Gente a levante!



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FINO ALL’ULTIMO SANGUE!

Alla prima ora del mattino tutti l’udirono. Il suono cupo rimbombava fino alle vette della cordigliera cantabrica.

La luna, oramai evanescente, stava lasciando il posto agli albori del nuovo giorno. L’aria era frizzante e già profumava d’estate.
Sugli spalti della prima cinta attendevano ansiosi le file di arcieri visigoti, la vista attenta sulle sterminate coorti di Saraceni che scalpitavano impazienti sulla radura davanti. Guardavano, con timore, le grandi torri mobili che il nemico s’apprestava a muovere verso di loro e le centinaia di scale che ondeggiavano sulla fiumana verde, nera e bluastra che popolava l’orizzonte.

Bartuelo, dal parapetto di legno del torrione di sud-est, incoraggiava i cinquecento soldati asturiani asserragliati sotto di lui. Fruela gli stava accanto. Il duca Petro e il luogotenente Anserico osservavano il nemico dal bastione del portone centrale, guardando attraverso delle finestrelle sotto una pesante tettoia di coppi. Ermarico stava sulla torre più bassa di sud-ovest. Il generale Gunderico comandava i suoi centurioni dagli spalti della seconda cinta. Siserico vegliava sopra il portone della terza cinta, affiancato da Hernando e Toribio.

Liuva era stato mandato a comandare un manipolo di balestrieri lungo la quarta cinta, mentre il fratello sorvegliava la quinta con una schiera di fanti. La gente era scomparsa nelle cantine e nei sotterranei.
Pochi attimi passarono dal suono del corno saraceno. Poi tutti videro l’esercito nemico chetarsi d’improvviso e un gruppo di cavalieri inturbantati trascinare una sagoma bianca fin quasi a tiro degli arcieri delle mura. “La ilaha illa Allah!”, urlarono e lasciarono il corpo esanime del vecchio vescovo alla luce del sole nascente.

Quello era l’ultimo affronto. Lo smacco intimidatorio che molti s’aspettavano.

“Lo vendicheremo!”, digrignò tra i denti il duca Petro.

Quindi le prime file di fanti saraceni cominciarono ad avanzare con le scale.

In mezzo a loro si distingueva, in sella ad un destriero bianco, un cavaliere con un grande turbante nero e la faccia coperta da un velo viola. Tariq figlio di Ziyad aveva voluto guidare di persona l’attacco. Così alzato il braccio destro verso il cielo, urlò anche lui: “Allah Akbar!”. E le truppe cominciarono a correre esultanti verso le mura della città.
Al tempo stesso il duca Petro abbassò il braccio destro. Anserico sventolò il vessillo dell’aquila ed Ermarico colse il segnale con un gesto. Poi anche lui abbassò il braccio e subito partì un nugolo di frecce che oscurarono il sole.
I fanti berberi furono falcidiati per primi. I piccoli scudi di vimini non riuscivano a proteggerli dalla precisione dei lunghi dardi goti. Molti furono colpiti al collo e al ventre. Altri alla testa. Ma i più riuscirono ad avvicinarsi e ad alzare le prime scale. Una seconda raffica di frecce li colpì facilmente. Ma non servì. Altre centinaia di Berberi a piedi scalzi correvano in soccorso dei primi. Portavano caschi di cuoio leggeri, annodati sotto il mento e avvolti da turbanti bianchi. Dalle retrovie, gli arcieri arabi scoccarono ventate di frecce in direzione dei merli centrali. I Berberi cominciarono a salire sulle scale. I primi erano già a poche braccia dal crinale delle mura. Allora partirono i giavellotti asturiani. Molti furono colpiti al torace. Altri solo sfiorati. Pochi riuscirono a farcela e saltarono i merli, dove cominciarono ad affrontare le picche visigote e le asce asturiane.

Bartuelo sbraitava ordini all’impazzata. Fruela era corso giù dai pioli del torrione per aiutare i compagni sugli spalti. Un enorme uomo vestito di blu gli saltò davanti e cominciò a roteare la sua mazza nello spazio. Fruela parò i primi colpi con lo scudo, poi riuscì a trafiggerlo sotto la panciera di cuoio.

