;

  • don (contrazione del latino dominus, "signore"): titolo usato per i presbiteri;

  • monsignore (dal francese monseigneur, "mio signore"): titolo usato per i presbiteri insigniti di particolari onorificenze pontificie nonché per i vescovi;

  • pastore: in senso generico e allegorico indica una persona che dirige dei fedeli (pecore), dunque anche i presbiteri; è usato soprattutto dalle confessioni cristiane protestanti per indicare il responsabile della comunità.

Storia

Lungo la bimillenaria tradizione cristiana e cattolica si è assistito a una notevole evoluzione quanto a caratteristiche, funzioni, itinerario formativo dei sacerdoti o presbiteri. Quanto alla definizione del modello ideale, la riflessione si è focalizzata in particolare sul ruolo del vescovo più che su quello del presbitero.



Antico Testamento

Il ruolo e i compiti svolti dal sacerdote (ebraico kohèn, pl. kohanìm) della tradizione ebraica classica, cioè fino al I secolo d.C., sono descritti in alcuni brani dell'Antico Testamento (in particolare Es 28-29 e Lev 8) che sono stati definitivamente redatti in epoca post-esilica (VI-V secolo a.C.) sulla base di tradizioni precedenti (Ska, 1998). Secondo i testi biblici lo status sacerdotale fu fondato e definito da Mosè (circa XIII secolo a.C.) dietro diretta indicazione di Dio. Beneficiari dell'investitura divina furono il fratello di Mosè, Aronne, e i suoi discendenti maschi (aronnidi), sottoclan della tribù dei leviti. Ai leviti non aronnidi erano riservati compiti cultuali di secondo piano come il canto, l'assistenza ai sacrifici, la cura degli oggetti liturgici.

Oltre al fattore ascritto della discendenza aronnide ai sacerdoti non venivano richieste particolari doti devozionali, morali, sociali o intellettuali. Gli unici fattori impedienti erano difetti di natura fisica, presenti dalla nascita o acquisiti in seguito a vecchiaia e/o malattia (Lev 21-22). Esistevano poi numerose norme di purità cultuale, come p.es. non toccare cadaveri o non mangiare cibi considerati impuri, che costituivano impedimenti temporanei (ib.). La parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37), al di là del contesto fittizio, può essere indicativa del fare superiore, freddo e distaccato che caratterizzava sacerdoti e leviti agli occhi del popolo. Anche l'accusa del Battista circa l'orgoglio di farisei e sadducei (Mt 3,7-9 p.) può essere così contestualizzata, e lo stesso dicasi per gli strali di Gesù (v. dopo) che lo porteranno in croce. La dura invettiva di Ez 34 contro i pastori "che pascono se stessi e non il gregge" è rivolta principalmente ai regnanti ma è possibile che il profeta volesse comprendere anche i capi religiosi (così l'interpretazione di Agostino, v. dopo).

Secondo i testi biblici i sacerdoti ebraici svolgevano diverse funzioni. La principale di queste era quella sacrificale-cultuale, consistente nell'offrire sacrifici a Dio, cioè bruciare sull'altare animali o sostanze vegetali, in particolare nel contesto del tempio di Gerusalemme (Dt 33,10; Lev 1-7). Il legame tra i sacerdoti e il tempio era così stretto che la sua distruzione nel 70 da parte dei romani, e soprattutto la successiva distruzione della città nel 135, implicarono la scomparsa della classe sacerdotale.

Altre funzioni dei sacerdoti erano: quella oracolare e divinatoria, cioè annunciare oracoli, detti, esortazioni, minacce attribuiti a Dio (Nm 27,21; Dt 33,8; 1Sam 14,41; 23,9; 30,7), funzione che divenne in seguito propria dei vari profeti istituzionali e carismatici; didattica, cioè insegnare e istruire (Dt 31,9; 33,9-10; Ag 2,11-14; Zc 7,3; Mal 2,7); giuridica, cioè giudicare e mediare nelle varie questioni sociali (Dt 21,1-9; Nm 5,11-31), che venne progressivamente assunta dai dottori della legge o scribi.

Elemento comune di queste funzioni è il tema della mediazione:

il sacerdote ebraico rappresentava un ponte tra il mondo profano, comune e terreno del popolo e quello sacro, totalmente altro (ganz andere) della divinità.

Dal punto di vista organizzativo, testi di epoca recente (Nee 7; 10; 12; 1Cr 24 del IV-III sec. a.C.) testimoniano un'organizzazione dei sacerdoti in 24 classi sacerdotali che a turni settimanali gestivano il culto del tempio. Il sostentamento economico dei sacerdoti derivava da una parte a loro riservata delle offerte vegetali e animali bruciate nel tempio.

Più complessa era la nomina del sommo sacerdote, capo della classe sacerdotale a cui spettavano particolari privilegi nel culto, la cui carica era di durata annuale eventualmente reiterabile. Anche in questo caso oltre alla discendenza aronnide non venivano richieste particolari caratteristiche devozionali e/o morali, e la nomina della carica prestigiosa era spesso condizionata dal potere politico e da disegni, alleanze e complotti che poco avevano a che fare con la sfera propriamente religiosa. Per esempio il più noto dei sommi sacerdoti, Anania o Anano (l'Anna evangelico), doveva essere particolarmente astuto e abile nel destreggiarsi tra gli odiati occupanti romani e le fazioni rappresentate dalle varie correnti religiose ebraiche e dalle famiglie aristocratiche giudaiche: occupò la carica tra il 6 e il 15 d.C. e in seguito fece nominare il genero Caifa e 5 suoi figli, monopolizzando di fatto il sommo sacerdozio fino agli anni 60.

Sacerdote (ebraismo)

Il sacerdote dell'Antico Testamento è l'uomo adibito al culto, in particolare nel Tempio di Gerusalemme. In Israele il sacerdozio costituisce un'istituzione permanente di uomini dedicati al servizio di JHWH.

Il termine ebraico per "sacerdote" è cohen (כּהן, traslitterato anche kohèn), pl. cohanim (כּהנִים, traslitterato anche kohaním). In greco il termine usato è ἱερεύς, hiereús.

Storia


Il sacerdozio dell'Antico Testamento ha avuto uno sviluppo e una storia molto complessi.

L'ambiente circostante

Presso i popoli civili che circondavano Israele la funzione sacerdotale era sovente assicurata dal re, specialmente in Mesopotamia e in Egitto; il re era in questo assistito da un clero organizzato gerarchicamente, per lo più ereditario, con le caratteristiche di casta.



L'epoca dei patriarchi

Le tradizioni della Genesi mostrano i patriarchi che costruiscono altari in Canaan (Gen 12,7-8; 13,18; 26,25) ed offrono sacrifici (Gen 22; 31,54; 46,1). I patriarchi esercitano il sacerdozio familiare, praticato nella maggior parte dei popoli antichi.

I soli sacerdoti che compaiono in questa epoca sono stranieri: Melchisedec, sacerdote-re di Gerusalemme (Gen 14,18-20) ed i sacerdoti del Faraone (Gen 41,45; 47,22). La tribù di Levi è ancora soltanto una tribù profana, senza funzioni sacre (Gen 34,25-31; 49,5-7).

L'epoca mosaica

A partire da Mosè, anch'egli levita, sembra farsi strada la specializzazione di questa tribù nelle funzioni del culto. Il racconto arcaico di Es 32,25-29 esprime il carattere essenziale del suo sacerdozio: essa è eletta e consacrata da Dio stesso per il suo servizio. La benedizione di Mosè, a differenza di quella di Giacobbe, le attribuisce i compiti specifici dei sacerdoti (Dt 33,8-11).

I leviti sono allora i sacerdoti per eccellenza (Gdc 17,7-13; 18,19), e sono addetti ai vari santuari del paese. Ma a lato del sacerdozio levitico continua ad essere esercitato il sacerdozio familiare (Gdc 6,18-29; 13,19; 17,5 1Sam 7,1).

L'epoca dei re

Sotto la monarchia il re esercita parecchie funzioni sacerdotali, alla stessa maniera dei re dei popoli vicini:

offre sacrifici; così Saul (1Sam 13,9) Davide (2Sam 6,13.17; 24,22-25) e tutti i re seguenti, fino ad Acaz (2Re 16,13);

benedice il popolo (2Sam 1,18; 1Re 8,14).

Tuttavia il re riceve il titolo di sacerdote solo nell'antico Salmi 110[109],4, che lo paragona a Melchisedec; in pratica, nonostante questa allusione al sacerdozio regale di Canaan, egli è più un patrono del sacerdozio che un membro della casta sacra.

Di fatto il sacerdozio divenne un'istituzione organizzata soprattutto nel santuario di Gerusalemme. Nei santuari fuori di Gerusalemme, preesistenti a quello di Gerusalemme, e soprattutto in Giudea, i leviti dovevano essere molto numerosi. Sembra che Davide e Salomone abbiano cercato di distribuire i leviti in tutti i santuari del paese (Gs 21; Gdc 18,30), ma parecchi santuari locali avevano sacerdoti di origine diversa (1Re 12,31).