Un altro Berbero fu aggredito a colpi di spadone da due Asturiani. Poi gli fu mozzata la testa. Fruela corse lungo la pensilina di legno, già macchiata di sangue e coperta dai corpi uccisi delle prime frecce nemiche. Il fracasso era assordante. Gli Asturiani fermarono con facilità quell’assalto. In meno di mezz’ora avevano fatto fuori almeno cento Berberi. Alcuni ne buttarono giù i corpi. Le scale erano state sganciate anch’esse e respinte a terra. Allora i luogotenenti di Tariq concentrarono gli ordini sugli arcieri arabi. Questi tesero gli archi a doppia esse e mirarono ai torrioni. Troppo tardi. Ermarico, con prontezza di riflessi, fece partire il fuoco delle balliste. Subito, grossi proiettili da cento libbre si schiantarono sulla massa antistante le mura e fino a raggiungere gli stessi arcieri che furono decimati tra grida spaventevoli. Tariq non fece una smorfia e ordinò il secondo attacco. Allora dalle finestre più basse del torrione di Ermarico partirono le lunghissime frecce caricate sugli ossíbeli. La forza era devastante. Alcune centrarono anche tre uomini in un colpo solo. Ma la precisione era scarsa. Inoltre il tiro era troppo lungo. Gran parte finì conficcata sulla terra vicina alle ali più lontane della cavalleria nemica. I cavalli bardati di nero non s’agitarono nemmeno tanto. Tariq sorrise e ordinò ai suoi arcieri di tirare di nuovo. Il torrione di sud-ovest fu investito da una coltre di dardi. Parecchi artiglieri persero la vita dietro alle finestre e anche sugli spalti. Ermarico fu ferito ad una spalla. Così proseguì il secondo attacco con le scale. Questa volta almeno cinquecento Berberi si lanciarono sui pioli di una cinquantina di scale. La battaglia sul crinale degli spalti fu intensa. Passò circa un’ora prima che i Visigoti di Anserico e gli Asturiani di Bartuelo riuscissero a fermarli di nuovo.

Ma alla fine ce l’avevano fatta. Ora il sole era alto. Forse la terza ora. Gunderico seguiva attentamente dalla sua postazione sulla seconda cinta. Con lui stavano in attesa quattrocento Visigoti. Altri trecento erano stanziati alle cinte più alte. Alla prima cinta, inclusi gli Asturiani, c’erano quindi ottocento uomini, ma le perdite cominciavano a sentirsi, specie fra i Visigoti degli spalti vicini alla torre di sud-ovest.


Alla quarta ora, Tariq ordinò di far avanzare le torri mobili. Era ancora presto per l’ancoraggio, ma intanto dovevano avvicinarsi e posizionarsi appena fuori dal tiro nemico.

Fatto questo, il generale berbero ordinò di cessare il fuoco.

“Ma che sta facendo quello?”, chiese un ufficiale vicino a Petro. “Prende tempo, per capire meglio dove arcionare le mura!”, rispose Anserico, il piccolo e tozzo luogotenente dalla barba rossa lunga fino alla pancia.

“Già, anch’io mi chiedo cosa stia pensando di fare, adesso”, mormorò il duca.

La risposta arrivò poco dopo. Le file saracene si allargarono e un poderoso ariete protetto da una tettoia iniziò a rullare verso il portone della città. Non c’era modo di fermarlo. Gli uomini che lo manovravano erano ben protetti dalle pareti di quel guscio di legno. Le torri mobili si avvicinarono ancora. Petro diede ordine di preparare le assi di speronamento. Subito decine di soldati si raccolsero dietro agli spalti per sollevare delle enormi forche con l’intento di speronare e rovesciare le torri, non appena fossero alla distanza giusta. Ma invece Tariq stava solo giocando una finta. D’improvviso, le catapulte saracene cominciarono a scattare come molle impazzite. Nel giro di pochi minuti tutte le torri della prima e della seconda cinta furono bersagliate da enormi massi. Il tetto della torre di sud-ovest fu sfondato. Ermarico ordinò ai suoi uomini di lasciarla. Nemmeno lui si aspettava quella mossa. Si concentrarono così sugli spalti centrali dove divennero oggetto delle frecce arabe. Ermarico stava cercando di raggiungere il bastione presidiato da Petro ma fu trafitto al collo e morì all’istante. Lo sgomento si diffuse tra i suoi soldati che non ebbero nemmeno il tempo di raccogliere le sue ultime preghiere. Petro e Anserico videro il loro vecchio compagno morire a poche braccia di distanza. Si guardarono negli occhi e imprecarono assieme.
Intanto, un nuovo attacco con le scale era già iniziato. Questa volta i Berberi riuscirono a tenere a lungo l’arrampicamento sugli spalti mentre i proiettili delle catapulte si riversavano ora ferocemente sulla seconda cinta. In pochi minuti decine di loro guizzarono dietro i merli. Petro urlava di colpirli con le picche lunghe e non perdere tempo con gli spadoni. Ma i duelli ricominciarono. Bartuelo riuscì a ucciderne tre. Fruela corse in suo soccorso, ma fu stordito da una mazzata. Bartuelo lanciò allora la sua ascia fra gli occhi del Berbero che si stava avvicinando al ragazzo per ucciderlo. Così gli salvò la vita. Ma poi un dardo gli si conficcò nella maglia all’altezza della spalla destra e Bartuelo si fermò per il dolore. Allora Fruela fu preso da una rabbia atroce. Sfoderò il pugnale e corse sugli spalti per trafiggere tutti quelli che si affacciavano. Sventrò almeno cinque uomini, fracassò la testa di altri due con la mazza, né stordì uno mentre era ancora sulla scala, facendolo cadere. Poi tornò a soccorrere il suo capo. Questi si tolse la freccia dalla maglia di ferro e ordinò ai pochi Asturiani rimasti di ritirarsi nella torre di sud-est. Qui fece caricare altre lance sulle balliste e le fece dirigere sulla pensilina. Così falciarono tutti quelli che erano riusciti ad arrivare lassù.

Poi comandò ai pochi arcieri sulla sommità di finire quelli che erano ancora sulle scale. In poco tempo gli Asturiani riuscirono a fermare anche il terzo attacco. Circa trecento uomini restavano esanimi sugli spalti.

I corvi e gli avvoltoi già volavano sopra di loro. Il trombettiere di Petro suonò la ritirata e i Visigoti seguirono il duca e Anserico giù per i gradini che scendevano dal bastione e risalirono le vie della città che portavano alla seconda cinta. Ma Bartuelo ordinò agli Asturiani di restare. Il portone era ancora chiuso. Forse c’era ancora speranza. Qualche ora di tempo e i Saraceni lo avrebbero sfondato con il loro ariete. Ma anche loro avevano perso parecchi uomini, forse cinquecento, pochi su settemila, ma abbastanza per suggerire una pausa.

Tariq alzò il braccio sinistro, il corno risuonò ancora e la marea degli uomini blu e verdi indietreggiò dietro la linea di tiro.

Era ormai la sesta ora passata. Le mura della prima cinta erano bagnate di sangue. Il torrione di sud-ovest era definitivamente divelto. Davanti stava un tappeto di salme saracene e cristiane. Ora gli avvoltoi si avventarono senza scrupoli.
“Ma che sta facendo Bartuelo, non viene?”, disse Gunderico. Petro saltò sulla pedana che stava sotto la tettoia del bastione della seconda cinta per guardare meglio. “Non capisco, gli ordini erano chiari. Avrebbe dovuto essere già qui!”, rispose il duca. “Quell’uomo è matto da legare. Mi hanno detto che è pure ferito!”, aggiunse Anserico.

“Abbiamo già perso Ermarico, non possiamo perdere anche lui adesso!”, urlò Petro.

Gunderico abbassò lo sguardo. Ermarico era il suo migliore amico. Erano cresciuti assieme e lo aveva portato con sè anche a Cordoba.

Petro notò la sua tristezza. “Non m’importa se moriremo tutti. Io la mia gente la difenderò fino all’ultimo sangue!”, disse. Gunderico non replicò.


A quel punto udirono il suono della tromba asturiana. “Ma che fa? È impazzito davvero?”, disse Anserico, mentre tutti si affacciavano alle finestrelle.