All'epoca di Davide il Tempio di Gerusalemme è il centro cultuale di Israele. In un primo momento se ne dividono il servizio due sacerdoti:

Ebiatar, che è un discendente di Eli, proveniente dal santuario di Silo, molto probabilmente un levita (2Sam 8,17); la sua famiglia sarà messa in disparte da Salomone (1Re 2,26-27);

Sadoc, la cui origine è sconosciuta; saranno i suoi discendenti a dirigere il sacerdozio nel Tempio fino al II secolo a.C..

Sotto gli ordini del sacerdote-capo, il sacerdozio di Gerusalemme conta diversi subalterni. Il personale del Tempio, prima dell'esilio babilonese, conta persino degli incirconcisi (Es 44,7-9; cfr. Gs 9,27).

Il sacerdozio era quindi ereditario (cfr. Es 28,1-4) ed in stretto legame con la monarchia. Le sue attribuzioni non erano limitate al culto, come generalmente si crede: ai sacerdoti apparteneva l'insegnamento della Legge. A questo insegnamento sacerdotale risalgono la legislazione scritta di Israele e la trasmissione delle antiche tradizioni sulle origini e parte della poesia cultuale.

La riforma del re Giosia

La riforma di Giosia (621 a.C.) sopprime i santuari locali, consacra il monopolio dei leviti e stabilisce la supremazia del Tempio di Gerusalemme. Essa è la naturale conclusione del processo di sviluppo del sacerdozio di Gerusalemme.

Andando oltre le esigenze del Deuteronomio (18,6-8), la riforma di Gioia riservava di fatto l'esercizio delle funzioni sacerdotali ai soli discendenti di Sadoc (2Re 23,8-10). Questa riforma è il necessario preludio all'ulteriore distinzione tra sacerdoti e leviti, che sarà più netta in Ez 44,10-31.




L'esilio babilonese e il post-esilio

La caduta di Gerusalemme in mano ai babilonesi (587), con il conseguente esilio e la rovina del Tempio, sgancia il sacerdozio dalla corona e gli conferisce un'autorità maggiore sul popolo. Liberato dalle influenze e dalle tentazioni del potere politico, esercitato ormai da pagani, il sacerdozio diventa la guida religiosa della nazione.

Il progressivo scomparire del profetismo, a partire dal V secolo a.C., accentua ancora di più la sua autorità. I progetti di riforma di Ezechiele escludono il "principe" dal santuario (Ez 44,1-3; 46). La casta levitica detiene ormai un monopolio incontestato, di cui si trova eccezione soltanto in Is 66,21.

Le raccolte sacerdotali del Pentateuco (V e IV secolo a.C.), e poi l'opera del Cronista (III secolo a.C.) danno infine un quadro particolareggiato della gerarchia sacerdotale, organizzata in maniera rigorosa:

al vertice c'è il sommo sacerdote[4], figlio di Sadoc; è il successore di Aronne, tipo di tutti i sacerdoti; a partire dal IV secolo a.C. riceve un'unzione (Lev 8,12; cfr. 4,3; 16,32; Dn 9,25) che ricorda quella che in tempi anteriori consacrava i re;

sotto il sommo sacerdote stanno i sacerdoti, figli di Aronne;

infine i leviti[5], una sorta di clero inferiore, raggruppati in tre famiglie, alle quali vengono aggregati i cantori ed i portieri (1Cr 25-26).

Queste tre classi costituiscono la tribù sacra, tutta votata al servizio di YHWH.



L'epoca maccabaica

La gerarchia così stabilita non conosce ormai più variazioni, salvo che per la designazione del sommo sacerdote.

Nel 172 a.C. l'ultimo sommo sacerdote discendente da Sadoc, Onia III, è assassinato per intrighi politici (2Mac 3,34).

La rivolta dei maccabei alla grecizzazione imposta da Antioco IV Epifane termina con la investitura di Gionata, proveniente da una famiglia sacerdotale molto oscura.

Gli succede nel 143 a.C. il fratello Simone: questi costituisce il punto di partenza della dinastia degli Asmonei, sacerdoti e re (143-137 a.C.), che sono capi politici e militari più che religiosi, e che per questo provocano l'opposizione dei farisei; d'altro lato, la loro origine non sadochita non è accettata da clero tradizionalista, e la setta sacerdotale di Qumran effettua uno scisma.

A partire poi dal regno di Erode il Grande (37 a.C.), i sommi sacerdoti sono designati dall'autorità politica, che li sceglie tra le grandi famiglie sacerdotali, le quali costituiscono il gruppo dei "sommi sacerdoti", così nominati nel Nuovo Testamento (Lc 3,2; At 4,6).