Da lassù non si vedeva bene cosa potesse accadere sotto le mura della prima cinta, ma lo sguardo poteva arrivare alle prime file saracene.

Fu così che, con grande sorpresa, assistettero alla sortita di Bartuelo degli Arcadeuni.
Il giovane dal cimiero a tre ciuffi stava caricando a piedi i Berberi davanti alle torri mobili. L’impatto fu sentito come un tonfo secco. Quattrocento uomini, armati fino ai denti, si scagliarono come belve selvaggie sugli scudi esitanti delle truppe berbere. Lo scontro durò circa venti minuti, poi si sentì di nuovo la tromba asturiana. Il cielo fu coperto da altri nugoli di frecce che scomparvero sotto le prime mura. Infine s’udì il rumore delle catene del portone centrale. Erano rientrati.

Poco più tardi, un mingherlino dalla faccia triangolare si presentò davanti a Petro. Piangeva. “Ha detto che voleva morire così!”, disse Fruela davanti alle facce attonite di quei vecchi guerrieri.

Petro gli posò il guantone sulla spalla. “Oggi hai imparato che i vecchi vanno ascoltati!”, disse. “Ma quel tuo comandante sarà ricordato come un’eroe!”.

Gli altri assentirono. Fruela era riuscito a riportare salvi solo cento asturiani.

“Prendine tu il comando. Ora ti nomino centurione. Portali tutti alla terza cinta, e dì a mio cognato di dar loro acqua e zuppa di lardo!”, ordinò il duca.

Poi si volse ai suoi luogotenenti. “Sarà dura, ma comincio a credere che forse ce la faremo!”.

Anserico allargò le braccia. Gunderico rimase silenzioso.
Passarono altre quattro ore. Il sole era ancora abbastanza alto e sulla città incombeva il silenzio più assoluto.

Petro e i suoi non si muovevano dalle finestrelle del bastione della seconda cinta, solo distratti per un po’ da un pasto frugale di lardo e pane spalmato di miele.

Nessuno parlava. Alla terza cinta, Hernando e Toribio aiutavano Fruela e i suoi uomini a rifocillarsi, distribuendo loro quello che alcune ragazze avevano portato con i loro cestelli. I chirurghi accudirono i feriti. Fruela fu fasciato alla testa dove la mazzata berbera gli aveva provocato un grosso taglio sopra la tempia sinistra.

I messaggeri correvano per la città raggiungendo le cinte più alte.

Lassù Liuva e Teudiselo controllavano, anche loro in silenzio, le munizioni delle balliste e delle balestre.

Fruela chiese a Toribio: “dov’è Flavio?”.

“Bella domanda. È da ieri sera che è scomparso. Credevo che fosse con voi!”.

“No, nessuno l’ha visto alla prima cinta”, replicò l’asturiano.

“Forse è tra le rovine dei templi, a pregare gli Dei suoi”, interloquì Hernando.

Toribio ci rimase di stucco. Il padre parlava degli Dei antichi come se fossero storia di altri.

Hernando capì cosa stava pensando. Così gli mostrò un piccolo ciondolo con una croce celtica che gli pendeva dal collo, vicino alla pietra di malachite. “Chi ve lo ha dato?”, chiese il figlio. “Diciamo un mio vecchio amico bizantino… lo conosci?”, rispose il padre. I due scoppiarono in una risata.
Alla decima ora suonarono le campane del vespero. I rintocchi rimbalzavano dalla chiesa di Sant’Eulalia a quella di San Luca e fin su, alla chiesa di San Firmino.

Subito echeggiarono i canti dei fedeli riunitisi nella basilica di Sant’Eufemia.

Toribio e il padre pregarono assieme, inginocchiati sotto gli spalti, per la prima volta nella loro vita. Fruela li accompagnò assieme a molti dei suoi soldati.
Poi tornò il silenzio.

E quando il sole stava ormai avvicinandosi al tramonto, s’udì una botta fortissima.

“È l’ariete!”, mormorò Hernando.

Seguirono altre venti scosse che fecero tremare anche le assi di legno che li sorreggevano. Poi il fragore del portone della prima cinta che andava in frantumi. Quindi un baccano di urla e uno strepitìo di ferri e zoccoli di cavalli.

I Saraceni erano entrati.

Ben presto le case furono invase e saccheggiate. Alcune furono messe a fuoco. Ma il nemico non trovò anima viva.

I cittadini non stavano più laggiù.
Il cavaliere nero che si affacciò sul destriero bianco non portava più il turbante e il velo di seta viola sulla faccia. Ora Tariq ibn Ziyad indossava un elmo d’oro, appuntito e avvolto da una sciarpa bianca. Attraverso la visiera di cuoio scrutava i profili del bastione della seconda cinta. Era teso e arrabbiatissimo.
Dietro alle finestrelle, Petro se la rideva. Il terribile generale era caduto nel suo tranello. Le torri mobili non gli sarebbero servite. Impossibile portarle attraverso la città. Gli arcieri nemmeno. I tetti erano troppo disordinati.

La difesa più poderosa stava proprio in quelle duecento braccia di case e palazzi che si alzavano tra la prima e la seconda cinta. Era la pelle di Amaya che bastava a neutralizzare l’impeto dell’attacco. Se fossero rimasti alla prima cinta, le torri li avrebbero raggiunti. Avrebbero perso la maggior parte degli uomini e la città sarebbe già finita nelle loro mani.


Il Berbero dall’espressione di pietra scrutò ancora la lunghezza di quella mura, poi si consultò con i suoi ufficiali. L’ariete che aveva sfondato il primo portone era troppo grosso per passare e così avevano dovuto lasciarlo davanti alla prima cinta.

Allora dette ordine di far portare le catapulte leggere e le balliste. Così gli artiglieri si disposero agli angoli delle case, ancora fuori tiro dagli arcieri cristiani, che li aspettavano sulle mura, separati da un enorme prato verde che copriva un pendio lungo quattrocento braccia.

Le catapulte scattarono di nuovo. I colpi si abbatterono sulle mura, poi sugli spalti, rompendo merli e parapetti. Infine anche sulle torri laterali. Ma Petro taceva e aspettava. Ora c’erano circa seicento Visigoti dietro a quegli spalti, che erano più sottili ma molto più alti di quelli della prima cinta. Gli spazi tra i merli erano chiusi da spesse paratie di legno e una tettoia di lastre di ardesia proteggeva tutta la pensilina che correva dietro la seconda cinta. Non c’era modo di vedere una sola faccia dietro quegli spalti. Eppure erano là ad aspettare, zitti e immobili, i guerrieri cristiani. E molto più freschi degli ormai spossati nemici saraceni.
Il fuoco delle catapulte riuscì a infrangere alcuni punti della lunga tettoia e ad aprire alcune brecce in alto e vicino alla torre di sud-est.

Niente di più.


Allora Tariq perse la pazienza e ordinò ugualmente l’attacco.

Mille uomini si lanciarono verso quelle mura con decine di scale.

Petro segnalò di aprire il fuoco.

Gli arcieri tolsero le paratie di legno e mirarono in mezzo alla massa. Fu una carneficina. I Saraceni non riuscirono nemmeno ad alzare le scale. Centinaia persero la vita su quel grande prato, al calar del sole.

Tariq ordinò la ritirata e si consultò ancora con i suoi luogotenenti. Poi gli venne l’idea giusta.

Faceva ancora chiaro, quando un nuovo ariete di legno dalla testa spessa almeno cinque braccia avanzò attraversò la via che portava al secondo portone.

Gli arcieri goti seguivano il movimento, pronti a colpire chiunque tentasse di farlo avvicinare.

Ma gli Arabi che lo spingevano furono subito circondati da un drappello di Berberi che levarono dinanzi a loro i lunghi scudi visigoti che avevano preso dai soldati morti alla prima cinta. Così crearono una sorta di testuggine, scarsamente penetrabile dalle frecce nemiche, che riuscì, sia pure con fatica ad avanzare attraverso il prato. Al tempo stesso un gruppo di arcieri inginocchiati a distanza cominciò a tirare verso gli spalti, costringendo così i loro avversari a rimanere nascosti mentre l’ariete avanzava.


L’operazione durò qualche minuto. Poi gli Arabi che stavano dentro la testuggine cominciarono a far oscillare il trave dell’ariete e così cominciò il primo impatto con il portone.
Il duca Petro rimase meravigliato da quella mossa, ma non si perdette d’animo.