Funzioni

In Israele, nonostante l'evoluzione della società e lo sviluppo dottrinale che si realizza nel corso delle età, il sacerdozio esercita sempre due ministeri fondamentali, che corrispondono a due forme di mediazione: il servizio del culto ed il servizio della parola.





Funzioni cultuali

Il sacerdote è in Israele l'uomo del santuario:

è il custode dell'Arca nell'epoca antica (1Sam 1-4; 2Sam 15,24-29);

accoglie i fedeli nella casa di YHWH (1Sam 1);

presiede alle liturgie in occasione delle feste del popolo (Lev 23,11.20).

Atto essenziale del sacerdote è il sacrificio. In esso egli appare nella pienezza della sua funzione di mediatore: presenta a Dio l'offerta dei suoi fedeli e trasmette a questi la benedizione divina:

così Mosè nel sacrificio di stipulazione dell'alleanza del Sinai (Es 24,4-8);

così Levi, capo di tutta la dinastia sacerdotale (Dt 33,10).

Dopo l'esilio babilonese i sacerdoti svolgono questo ufficio ogni giorno nell'offerta del sacrificio perpetuo (Es 29,38-42).

Una volta all'anno il sommo sacerdote appare nella sua funzione di mediatore supremo officiando, nel giorno dell'espiazione (yom kippur), per il perdono di tutti i peccati del suo popolo (Lev 16; Sir 50,5-21).

In forma accessoria il sacerdote è pure incaricato dei riti di consacrazione e di purificazione:

l'unzione dei re (1Re 1,39; 2Re 11,12);

la purificazione dei lebbrosi (Lev 14) e della puerpera (Lev 12,6-8).

Il servizio della parola

Se in Mesopotamia ed in Egitto il sacerdote esercitava la divinazione, rispondendo in nome del suo dio alle consultazioni dei fedeli, nell'antico Israele, il sacerdote svolge una funzione analoga usando l'efod (1Sam 30,7-8), l'Urim e Tummim (1Sam 14,36-42; Dt 33,8); ma di queste funzioni si parla più dopo Davide, poiché in Israele la parola di Dio, intesa come parola adattata alle circostanze della vita, giunge al suo popolo per un'altra via, quella dei profeti mossi dallo Spirito.

Ma esiste pure una forma tradizionale della parola, che ha il suo punto di partenza nei grandi avvenimenti della storia della salvezza e nelle clausole del1'alleanza del Sinai. Questa tradizione sacra si cristallizza in due forme:

nei racconti che richiamano i grandi ricordi del passato;

nella Legge che trova in essi il suo significato.

I sacerdoti sono i ministri di questa parola (vedi per esempio Aronne in Es 4,14-16). Nella liturgia delle feste, essi ripetono ai fedeli i racconti su cui si fonda la fede di Israele (Es 1-15, Gs 2-6 sono probabilmente echi di queste celebrazioni). In occasione delle rinnovazioni dell'alleanza essi proclamano la Torah (Es 24,7; Dt 27; Nee 8), e della Torah sono anche gli interpreti ordinari; mediante istruzioni pratiche rispondono alle consultazioni dei fedeli (Dt 33,10; Ger 18,18; Ez 44,23; Ag 2,11-13) ed esercitano una funzione giudiziaria (Dt 17,8-13; Ez 44,23-24). Come prolungamento di queste attività, essi assicurano la redazione scritta della legge nei diversi codici:



Deuteronomio

Codice di santità (Lev 17-26)

Torah di Ezechiele (Ez 40-48)

legislazione sacerdotale (in Es, Lev, Num)

È da far risalire ai sacerdoti anche la compilazione finale del Pentateuco (cfr. Esd 7,14-26; Nee 8).

Si comprende così perché, nei libri dell'Antico Testamento, il sacerdote appare come l'uomo della conoscenza (Os 4,6; Mal 2,6-7; Sir 45,17): egli è il mediatore della parola di Dio nella sua forma tradizionale di storia e di codici.

Negli ultimi secoli del giudaismo appaiono fenomeni nuovi:

si moltiplicano le sinagoghe

aumenta l'autorità degli scribi laici:

essi, per lo più collegati alla setta dei farisei, saranno al tempo di Gesù i maestri principali in Israele.

Il sacerdozio si concentra allora nelle sue funzioni rituali.

La tensione verso il superamento nell'Antico Testamento

Il sacerdozio dell'Antico Testamento ha realizzato la missione di conservare viva in Israele la tradizione di Mosè e dei profeti, ed ha accompagnato la vita religiosa del popolo di Dio. Ma già nello stesso Antico Testamento si trovano passi in direzione di un suo superamento.



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