Sapeva che Gunderico aveva preparato il terreno dietro al portone. Allora ordinò al suo generale di far scendere dalle mura cinquecento uomini, di schierarsi e attendere che il nemico travolgesse l’entrata. Poi, assieme ad Anserico, scese dal bastione.

“Saliamo al tempio di Jupiter! Aspetteremo lassù gli esiti di questa seconda battaglia!”, disse.
La luce non era ancora scomparsa quando i Saraceni riuscirono a fracassare anche il secondo portone.

La testuggine nemica si scompaginò e i soldati finirono a colpi di mazza e spada i brandelli dei battenti sfondati dall’ariete.

Dietro di loro stavano ammassati altri mille commilitoni: centinaia vestivano armature leggere, per lo più di cuoio, sopra tuniche di lino blu, altre centinaia stavano ai loro lati, coperti da armature più pesanti, ma sempre di cuoio, sopra tuniche di lana verdi. I Berberi portavano il consueto mantellino bianco. Gli Arabi erano avvolti da lunghi pastrani neri. Nel giro di pochi secondi, i primi si lanciarono, urlando il nome di Allah, fra le brecce dell’entrata, saltando i detriti e alzando gli scudi di vimini all’altezza della faccia.

Non fecero molti passi. Le file davanti sprofondarono subito nelle buche truccate e rimasero infilzate dai punteruoli che Gunderico aveva fatto disporre il giorno prima.

Molti allora tentarono di fermarsi, ma furono spinti nelle buche dalla massa che arrivava da dietro. Allora cominciò la raffica degli arcieri visigoti che si erano appostati sopra le gradinate del tempio di Marte. I Saraceni cadevano in successione al ritmo degli ordini dei centurioni di Gunderico. Non ne mancava uno. In pochi minuti almeno duecento uomini persero la vita in quel trabocchetto. I corpi si afflosciarono uno sull’altro e ben presto formarono una duna insormontabile di corazze, scudi e carni sanguinanti.

A quel punto un ufficiale di Tariq segnò agli Arabi di non seguire i Berberi e fece avanzare le scale. Così altri trecento uomini riuscirono a salire sugli spalti abbandonati e a prendere il bastione e le torri. Da qui cominciarono a scoccare migliaia di frecce in direzione del tempio di Marte. Allora gli arcieri visigoti si ripararono dietro alle colonne e subito iniziò il fuoco delle baliste che erano state posizionate sulla piazza antistante il tempio di Minerva. Queste erano già alzate verso le mura e riuscirono a centrare parecchi Saraceni sul bastione centrale e sulle strutture prensili che serpeggiavano attorno alle mura circolari della torre di sud-est. I Saraceni dovettero correre tutti a ripararsi dentro la torre di sud-ovest. Alcuni arcieri riuscirono a raggiungere la sommità, ma qui trovarono una cinquantina di energumeni armati di ascia e spadone. Ancora una volta i Saraceni erano stati beffati dal genio di Petro che aveva pensato che prendere la sommità di una torre attraverso le scale interne sarebbe stato impossibile.


La battaglia infuriò e fu facile per i Visigoti che stavano sopra infilzare come il burro gli sparuti gruppi di Saraceni che spuntavano dietro alle pareti interne della scala.

Al tempo stesso quasi cinquecento uomini caricarono il nemico che era riuscito a superare la linea delle buche, ormai riempite di cadaveri.

Fu un corpo a corpo che durò almeno mezz’ora, solo a tratti interrotto da piccole cariche di Visigoti a cavallo che scendevano dai viali dei templi a tutta velocità, schiacciando sotto gli zoccoli tutto quel che trovavano.

Tariq capì subito l’inferno che lo stava frenando e dette ordine alle catapulte di concentrare il tiro a metà altezza della torre di sud-ovest. Dopo circa un quarto d’ora questa crollò, trascinando con sé i Visigoti che stavano sul suo apice.

Molti Saraceni risalirono in fretta quelle rovine ed entrarono nella seconda cinta proprio da là. Altre centinaia cominciarono a scendere dagli spalti su cui erano saliti e aggredirono i lati della massa visigota.

Il caos durò per altri dieci o venti minuti, finché almeno trecento Visigoti rimasero sul selciato dei templi. Allora Gunderico ordinò di ritirarsi al tempio di Jupiter e qui si svolse l’ultima battaglia della seconda cinta.


Cinquecento Arabi e Berberi, mescolati senza ordine di razza, si gettarono sulle gradinate urlando: “Allah è grande”. I guerrieri furono fermati dagli spadoni dei cristiani che gridavano invece il nome di Gesù.

Le facce di entrambi erano contorte e spasmodiche per la rabbia e la tensione. Gli occhi accecati dalla follia del momento. Le braccia si alzavano, scendevano, si piegavano e si estendevano, scoordinate, fra il suono di tonfi metallici e impatti più morbidi. I volti erano rigati di sangue. Sulle gradinate cominciavano a rotolare arti e teste. I busti dei decapitati stramazzavano come sacchi vuoti vicino ai grandi bracieri del tempio.

I Berberi caricavano con i loro giavellotti. I Visigoti gli intersecavano con le loro picche. Gli Arabi menavano fendenti con la scimitarra. I Visigoti con gli spadoni e le asce. Chi rimaneva senza armi schiantava lo scudo o persino l’elmo sulle teste inturbantate di bianco dei soldati blu. Anserico era ormai sepolto sotto tre corpi, con una lancia piantata nella grossa pancia.

Gunderico aveva intanto raggiunto Petro sotto il timpano centrale.

“Sono troppi, non dureremo a lungo!”, urlò il generale biondo, sudato fradicio, senza elmo e con la corazza imbrattata di polvere e sangue.

Ormai i Visigoti erano rimasti in meno di cinquanta e i saraceni continuavano ad avanzare.

Altre migliaia di uomini li avrebbero presto raggiunti.

Petro cominciò a chiedersi se avrebbe fatto in tempo a risalire fino alla terza cinta.

Forse aveva sbagliato ad attendere così tanto.

Ma in quel momento successe l’inaspettato.


Un enorme destriero bianco scalpitò per l’atrio del vecchio templio.

Sopra stava lui, l’ultimo cavaliere romano: Flavio, figlio di Mario, il capo cinto da un elmo dorato che rifletteva gli ultimi raggi solari di quel giorno.

“Per la gloria di Roma!”, gridò alzando il magnifico scudo rettangolare azzurro e subito avventò il cavallo giù per le gradinate. Il suo pilum trapassò due Saraceni in un colpo e la punta si fermò, tra scintille, sul pavimento di granito.

Con la spada mozzò quattro teste ed amputò tre braccia. I Saraceni che stavano davanti furono scioccati da quell’apparizione ed esitarono. Il tempo sufficiente per consentire a Petro e Gunderico di ritirarsi di corsa tra le sale del tempio e raggiungere la stretta via che portava alla terza cinta.

Flavio scese da cavallo ed affrontò da solo dieci uomini. Li sbudellò uno ad uno con il gladio. Poi, mentre si accaniva su un altro, fu colpito da una mazzata alla spalla destra.

Appena scosso dalla botta, si voltò e vide un alto guerriero arabo che gli stava mirando il collo con la scimitarra. Si abbassò ed evitò il colpo. Poi lo infilzò sopra l’osso pubico. L’altro gridò per il dolore e si afflosciò. Quindi altri venti Saraceni lo aggredirono da tutte le parti. Riuscì a ucciderne quattro e a ferirne sette, ma alla fine perse il gladio. Allora si difese con il pugnale e, infine, con i margini dello scudo, finché fu trafitto da un giavellotto nel mezzo della corazza, proprio tra le falere che raffiguravano Jupiter e Giunone.

Cadde in ginocchio e si preparò al colpo fatale.

Ma i Saraceni si erano misteriosamente fermati. Come colti da sacro rispetto, fecero largo attorno al Romano e lo guardarono morire senza infierire. Così se ne andò Flavio, figlio di Mario, al tramonto di quel giorno di maggio.

Con lui finiva l’ultimo eroe di un Impero leggendario.

I suoi Dei sarebbero scomparsi per sempre.

CAPITOLO XXV


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